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Il crollo di un confine già labile

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Lo spillover siriano in Libano

L’esacerbarsi della guerra in Siria continua a produrre, in maniera ormai sempre più frequente e invasiva, uno spillover in Libano. L’ultimo attentato, avvenuto a Haret Hreik, una zona della Dahiye, la periferia sciita di Beirut, roccaforte di Hezbollah, è solo l’ultimo di una lunga serie di episodi di violenza che hanno segnato il 2013 e l’inizio del 2014. Solo per menzionare gli ultimi anelli di questa catena, a novembre un’esplosione di fronte all’ambasciata iraniana, rivendicata dalle brigate filo-qaidiste Abdullah Azzam, aveva provocato 23 morti e circa 160 feriti. Nel mese di dicembre l’assassinio di uno dei leader militari di Hezbollah, Hassan al-Laqqis, la successiva uccisione di Mohammad Chatah, uomo di fiducia di Saad Hariri, principale oppositore del “Partito di Dio”, e un’imboscata di Hezbollah contro militanti del fronte islamista al-Nusra (che in Siria combatte contro il regime di Asad) avevano gettato un’ombra fosca sul principio del nuovo anno. E, infatti, il 2014 si è aperto con una nuova esplosione a Dahiye, e il riaffiorare drammatico delle tensioni tra due aree sensibili della valle della Bekka: Hermel, bastione sciita controllato da Hezbollah e Arsal, prevalentemente sunnita e bacino privilegiato della migrazione siriana in Libano.

La criticità della zona di Arsal, inoltre, non è meramente legata alla presenza siriana, ma piuttosto al fatto che qui diverse frange dell’opposizione anti-Asad e, dunque, anti-Hezbollah, si sono organizzate militarmente con la complicità di alcune fazioni libanesi ideologicamente e politicamente affini. È noto, per di più, che tra essi si annidino o si siano formate alcune cellule dei principali gruppi di combattenti islamisti, ormai invisi anche al fronte dell’opposizione militare laica anti-Assad e a gran parte della popolazione civile. Dal canto suo, il “Partito di Dio”, massicciamente presente in Siria accanto all’esercito di Assad, è diventato un attore cruciale di questa guerra (soprattutto dopo la battaglia di Qusayr, in cui proprio i miliziani dell’Hezb giocarono un ruolo chiave nello smantellare il fronte dei ribelli) e dunque, anche un target per preciso per l’opposizione.

C’è dunque un doppio piano – politico e sociale – dell’interdipendenza tra la Siria e il Libano che rende ormai il territorio dei due stati sempre più uno spazio unico, affetto da una comune matrice d’instabilità e violenza. In questa nuova drammatica dimensione, la sovranità degli stati, già storicamente e strutturalmente assai fragile, sta soccombendo sotto il proliferare di un radicalismo religioso organizzato su base settaria e militante.

Questa deriva che ormai coinvolge tutto il Levante arabo – dal Libano all’Iraq – e che è il prodotto dell’intreccio tra interessi strategici degli attori politici e la strumentalizzazione ideologica del confessionalismo, non fa che stimolare la proliferazione del radicalismo religioso organizzato su base settaria e militante.

Nonostante, infatti, tutti i partiti libanesi abbiano sottoscritto nel giugno 2012 la cosiddetta “Dichiarazione di Baabda” – un documento con cui i firmatari s’impegnano a implementare una politica di dissociazione dal conflitto in Siria – il profondissimo legame tra le due principali fazioni che combattono sul territorio siriano e i due schieramenti parlamentari libanesi, ha reso fin da subito fittizia ed effimera la volontà di arginare la guerra alle porte del confine del Libano, senza considerare che diverse migliaia di cittadini libanesi già combattono accanto all’una o all’altra parte del conflitto.

Proprio il confine siriano-libanese, anzi, non è mai stato così labile e poroso: i cittadini siriani in Libano sono ormai oltre 1,2 milioni, destinati ad aumentare in maniera pericolosamente insostenibile da parte di un paese con una popolazione che conta complessivamente 4 milioni di individui. L’inefficienza governativa, l’assenza di strutture di accoglienza adeguate per i profughi, aggravate dal vacuum politico in cui il Libano è nuovamente sprofondato dopo le dimissioni di Najib Mikati il 22 marzo 2013, non fanno che esacerbare il disagio e l’intolleranza sociale. È però fin troppo evidente che l’incapacità del nuovo primo ministro Tammam Salam di formare un nuovo governo sia legato proprio alla profonda penetrazione delle dinamiche politiche del conflitto in Siria, la conseguente spaccatura tra il campo del 14 marzo, dominato dal movimento al-Mustaqbal di Saad Hariri e quello dell’8 marzo, guidato da Hezbollah e dai veti incrociati dei rispettivi patroni regionali: per i primi l’Arabia Saudita, per i secondi l’Iran e il regime siriano.

La traduzione populista di quello che è un vero e proprio scontro geopolitico per il controllo del Levante ha però ingenerato un cortocircuito ideologico dalle conseguenze devastanti; in altri termini, i kamikaze e le autobombe che in Libano colpiscono sempre più zone nevralgiche connotate da uno specifico colore politico-confessionale, sono parte di un gioco “somma zero” in cui sunniti e sciiti stanno cercando di punirsi ed eliminarsi a vicenda.

A controbilanciare, sempre più a malapena, questa dinamica per ora c’è ancora una parte consistente di quella società libanese che ha sempre in mente gli orrori della guerra civile (1975-1990). Ma è proprio il collasso del confine che rende ormai sempre più indistinguibile l’interno dall’esterno del Libano, con il rischio che il suo territorio non solo subisca ancora una volta “le guerre degli altri” – per citare un famoso libro di Ghassan Tueni – ma, assai più pericolosamente, diventi, assieme a tutto il Levante arabo, uno spazio di nessuno.

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