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Eternamente Cafonal

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La Grande Bellezza di Sorrentino

“Non c’è riuscito Flaubert a descrivere il niente, figuriamoci io”.

Il protagonista dell’ultimo film di Sorrentino è uno scrittore che non scrive più, che arrivato a Roma sull’onda del successo del primo libro si è fatto risucchiare dal cazzeggio romano delle feste e dei salotti: “Non volevo essere un mondano, ma il re dei mondani”.

A chi gli chiede dove sia finita la sua vena letteraria, racconta: “Ho fatto tardi la notte”.

Sulle note remixate della Carrà e di Carosone, sfilano infiniti personaggi di contorno: lo scribacchino fallito (Carlo Verdone), la spogliarellista in cerca di redenzione (Sabrina Ferilli), il marito ultra presenzialista e arrapato (Carlo Buccirosso), l’ex soubrette stagionata gonfia di coca (Serena Grandi), i nobili immiseriti che partecipano alle cene dietro compenso: una galleria degli orrori che non sarebbe dispiaciuta a George Grosz.

È una Roma “cafonal” quella dipinta da Sorrentino, in cui si mischiano arrivisti, trafficoni, artisti mancati, cardinali senza più religione: “a paradise inhabited by the devil”, per rubare la definizione a un commentatore inglese.

Come nel caso di Fellini, ci voleva un non romano per cogliere l’essenza di Roma: una città che ti seduce all’inizio, ma lentamente ti avvolge nella morsa della pigrizia, per poi spegnere ogni tua residua energia.

Chi ha vissuto intensamente Roma per poi lasciarla conosce questa sensazione.

Sono tante le perle di saggezza distillate da Toni Servillo ne “La Grande Bellezza”, ma alla fine la riflessione più acuta la svolge Galatea Ranzi, nel ruolo della radical chic bistrattata: Roma è in fondo il trionfo del marxismo, in cui tutto si livella e il successo individuale dura al massimo dieci minuti.

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