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Il voto utile è una strategia, ma non si improvvisa dall’oggi al domani

Immagine di copertina
Il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta. Credit: ANSA/FABIO FRUSTACI

L’appello di Enrico Letta è stato chiarissimo nella sua linearità: la sfida è tra la coalizione a guida PD e il centrodestra, e di conseguenza qualsiasi scelta al di fuori di queste due opzioni è un atto di semplice testimonianza. Il tutto, amplificato da una campagna comunicativa ai limiti del manicheo che sottolinea come il PD si proponga come unico argine alla vittoria della destra.

S&D

Il voto utile non è una novità sulla scena politica italiana, e non sorprende nemmeno che nel 2022, in una società sempre più polarizzata, qualcuno punti su una tattica simile. Ma viene da chiedere: lo sta facendo nel modo giusto?

Nel 2008 questa strategia fu tentata da Walter Veltroni: il centrosinistra veniva dalla caotica esperienza del governo Prodi II con la sua variegata coalizione ed era necessaria una rottura per essere credibili all’elettorato. La nascita del PD, avvenuta solo pochi mesi prima del voto con l’obiettivo di creare un nuovo soggetto di tutto il centrosinistra rappresentava questa novità, amplificata dalla scelta di correre da soli per non dover stare ai ricatti di quella che all’epoca era chiamata “sinistra radicale” e delle forze centriste. La vocazione al bipolarismo con cui era nato il PD contribuì a catalizzare su di sé molti consensi (ottenne il 33 per cento dei voti, secondo miglior risultato dopo il celebre 40 per cento di Renzi) soprattutto a discapito delle forze alla sua sinistra, che per la prima volta rimasero fuori dal parlamento. Un risultato tuttavia insufficiente per essere davvero competitivi: il centrodestra di Berlusconi vinse con un ampio margine.

Oggi la situazione è diversa. Se Veltroni aveva sempre puntato sulla vocazione maggioritaria del PD in un sistema bipolare, non si può dire lo stesso di Enrico Letta che, anzi, durante la sua segreteria si è molto speso perché il partito sia parte di un’alleanza vasta che comprendesse sia Renzi e Calenda che il Movimento Cinque Stelle, passata alle cronache come “campo largo”, ma che ha repentinamente abbandonato dopo la caduta del governo Draghi. Se rinunciare agli alleati per il PD di Veltroni era stato un elemento di chiarezza programmatica, lo stesso non si può dire di Letta: la rottura con i Cinque Stelle, ad esempio, è avvenuta intorno al giudizio sul governo Draghi e al ruolo del partito di Giuseppe Conte nella sua caduta. Non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che al fianco del PD c’è l’Alleanza Verdi e Sinistra, guidata tra gli altri da Nicola Fratoianni che da parlamentare non ha mai sostenuto il governo Draghi.

Ora manca poco più di una settimana all’appuntamento elettorale, in un momento storico in cui sempre più persone scelgono all’ultimo momento per chi votare: dopo vedremo se la tattica di Letta avrà funzionato o meno. Ma se l’elettorato, che gli dia retta o meno, ha assistito spaesato a questa campagna, ne ha le sue ragioni.

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