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La verità che nessuno ha il coraggio di dirvi: Renzi oggi vuole solo una cosa. Spaccare il Pd

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Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Meno male che non voleva poltrone: la notizia del giorno è che al “tavolo dei contenuti”, in queste ore, Italia Viva ha fatto richieste di ogni tipo. Un ministero per Maria Elena Boschi, uno per Ettore Rosato, uno anche per Ernesto Ruffini, quattro ministeri in tutto, ma anche il Mes, ovviamente, e via tutti quelli che non piacciono a Matteo Renzi, a partire da Alfonso Bonafede e Paola De Micheli.

Una tale moltiplicazione di richieste, anche le più inverosimili, rende chiaro che l’idea è di alzare le poste per far saltare il banco.

Il vero obiettivo, come è ormai chiaro persino agli stolti, è il Pd. La crisi innescata da Renzi non è un pretesto, e nemmeno un fine: è un mezzo. Il punto, il cuore della strategia è rimuovere Giuseppe Conte per sfasciare l’alleanza giallorossa, scalare (o meglio far scalare) il Partito Democratico da un leader più accomodante che consenta il rientro all’ovile dei predatori dell’Arca perduta (di Italia Viva).

E il bello è che Stefano Bonaccini lo aveva persino ammesso, interrogato da Giulio Gambino alla festa de l’Unità: far tornare a casa i ragazzacci e gli esuli, i renziani e i Bersaniani, annacquare e smontare l’attuale assetto del partito, l’unico in virtù del quale – con la segreteria Zingaretti – non c’è spazio per Renzi.

Cancellare una collocazione a sinistra insostenibile (sempre per Renzi), rimettere quel partito al centro, disancorato dalla sua storia e dalla sua identità, possibilmente intento a guardare a destra, ai governi istituzionali o para-istituzionali, alle maggioranze deresponsabilizzate in cui il legame di rappresentanza con gli elettori viene meno.

Non immaginatevi a questa crisi come ve la raccontano, dunque, sforzatevi di vederla come è davvero: qui la destra non c’entra, la destra sta a guardare. Questa è l’ennesima guerra civile dentro la sinistra. Non pensate peró che sia un gioco, o – come vi dicono – un problema di cattivi caratteri: vi raccontano che Nicola Zingaretti è uno scemotto simpatico e incolore, incapace di fare politica.

Che Giuseppe Conte un avvocato sprovveduto e megalomane, un pupazzo che non regge sul piano dei nervi duello personale com l’uomo di Rignano. Matteo Renzi – invece – è un guascone esuberante, un po’ scomposto, magari, ma tanto tanto in gamba. E quando parla lui al Quirinale, è musica.

La chiave di tutta l’operazione-crisi avviata da Italia Viva con lucida ambizione è “Riprendiamoci – savastanamente – quell ch’è nuostr”. Ovvero quello che nella loro testa era diventato loro: ovvero il Pd, e tramite il Pd il controllo del governo.

Si tratta di un piano B, di una variamente, ovviamente. La prima intenzione, anche quella dichiarata era di distruggerlo quel partito, di fare a Zingaretti e Andrea Orlando, a Gianni Cuperlo e Roberto Gualtieri – come Renzi disse – “quello che Macron aveva fatto ai socialisti francesi”.

Ma questo piano originario, che doveva passare per una crescita di Italia Viva nelle urne, quando la gente ha potuto votare (nelle ultime regionali) è naufragato: nell’occasione scelta per la spallata, in Puglia – solo per fare un esempio – il povero Ivan Scalfarotto, che doveva spaccare il mondo e appendere in pellicceria lo scalpo di Michele Emiliano, ha preso un miserrimo 1.1%. In Toscana, dove i neo-rinascimentali di Italia Viva avevano la loro roccaforte non hanno fatto nemmeno il 5%.

È stato a quel punto che persino Renzi lo ha capito: con i voti non ci sarebbe arrivato mai. Il suo partitello scissionista non si riusciva a farlo votare da qualcuno nemmeno con le minacce. Anche adesso, dopo due mesi di ospitate di Renzi in prima serata, di battage sui giornali, di interviste quotidiane, è sempre inchiodato nei sondaggi al 2.9%, percentuali da prefisso telefonico, zero prospettive di crescita.

E allora bisognava cercare un’altra strada: provare nel Palazzo quello che nella società non era riuscito a passare nella società. Ed ecco l’importanza di un coro di discredito che renda possibile la delegittimazione in una intera classe dirigente: in questa operazione di propaganda il messaggio del Renzismo è entrato per endovena nelle vene del sistema informativo con la stessa facilità di una droga sintentica.

Per mille motivi, molti dei quali sono anche editoriali. Nessuna penna brillante oggi viene chiamata ad esercitarsi sulla stranezza di una crisi aperta da un signore che mentre il parlamento era bloccato (da lui) se ne stava a fare il conferenziere a Riad. Nessuno si è esercitato sui paradossi di una crisi aperta sul destino della delega ai servizi segreti (sic!), poi virata sulla pretestuosa evocazione del Recovery plan, poi Renzi ha preso a sventolare un fantomantico progetto “Bottega 4.0” (giuro: proprio cosi) e richiesta di un “piano casa” (dopo le ultime consultazioni),
infine dopo che tutte queste scuse sono cadute ieri – le ultime perle – è tornato il vecchio disco rotto del Mes (che ora non è ecomomicamente conveniente), e l’asta sui quattro ministeri.

Tutto questo è evidentemente pretestuoso ma non divertente: e non perché in Italia non serva un piano casa (lo dico da ex bambino sfrattato, e so di che parlo) ma perché trattandosi di Italia Viva forse sarebbe più opportuno parlare di un “piano villa”: tutto questo detto da una forza che passa alla storia per le foto di gruppo sorridenti in motoscafo e per la grande battaglia sociale a favore degli odontoiatri che vogliono farsi estetisti.

Ovvio che per Renzi i pretesti siano come i calzini: se ne cambia uno ogni mattina. Quello che resta del leader di Italia Viva nelle ultime settimane è l’incredibile intervista di Riad, lo sforzo intrapreso per glorificare un regime teocratico e misogino, e trasfigurando il nuovo medioevo saudita in un presunto nuovo Rinascimento.

Il grado di profondità del leader di Italia Viva, quando evoca modelli culturali, è sempre quello delle didascalie di Wikipedia: è così per magia, il paese pagante, quello dove (come abbiamo qui raccontato) si celebrano le esecuzioni in piazza, dove le donne sono private di diritti, dove i lavoratori vengono sfruttati, e gli oppositori vengono sembrati, diventa agli occhi del visionario cantore di Rignano la culla di una nuova civiltà del terzo millennio, e il suo principe regnante “My dear friend, your Royal highness”, Alé.

“Io glielo invidio il costo del lavoro”, dice Renzi nella grottesca intervista allo sceicco dei petrodollari. Altro fatto incredibile: non si è mai visto, in Italia in Europa o in Occidente, un rappresentante eletto, retribuito dal popolo italiano, che fa promozione retribuita per un paese straniero.

Ma su queste contraddizioni le penne acute non si esercitano: meglio parlare dei difetti di Zinga, delle paranoie di Conte, di Gualtieri che non ha nemmeno letto il Recovery che ha scritto (sempre Renzi dixit) di Provenzano che è simpatico ragazzo, di Boccia che non piace al nord, della Azzolina e dei banchi a rotelle.

In questa operazione di egemonia si dissolve necessariamente la vecchia identità della Repubblica di Eugenio Scalfari, magistero di giornalismo, e diventa molto più “funzionale” il nuovo giornale degli Elkann, i padroni della Fca francesizzata, un gruppo editoriale che da mesi batte su una sola nota.

Il governo degli incapaci, dei ragazzi, degli interessi personali e degli sprovveduti va mandato a casa. Possibilmente perché sia sostituito da un bel governo tecnico, da un super inciucio in cui siano annacquate le identità troppo barricadere, e il Pd non più guidato da un “segretario-ologramma”, come Zinga.

È – a ben vedere un progetto parallelo a quello di Italia Viva: così come Renzi vuole scalare il Pd e la sinistra politica, così gli esangui eredi degli Agnelli, i nipotini che con l’avvocato ci correvano sul bob, vogliono scalare la sinistra giornalistica.

E dunque, pezzo dopo pezzo su questa strada, calci in culo a Paolo Flores D’Arcais e al suo fastidioso Micro Mega (che fra l’altro fece una non dimenticata – da loro – battaglia sui diritti alla Fiat) e foglio di benservito ai suoi costosissimi cinque praticanti.

Un gelido addio a Bernardo Valli, ancora turbato, con il suo ex giornale, per l’affidamento degli Esteri ad una ex candidata del Pdl. E poi un bel ciaone anche ad una firma storica come Guido Ranpoldi, una bella pernacchia a Roberto Saviano, che se ne vada pure al Corriere, quella testa calda.

Come ha insegnato Renzi, quando stava sfasciando il Pd, in ogni mondo organizzato, per ognuno che allontani ne ammaestri dieci. Ma il punto è sempre quello: ridicolizzare, caricaturizzare, irridere. Nessuno abbia nostalgie per questo governo di comparse: domani arriveranno i professionisti della politica (e del giornalismo) a spiegare che da quando governano gli incapaci anche l’Enel, signora mia, non è più quella di una volta.

“I radical chic”, che io per comodità esplicativa nel 2019 ribattezzavo i “salvi-chic” sono il grande lubrificante intellettuale di questo tentativo di scalata egemonica. Al “Salvi-chic”, che vive nelle redazioni, va benissimo che si sfasci il centrosinistra, e vinca – che ne so- Matteo Salvini, perché tanto lui le conseguenze sociali di un cambiamento non le paga.

Al radical chic va benissimo la quarantena, se non altro perché ha il terrazzo. Il radical chic sente che la sinistra sta bene all’opposizione, perché non si deve sporcare le mani, e a quel punto basta indicare al popolo un nemico e bau-bau, quelli abboccano.

Mentre invece i problemi ci sono se governano i giallorossi, se si toccano i grandi interessi, e se si prova – che ne so -a togliere le concessioni di Autostrade dalle mani dei Benetton (ve le ricordate le due ministre-martiri di Italia Viva che facevano barricate in Cdm per impedirlo?).

I problemi ci sono se a qualcuno viene in mente di tagliare le forniture delle armi agli amici sauditi, o se alla Azzolina viene in mente di fare battaglia per sottrarre i ragazzi dal limbo smateriazzito e discriminatorio della Dad.

Questo governo che nelle rappresentazioni caricaturali che abbiamo letto in questi giorni sarebbe diretto da un avvocato psicolabile, incardinato su un segretario tontolone, come Chance il giardiniere di “Oltre il giardino”, ovvio, e sostenuto da barbari variopinti e maleducati come il pittoresco Dibba, e all’esponente tipo dell’ancienne regime italiano non da nessuna garanzia di affidabilità.

Ovvio che non lo senta suo. E allora è molto meglio screditarlo e tirarlo giù, mascariata dopo mascariata, grazie alla ribalderia simpatica e guascona di Renzi. È meglio usare l’infiltrato per il lavoro sporco, e sostituire l’avvocato-pupazzo (che ha colpa di averci liberato da almeno un Matteo) con qualcosa di funzionale e controllabile.

Peccato, davvero un peccato che Renzi sia un leader perfetto. Ma per Forza Italia. Peccato, davvero peccato, che abbia un nemico terribile che lo perseguita, un vero mastino. Se stesso. E peccato, davvero peccato, che malgrado avesse iniziato benissimo il lavoro sporco, mentre il parlamento era impegnato dalla crisi, invece di discutere decreto ristori, lui fosse a guadagnarsi il pane, con i petrodollari a Riad.

Ovvio che al corsivista tipo del giornale a Elkann non frega nulla dei ristori, perché non ne usufruisce, e nemmeno dei diritti umani a Riad, perché non ci va mai. Peccato che questo ragazzo così spiritoso, che per mezz’ora affabula tutti al Quirinale, anche chiamando i giornalisti per nome, che carino, poi si perda nei dettagli.

Perché poi magari va e finisce che, malgrado tutto questo impotente schieramento di penne e di leader, anche nel vuoto pneumatico del Covid, l’operazione di decapitazione di Conte, che poi è la premessa per distruggere l’alleanza giallorossa, che poi è quel che è necessario per riprendersi il Pd possa non riuscire. Ecco, c’è il rischio che questa operazione alla fine non riesca. In quel caso, noi che non siamo chic, ma popular, finiremmo tutti a suonare la chitarra con Giuseppi e con Zinga.

Leggi anche: 1. Conflitto d’interenzi (di Giulio Gambino) / 2. Il rientro di Renzi nel governo è un cavallo di Troia contro Pd e M5S / 3. Il grande azzardo di Renzi, che l’Italia rischia di pagare caro

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