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Quel rapporto con il principe d’Arabia Saudita: la crociata di Renzi sui servizi ora diventa sospetta

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Matteo Renzi è sfortunato. E lo è così tanto che oggi, forse, anche la sua battaglia per togliere a Giuseppe Conte la delega ai servizi segreti acquista una nuova luce. Renzi è sfortunato perché da ieri – dopo il suo clamoroso discorso sul “nuovo Rinascimento Saudita” – esiste un enorme potenziale conflitto di interessi, per lui.

S&D

La notizia che arriva dall’America, infatti, è che il nuovo corso di Joe Biden in politica estera è iniziato con una sacrosanta cesura rispetto al passato: gli Stati Uniti decidono di tagliare la vendita della armi all’Arabia Saudita, e l’Italia sta seguendo (per fortuna) questa direttrice.

Una decisione, quella americana, annunciata dal nuovo segretario di Stato Antony Blinken, che ha definito questo gesto come “typical” per una nuova amministrazione. La drastica “revisione” è stata motivata dal numero uno della diplomazia americana con l’argomentazione che è resa “necessaria” dall’obiettivo di mettere al sicuro i nuovi “obiettivi strategici degli Stati Uniti”.

Bene, adesso fatevi una domanda: in che commissione siede a Palazzo Madama Matteo Renzi? In commissione Difesa.

E ora fatevi un’altra domanda: se domani un qualsiasi senatore della maggioranza giallorossa o del centrodestra attento agli interessi nazionali – magari di Fratelli d’Italia – presentasse un nuovo e normalissimo ordine del giorno in Commissione per attuare immediatamente lo stop alla vendita di armi proposto dall’amministrazione Biden sull’Arabia Saudita, come voterebbe Renzi?

La domanda non può avere una risposta scontata dopo la scoperta dei rapporti economici fra il leader di Italia Viva e gli enti sovrani sauditi. E soprattutto dopo che sono diventati noti i rapporti economici (e politici) tra il senatore di Pontassieve e la corona saudita. E – soprattutto – dopo l’intervista entusiastica e buffamente apologetica a “my friend, your royal highness” il principe ereditario Mohammad Bin Salman.

È mai accaduto che si conoscessero i rapporti così stretti e remunerati di un singolo membro del Parlamento italiano con una potenza straniera? In Italia no. E qui il tema non è più solo quello, pur gravissimo, del rapporto con un Paese che non rispetta i diritti civili, che muove guerre, che non rispetta i diritti dei lavoratori, che si regge su una teocrazia misogina dove sono violati i diritti delle donne.

Qui il vero tema è che un leader influente (come stiamo vedendo) sui destini di un governo, ammette alla luce del sole di svolgere una azione di lobbying retribuita da un altro Stato.

Fra l’altro, il compenso di Renzi, non è limitato alla sua attività di conferenziere, e quindi ad un singolo evento, come si era pensato in un primo tempo. A Riad l’ex premier è diventato un animatore della cosiddetta “Davos del deserto” (Riad ha preso come modello la città svizzera dove si tiene il Forum economico mondiale) organizzata dalla Future Investment Initiative (Fii).

E Renzi siede nel Board di questa organizzazione – pagato (80mila euro l’anno) – che gli garantisce anche un prezioso imprimatur per gestire relazioni in quel Paese.

La Fondazione, tuttavia, non è un organismo indipendente (in Arabia Saudita sarebbe impensabile) anche dal punto di vista formale, dal momento che è stata creata con un decreto del re saudita, Salman Bin Abd al-Aziz Al Sau. Fa capo in qualche modo a suo figlio – “our royal highness” – Mohammad Bin Salman.

È più che un ente governativo: è una emanazione diretta della famiglia reale. Da pochi giorni (per obbligo legislativo) è diventato noto il reddito di Matteo Renzi, relativo al 2019: l’ex premier dichiara di aver guadagnato un milione 92mila e 131 euro. Se si sottrae il reddito da senatore restano quasi 800mila euro di guadagni che derivano dalle sue attività professionali esterne alla rappresentanza elettiva.

E se non fosse scoppiata la crisi (innescata peraltro da lui) invece delle consultazioni si sarebbe votato sul decreto ristori, e probabilmente l’opinione pubblica non avrebbe scoperto che Renzi era a Riad, impegnato nella sua attività professionale del board, e costretto a ritornare precipitosamente a Roma, con un costoso volo (La Verità lo ha definito il “taxi volante”, spiegando che è costato 28mila euro) messo a disposizione dagli stessi sauditi.

È corso nella Capitale per partecipare alle consultazioni, malgrado ai comuni cittadini  – e persino ai funzionari dello Stato “non in missione diplomatica” – sia imposta una quarantena fiduciaria di 14 giorni a chi torna da Riad (come può verificare chiunque telefonando al numero verde 1500 del Ministero della Salute).

Ecco, alla luce di questa complessa rete di relazioni economiche, politiche e personali, davvero dobbiamo riconsiderare la polemica di Renzi, che sembrava astrusa anche ai più scaltri, sul controllo della delega ai servizi segreti che – non va dimenticato – era uno dei due principali motivi della crisi.

Oggi Renzi curiosamente non ne parla più, dopo averne addirittura rivendicato l’ipotesi del controllo per il suo partito. Noi ci chiedevamo come mai Conte non la volesse cedere. Mentre la domanda era mal posta: bisognava domandarsi come mai Renzi desiderasse che non la mantenesse lui.

Perché, come è noto, il controllo della sicurezza nazionale è prerogativa di quella istituzione. E in qualsiasi Paese del mondo, una crisi di governo pilotata da un leader che si trova – anche fisicamente – a Riad avrebbe suscitato qualcosa di più di un sentimento di stupore o di inquietudine.

Leggi anche: 1. Italia Morta Riad: l’imbarazzo di Renzi a spasso per il mondo in piena pandemia dopo aver fatto cadere il Governo (di Luca Telese) / 2. Conflitto d’interenzi (di Giulio Gambino) / 3. Se Renzi vivesse in Arabia Saudita (di Selvaggia Lucarelli)

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