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Bettini a TPI: “Sbagliato rompere col M5S, alle regionali il Pd rischia di essere desertificato”

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ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

"Noi da soli con Calenda? Sconfitta certa. Se il Pd perde voti la colpa non è di Conte. Quando il leader dei Cinque Stelle si è messo di traverso sulla guerra è iniziata una campagna per cacciarlo. Da chi? Palazzo Chigi, una parte del Pd e il gruppo Gedi". Intervista a Goffred Bettini

Onorevole Bettini, ci sono ancora margini per fare un accordo tra Pd e M5S, nel Lazio e in Lombardia?
(Sospiro). Dal punto di vista tecnico sì. Dal punto di vista politico, purtroppo, soprattutto nel Lazio mi pare che ci siano ormai pochissime possibilità.

S&D

E come le pare questo scenario, se si ripetesse lo strappo delle politiche?
Lo considero una tragedia.

Alla fine, nel Lazio, il Pd probabilmente finirà per correre alleato di Calenda.
Se solo con lui, a me pare un errore. Occorre allargare. E se vuole le spiegherò il perché.

Ha visto che su Lazio circola un sondaggio, diffuso mercoledì, secondo cui, senza il campo largo, il centrosinistra perderebbe e il centrodestra meloniano andrebbe oltre il 50%.
Guardi, conosco la situazione del Lazio bene. Posso fare un pronostico vicino alla realtà: non serve un sondaggista per capirlo che la competizione con la destra sarebbe complicatissima.

Goffredo Bettini sta girando l’Italia da un capo all’altro. È partito da Roma,  giovedì era a Napoli, a presentare il suo libro-pamphlet (“A sinistra, da capo”), andrà in tutte le regioni d’Italia. A questo libro, il dirigente del Pd lavora da mesi: metà saggio, metà pamphlet. Con l’ambizione di ripercorrere la storia della sinistra partendo dai tumulti dei Ciompi e Spartacus, fino alla Rivoluzione  di Ottobre  e alla critica del capitalismo nel terzo millennio. La seconda parte del libro, invece è un  prezioso racconto dei retroscena sugli anni del governo giallorosso di cui Bettini è stato un padre putativo, uno stratega e un regista: “Non faccio perifrasi: quel governo è stato letteralmente massacrato dai grandi giornali, dal fuoco di Renzi, dai poteri influenti della Repubblica. E invece, come le spiegherò tra breve, ha prodotto grandi risultati”.

Il libro parte da quella che lei chiama “la scintilla”.
Qualcuno la chiama semplicemente la “speranza”, per Berlinguer era la “spinta propulsiva” nella difesa degli ultimi; mio padre mi ha fatto innamorare dell’idea del cambiamento che rende protagoniste grandi masse escluse dalla storia che conta.

Massimo D’Alema, parlando una recensione del suo libro ha detto che la parte di ricostruzione politica del Conte due è “avvincente” e che “le prime sessanta pagine sono ingraismo puro”.
È vero. Per me è un complimento. Quella è stata la mia formazione giovanile, un dna di cui vado orgoglioso.

Questo libro ha l’ambizione di essere un retroscena o un manifesto politico?
(Ride). E perché non entrambe le cose?

Cosa unisce l’ottobre del 1917, la rivolta di Spartacus, l’eredità di Muntzer, le insorgenze contadine e la socialdemocrazia riformista?
Sono momenti di un lungo viaggio nella storia: quelli in cui “gli offesi” riescono a mettere in pratica una rivolta per ribaltare i rapporti di forza esistenti. La Rivoluzione russa, alla quale seguirono errori e orrori, fu una tappa fondamentale in cui, per la prima volta della storia umana si è materializzato un potere statuale diverso dal capitalismo.

Le daranno del nostalgico.
Sì. Ma la nostalgia è una forza immensa per guardare al futuro. Ripensando alle cose che hai amato e che non sei riuscito a realizzare, sei indotto ad agire, a tentare, e ancora tentare. Nella consapevolezza che le rivoluzioni quasi sempre si trasformano nel loro contrario. È nella natura dell’uomo. Si insedia il piacere di decidere sugli altri. Elias Canetti, lo definiva: “la soddisfazione del sopravvissuto”. Ecco perché non bisogna dimenticare o recidere la radice della “scintilla”, allontanandosi però da quello che essa molte volte produce quando le cose si stabilizzano.

Cosa ha imparato dai suoi maestri?
Ho detto su Ingrao. Ma il mio debito è anche verso Mario Tronti. Un gigante del pensiero politico. Il suo rovello è stato, dopo il tramonto del Novecento, ritrovare un orizzonte critico sul capitalismo e rilanciare la battaglia contro le disuguaglianze.

Da queste premesse di lungo respiro lei passa ai tormenti del centrosinistra nel tempo della Meloni.
Noi, e intendo il gruppo dirigente del Pd, e su questo faccio anche autocritica, abbiamo perso una radicale urgenza capace di cambiare il mondo.

Perché, secondo lei?
In questi anni ci siamo chiusi nella sola dimensione del governo. Il Pd spesso ha salvato la democrazia e evitato lo sfascio del Paese. Ma è caduta, per questa dimensione dall’alto, la rappresentanza degli strati più popolari e il profilo politico della sinistra.

È un giudizio che suona come una condanna.
È una constatazione: a metà degli anni Settanta la sinistra socialista, comunista e laico-repubblicana aveva quasi il 50% dei consensi. Oggi, gli eredi di grandi partiti di massa, come la Dc e il Pci, insieme sono fermi al 18%. Dovremo riflettere su questo, prima o poi?

Nel libro lei descrive la causa dell’ultima involuzione con una espressione curiosa.
La definisco una “mezzadria dell’anima”: un intero gruppo dirigente è stato contagiato dall’abito mentale di non affrontare in modo netto le differenze in un confronto democratico.

E di chi sono le responsabilità di questa situazione?
Non ho dubbi sulla responsabilità. Con Renzi, si è insinuata tra di noi non una differenza tra linee politiche, ma una nuova contraddizione identitaria.

Quale?
Quella tra una visione critica della realtà moderna e un punto di vista apologetico e del tutto acritico rispetto alla modernità.

Perché?
Sorriso. Era la dimensione persino esistenziale del fiorentino. Stare dalla parte dei vincenti, piuttosto che dei perdenti, scegliere il liberismo, piuttosto che i lavoratori e il riformismo sociale, rompere i rapporti con sindacati piuttosto che coltivarli. E poi, il renzismo ha introdotto una filosofia “vittimista” molto pericolosa.

Quale?
Se le cose non andavano bene era colpa degli altri, dei rematori contro, dei sabotatori: un nemico di turno, sempre diverso. La vecchia sinistra, il vecchio sindacato, la pigrizia di chi non vuole lavorare, gli intellettuali liberi, l’assistenzialismo.

Renzi però se n’è andato.
Ma molti, restati nel Pd, si sono formati alla sua scuola. Non ha portato via con sé tutti i suoi fantasmi. La questione vera del prossimo congresso è scegliere, attraverso il confronto democratico, rispetto a questa contraddizione.

Spieghiamolo meglio. 
Non possiamo restare sempre in mezzo al guado. Siamo europeisti, ma indossiamo acriticamente il casco della NATO. Siamo per la progressività fiscale, ma prudentissimi rispetto a prelievi mirati sui grandi patrimoni finanziari, gli extra profitti delle multinazionali e delle grandi imprese che lucrano sulla crisi. Così si arriva all’equivoco dell’ultima campagna elettorale.

Quale?
Il Pd è per l’agenda Draghi o per l’agenda sociale? Durante le politiche abbiamo tenuto insieme entrambe. In campagna elettorale abbiamo cercato di tenere insieme entrambe le cose.

Non ha pagato.
Per nulla! Anzi. Se non scegliamo un indirizzo chiaro, saremo erosi sia da una parte che dall’altra, sia dalla destra che dai 5Stelle.

Molti dirigenti, anche della sinistra interna, accusano Conte di essere a caccia dei voti Dem.
Certo. Dopo la rottura, Conte ha aperto un’offensiva contro il Pd. Ma in politica è inutile chiedere la buona educazione. Se perdi voti, la colpa è della tua offerta, non certo delle sirene degli altri.

E alla destra del Pd?
Calenda è spesso prepotente. E lavora politicamente per spaccarci. Con abilità sulla Morati ha provato questa operazione, in parte riuscita.

Ma perché siete così vulnerabili?
Perché non siamo capaci di unirci su una visione del mondo unitaria. Non basta la cornice di valori nobili ma generici che, senza scelte politiche nette, diventano una sorta di caciocavalli che stanno appesi come nelle botteghe!

Il governo Draghi ha fatto male al Pd?
Draghi è stata una risposta alla crisi positiva, utile, importante. Ma doveva mantenere il suo carattere transitorio.

Molti lo indicavano come un progetto strategico.
Non li capisco: era evidente che un governo con la Lega non potesse essere che provvisorio e circoscritto ad alcune questioni fondamentali. Ma a un certo punto c’è stata una svolta.

In negativo?
Non c’è dubbio. Molti hanno voluto trasformare quel governo in una formula politica: questa mutazione è stata la sua rovina.

In che modo?
Il primo allarme lo ha introdotto Giorgetti, con la sua celebre intervista: “mandiamo Draghi a fare il Presidente della Repubblica e lui dal Colle reggerà anche il governo”.

E Bettini polemizzò subito.
C’era, in questa idea, una visione cesaristica e pericolosa del draghismo. Per primo ne è stato vittima lo stesso Draghi.

Perché?
Dopo la mancata elezione e il Mattarella bis è diventato più vulnerabile rispetto alla guerriglia dei partiti.

C’è una controprova a questa affermazione? 
Direi di sì. Non a caso alle elezioni ha vinto un partito strutturato, persino ideologico. E che guarda caso è l’unico – a parte l’eccezione di Fratoianni – che si è opposto a Draghi in Parlamento. Vorrà dire qualcosa?

Passiamo al “caso Conte”. Lei nel libro difende con passione il governo giallorosso e il suo premier.
In fondo è semplice: era un uomo che meritava di essere confermato nel suo ruolo.

Perché?
Il Conte due è stata una felice esperienza di governo, durata quasi due anni, che è stata bombardata e demolita in modo selvaggio dagli avversari, che non hanno mai accettato il valore delle cose realizzate da quella maggioranza.

Quali?
La capacità di guida del Paese nel dramma della pandemia. La difesa della sanità pubblica. I vaccini e il green pass. Una partecipazione e serietà al dolore degli Italiani che si è tradotta simbolicamente nelle celebri dirette streaming.

Proprio su questo Conte è stato attaccato!
Accuse ideologiche, preconcette, dannose. Esprimevano invece un afflato, una capacità di contatto e di racconto utile soprattutto ai più deboli, in un Paese in cui c’è grande solitudine.

E poi?
Che dire del rapporto con l’Europa? I soldi del PNRR li ha ottenuti lui. Con un lavoro di squadra, certo, con l’aiuto di Gualtieri e Amendola. Ovviamente sotto la sua guida.

“Il riferimento fortissimo dei progressisti”, quanto hanno rimproverato a lei e Zingaretti quell’aggettivo.
Molto, ma ingiustamente. Mai parlato di Conte come “capo” dei progressisti, ma di “punto di riferimento”. Lo era nella realtà nella sua funzione di Primo Ministro di un governo che comprendeva tutti i progressisti. Semmai, dopo, molti del Pd hanno detto: “noi siamo Draghi”

Andiamo alle pagine sulla ricostruzione della sconfitta. Perché il gruppo dirigente del Pd è malato di unanimismo e nessuno contestò la linea di Letta?
La spiego così. C’era un riflesso condizionato: la paura, anche giusta, di non indebolire il segretario mentre era in piena battaglia.

E nessuno, tranne lei, si è speso per difendere l’alleanza con Conte.
Va considerata brutalmente una buona dose di “conformismo”. Ma è stato, perdipiù, un impasto di debolezze. Probabilmente ha influito anche questo.

Nella direzione decisiva nessuno l’ha seguita, con l’eccezione parziale di Orlando.
Vero. Ma in quella direzione, i buoi erano già scappati dalla stalla. E penso che Conte abbia sbagliato ad aprire la crisi, indebolendo la parte del Pd che ha creduto sempre all’alleanza con lui.

Ne parlaste in quei giorni?
Moltissimo. Gli dicevo: “Guarda che se rompete con Draghi, si metterà in discussione l’alleanza”.

E lui?
“Non è così”, mi rispondeva. E poi: “Il governo può sopravvivere senza di noi”. E io: “la Lega prenderà la palla al balzo per rompere”. Facile profezia.

Ma si poteva salvare l’accordo?
Si doveva, perché senza il M5S la campagna elettorale era persa. A quell’errore di Conte, dunque, ne è seguito uno nostro, grave. Dichiarare che con i 5Stelle non saremmo mai più andati insieme alle elezioni politiche.

Draghi non aspettava altro per andarsene?
Dopo che Conte ha esplicitato una posizione diversa sulla guerra si è messo in moto un partito trasversale per cacciarlo.

Da parte di chi?
Palazzo Chigi, qualche pezzo del Pd, buona parte degli industriali del Nord, i grandi giornali con in testa il gruppo Gedi.

E poi c’è stata la scissione del M5S.
Draghi stimava Di Maio, inutile negarlo. Questo progetto di scissione il Pd lo avrebbe dovuto respingere. In fondo, Conte aveva votato il nuovo governo senza vendette, dopo essere stato mandato via.

Draghi poteva avere un futuro?
Eravamo alla fine della legislatura e capiva che, dopo il passaggio del Quirinale, la sua esperienza era finita.

Lei non lo voleva al Colle, confessi.
Non è così. All’inizio avevo una disponibilità, per quello che conto, verso Draghi. Anche una parte grande del Pd l’aveva. Via via ho cambiato un po’ opinione.

Il primo lo ha detto, “il cesarismo”.
Il secondo è un suo errore: non comprendere che sono i parlamentari che devono votare il Presidente.

E lui lo negava?
Draghi aveva una diffidenza totale verso il Parlamento. E in questa direzione è stato dannosissimo lo staff più ristretto che lo consigliava.

Tornando al Pd, hanno accusato lei e Zingaretti di debolezza verso il M5S.
Un assurdo provato dai fatti: quando eravamo alleati, il Pd cresceva nei consensi. Quando Letta ha rotto l’alleanza noi siamo calati e il M5S è salito nei consensi.

Quindi?
Ci hanno dipinto come una “fessa” quinta colonna, ma in realtà facevano gli interessi del Pd e della coalizione!

Perché ancora oggi lei si batte per il Campo largo?
La sinistra e il Pd hanno bisogno di attraversare il sentimento del popolo. Di “toccarlo”, come dice Papa Francesco. Il rapporto con il M5S ci ha aiutato in questa direzione.

Molti ora voglio l’alleanza con Calenda.
Vero: ma la sinistra non si può fare solo con la parte più ricca dei cittadini! Calenda, senza il M5s, ci allontana dal nostro compito fondamentale: dare una rappresentanza alle persone che sopportano la fatica del vivere. Non solo dal punto di vista economico, ma per la qualità della loro esistenza quotidiana.

Lei non ama il terzo polo di Calenda, confessi.
Non amo l’inaffidabilità: Calenda aveva firmato il patto di alleanza elettorale e poi lo ha rotto improvvisamente. Forse è stato richiamato con il campanello – drín-drín – dai poteri che rappresenta.

Che poteri rappresentano Renzi e Calenda?
Quelli dell’impresa e della finanza, che li supportano anche con elargizioni economiche (del tutto legittime). Lo dice Calenda stesso!

Si può ancora salvare un rapporto con il M5S alle regionali?
In queste ore Conte privilegia il rafforzamento del suo movimento sull’alleanza: lo considero un errore.

E senza Conte?
Se andiamo solo con Calenda, senza Fratoianni e la sinistra, il Pd pagherà un prezzo.

Chiudiamo con la Moratti.
Sono sconcertato che solo si possa pensare a lei come possibile candidata.

Ha letto Michele Serra, la Aspesi, Zanda, la Pinotti? Dicono: “Baciamo il rospo!”
Quanti rispi abbiamo baciato. Sono 26 anni che mangiamo rospi, sempre più grandi e sempre più indigesti. I nostri elettori sono avvelenati e li dobbiamo saper ascoltare.

La Moratti è un rospo velenoso per il Popolo del Pd?
Personalmente la stimo, ma rappresenta organicamente la storia della   destra in Lombardia.

Cosa intende? Loro dicono: “Con lei si vince”
Non ne sono sicuro. Basta con i Papi stranieri. Per paradosso, allora, per vincere alle elezioni avremmo dovuto appoggiare la Meloni?

Ultimo tema identitario del libro, la guerra. 
La guerra si evita se si determina un equilibrio soddisfacente per tutti. Durante la Guerra fredda fu l’equilibrio del terrore, che produsse conflitti nei teatri periferici del mondo. Oggi abbiamo il compito di aiutare, anche con gli armamenti, la risposta dell’Ucraina a un attacco da parte della Russia violento, improvviso e ingiustificato. Se qualcuno ti dà un cazzotto, ti viene spontaneamente la voglia di intervenire per dare forza al più debole e all’offeso.

E poi?
Comprendere i compromessi e le vie diplomatiche per trovare un nuovo equilibrio. Dopo il crollo dell’Urss, la Russia è stata marginalizzata, declassata, non aiutata. Ma la Russia è un impero. Le umiliazioni hanno prodotto un moto di orgoglio nazionale, di cui Putin ha approfittato. Ricordo anche che arrivare con la Nato fino ai confini di quel grande Paese è stato percepito come una minaccia.

Spieghi meglio.
Cosa sarebbe accaduto nel passato se il Messico fosse entrato nel patto di Varsavia? Difendere l’Ucraina significa anche capire l’insieme delle ragioni che hanno portato a queste situazioni.

Concludiamo sul futuro del Pd. Lei chi vuole come leader?
Chiunque avrà la voglia di interpretare le idee che ho raccolto in questo ultimo libro.

E tra i candidati?
Vedo molto vociferare, ma ufficialmente solo Paola De Micheli è in campo.

La Schlein?
Mi sembra ancora dubbiosa. Se deciderà di fare il passo, la seguirò con attenzione. Sempre partendo dalle scelte politiche e di merito che vorrà proporre.

Ma Bonaccini è già in campagna elettorale…
Persona valida e ottimo amministratore. Ma dubito che le mie idee possano, anche in parte, convincerlo.

Lei dice di essere angosciato dalla possibilità di perdere Lombardia e Lazio. La sinistra ha perso altre volte…
Mai, tuttavia, contemporaneamente il governo nazionale, i Presidenti dei due rami del Parlamento, la capitale politica e quella economica.

Sarebbe un colpo rimediabile?
(Sospiro) In politica si può rimediare sempre a tutto. Se sei in mare aperto puoi andare controvento, in Bolina. Ma bisogna vedere se ti regge la barca. Speriamo, non ne sono certo, abbiamo di fronte una tempesta perfetta.

LEGGI ANCHE: Zanda a TPI: “Il campo largo è morto. Il Pd con Letizia Moratti per tornare a vincere”

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