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Home » Politica

Zanda a TPI: “Il campo largo è morto. Il Pd con Letizia Moratti per tornare a vincere”

Immagine di copertina
L'ex senatore dem Luigi Zanda. Credit: ANSA/FABIO FRUSTACI

“Lombardia e Lazio sono un bivio per noi. A chi non piace Donna Letizia dico: fate un altro nome, se lo avete. Il futuro segretario del Pd? Senza Bonaccini non avremmo vinto in Emilia-Romagna...”. Intervista all'ex senatore dem Luigi Zanda

Senatore Zanda, questa settimana ha suscitato scalpore la sua presa di posizione a favore della candidatura Moratti, sul Corriere della Sera.
«E perché mai dovrebbe?».

Lo sa benissimo: per molti elettori di sinistra del Pd, a Milano, votare la Moratti è come una proferire una bestemmia.
«Capisco la sofferenza, ma il senso della mia posizione è un altro».

Quale?
«Abbiamo il dovere di provare a vincere a queste elezioni regionali».

E lei è sicuro che con la Moratti si vinca?
«Io credo che la sua, in Lombardia, sia una candidatura competitiva. Ma dico un’altra cosa: se qualcuno preferisce una idea alternativa allora deve proporre un altro nome, altrettanto noto e credibile».

Lei come ha maturato la sua preferenza per la Moratti?
«Lo sa che in tanti anni l’avrò incontrata, di sfuggita, e una sola volta? Non la conosco».

No?
«No, non c’è nulla di personale. Parto piuttosto da una considerazione realistica sullo scenario.

Perché?
«Perché oggi, con il voto nel Lazio e in Lombardia, noi dell’opposizione ci troviamo ad un bivio, ad un punto di svolta nella storia del Paese».

Cioè?
«Il centrodestra, con questo governo, è diventato semplicemente il destra-destra. Lo spiega proprio bene la Moratti, illustrando la sua scelta. Cambiano dunque le regole del gioco».

E cosa cambia per voi del Pd rispetto al passato?
«L’imperativo è vincere in queste due regioni-chiave: una è la capitale economica, l’altra quella politica del nostro Paese».

Cosa sta provando a dire, con questa constatazione?
«Che siamo ad un punto di svolta».

Quale?
«Se il nuovo potere vincesse queste sfide, potrebbe cambiare la qualità del nostro sistema democratico, perché finiremmo per avere una maggioranza forte sia al governo che nelle regioni e una opposizione afona e disarmata ovunque».

E se invece vinceste voi?
«Si riaprirebbe una dialettica tra la nuova destra e un nuovo centrosinistra corroborato da due importanti successi. E noi saremmo di nuovo competitivi».

Luigi Zanda ha scelto di non ricandidarsi, nelle ultime elezioni, ma – anche senza cariche e mostrine sul petto – è rimasto uno degli ultimi grandi vecchi ascoltati del Pd. Ma come chi viene dalla scuola della prima repubblica, Zanda ama dare una interpretazione di lungo respiro per spiegare le sue idee e le sue scelte. Eccola.

Proviamo a spiegare: perché il Pd appare in crisi dopo il voto?
«Ehhh… per dare questa risposta bisogna partire dal 2013».

Perché?
«Dopo quel voto politico cambia improvvisamente il quadro che aveva governato la seconda repubblica. Si rompe il bipolarismo. Nel 2018 si produce un effetto inedito».

Che effetto?
«Dopo le politiche 2018, la politica inaugura una stagione nuova, un salto d’epoca segnato da un paradosso».

Quale?
«I nuovi governi che nascono nella legislatura cambiano, ma vengono tutti fatti tra nemici».

A partire da quello gialloverde.
«Il patto Lega-M5S stupì tutti, e anche me».

Perché?
«Dopo essersi combattuti fino al giorno prima, due nemici acerrimi si erano messi d’accordo, ed era nato il Conte 1. Chi poteva pensarlo?».

E quando cadono i gialloverdi…
«Nasce il governo Cinque Stelle-Pd. Ed io fra l’altro ero contrario…. Se si pensa che solo pochi mesi prima noi per loro eravamo “il partito di Bibbiano”!».

Ma poi con Draghi, c’è un governo istituzionale.
«Però fatto, anche quello, tutto di avversari».

Anche il suo Pd scese ad un compromesso prima inimmaginabile.
«Per due motivi. Uno più nobile, ed uno meno nobile».

Quali?
«Il senso di responsabilità istituzionale da un lato, e anche la vocazione governista dall’altro».

Quando Conte buttò la spugna si sapeva già che era pronto Draghi.
«E così viene fatto il terzo governo innaturale della legislatura».

Per lo stesso motivo, giusto?
«È sorretto da nemici storici: Berlusconi e Di Maio. È da avversari come Salvini e il Pd».

Era già accaduto.
«Nella prima repubblica, ma con identità più forti: in questa, gli avversari costretti a cooperare dagli eventi producono il… “tana libera tutti” finale. Quello che stiamo vivendo».

Ovvero?
«Il bisogno dei partiti di rigenerarsi. Perché il governo tra nemici li ha privati dell’identità».

Vale anche per il Pd?
«Sì, ma eravamo deboli in Parlamento. Pochi ricordano che dopo la scissione di Renzi avevamo, nelle Camere, solo il 12% degli eletti».

Zingaretti è riuscito a fare il campo largo.
«Nicola è stato un buon segretario: se ci si pensa, l’ultimo eletto con un grande consenso nelle primarie. Ma il contesto non è stato favorevole».

Cosa intende dire?
«Zingaretti è il quarto segretario eletto alle primarie che non conclude il suo mandato. Al pari di Veltroni, Bersani, e ovviamente di Renzi».

Un segnale di sofferenza?
«Il segno della fragile partenza del partito».

Che spiegazione dà?
«Macaluso disse: “Il Pd è nato senza una chiara identità”. Condivido. Ds e Margherita si unirono solo dopo due brutti risultati elettorali. Questo affrettò la nascita del Pd, ma rese la creatura fragile».

D’Alema aggiunse caustico: «Un’amalgama mal riuscita».
«Vero. Ma a non riuscire era l’amalgama dei vertici, non quella degli elettori».

Cosa produce questa debolezza?
«La fragilità della linea politica. Che poi è la premessa che spiega i segretari fragili».

Gli altri partiti non hanno questi problemi?
«Gli altri sono tutti partiti padronali. Sono solo sfiorati da problemi ideali».

Anche la Meloni?
«La Meloni è un discorso a parte. Ma il Pd è l’unico “partito” non personale. Nasce da due grandi partiti popolari di massa, sorretti da forti pensieri politici».

Il Pd ha bisogno di un leader?
«Sì, ma non può essere guidato da un capitano di ventura».

Letta è fuori o no?
«Io ho un giudizio positivo sulla segreteria Letta. Ma lui stesso ha detto che il suo addio è definitivo».

È un onore delle armi il suo?
«No. Ha dovuto affrontare due tempeste come la guerra e il Covid. E due battaglie come la presidenza della Repubblica e le elezioni politiche».

Intende che una delle due l’ha vinta con Mattarella?
«Certo. Ma la battaglia del Quirinale ha prodotto la scomposizione della maggioranza di governo. E la crisi di Draghi».

Poi però Letta ha perso le politiche.
«Queste due tempeste sono state superiori alle forze del Pd. E la distruzione della coalizione ha avuto effetti politici negativi soprattutto sul Pd».

Anche sulla pace il partito è diviso.
«Personalmente penso che l’errore maggiore che è stato fatto dalla politica sia non aver fatto capire all’opinione pubblica quale era la prospettiva geopolitica nella quale l’invasione russa poneva il mondo».

Quale? Come se ne esce?
«O con una nuova Helsinki dove Cina e Stati Uniti dicano basta alle guerre».

Oppure?
«Con una escalation e una guerra mondiale. Purtroppo».

E la segreteria del Pd, adesso? Un candidato c’è.
«Senza Bonaccini non avremmo vinto in Emilia-Romagna».

E poi?
«Serve una riflessione sulla propria identità: con iniziative serie e profonde per ridisegnare il profilo del partito. Comprese le alleanze».

Lei non crede più all’accordo di tutte le opposizioni?
«Il campo largo oggi è morto e sepolto».

Perché?
«Ma se Calenda e Conte non si siedono neanche allo stesso tavolo!».

E quindi?
«La soluzione non è una formula. Il Pd potrà fare tutte le alleanze possibili per il bene dell’Italia. Ma solo se tornerà ad essere molto forte come partito».

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