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Il Coronavirus e la fortuna di essere italiani in un’Europa unita

Immagine di copertina
Una donna a una fermata degli autobus a Milano. Alle sue spalle, la campagna informativa per la lotta al Coronavirus (Credits: ANSA / PAOLO SALMOIRAGO)

In molti siamo rabbrividiti di fronte al cinismo con cui Boris Johnson ha preparato gli inglesi alla diffusione del Coronavirus (“È la più grave crisi sanitaria in una generazione, moriranno molti nostri cari”) e soprattutto leggendo le parole di Sir Patrick Vallance, una delle massime autorità mediche del governo anglosassone, che ha ipotizzato un contagio del 60% dei britannici per sviluppare quella “immunità di gregge” che potrebbe costare la vita a centinaia di migliaia di persone. In realtà, se guardiamo alle iniziative dei governi europei per limitare la diffusione del virus, la linea del Regno Unito è di fatto condivisa – con sfumature diverse – da altri paesi del continente che pur mostrando preoccupazione per la pandemia, non sono disposti a paralizzare le loro economie per tutelare la salute pubblica.

S&D

La ragione della diversità di approccio tra noi e gran parte degli altri Paesi è probabilmente culturale e trova le sue radici in quello che è il nostro modo di relazionarci alla vita e alla morte, al senso che diamo al nostro stesso stare al mondo. È quel grande solco che storicamente ha caratterizzato la divisione la Chiesa di Roma e quella protestante, valori entrati nel dna dei popoli e che vanno oltre il credo religioso perché sono da secoli in essere anche in milioni di laici. Le parole di Boris Johnson, assai simili a quelle pronunciate pochi giorni prima durante una conferenza stampa da Angela Merkel (“tra il 60 e il 70% della popolazione si infetterà”), unite alle misure soft varate dal altri membri dell’Unione per scongiurare la morte di migliaia di persone, segnano il metro di questa diversità di valori e rappresentano il sentire comune dei diversi popoli.

E più delle parole dette, appare limpido il senso non scritto di quelle affermazioni. Ormai sappiamo che il Coronavirus è una forma virale aggressiva che nella maggior parte dei casi si presenta asintomatica o con lievi sintomi che durano pochi giorni (70% dei casi, secondo l’Istituto Superiore di Sanità), come una normale influenza stagionale. Sappiamo anche, però, che nella sua forma più aggressiva può causare la polmonite interstiziale e portare alla morte. Ad oggi, in Italia, i decessi di persone infettate dal Coronavirus sono stati poco più di un migliaio, di questi solo sei sotto i 50 anni di età e una trentina in tutto quelli sotto i 60, soggetti che spesso presentavano già gravi patologie pregresse. Il rischio di polmonite da Coronavirus è maggiore nelle persone anziane, nei soggetti malati di cuore e nelle persone con un sistema immunitario debole.

Altre sostanziali differenze sono l’accesso alle cure e il modo con cui vengono contati i decessi. Mai come in queste settimane è evidente a tutti cosa vuol dire avere un sistema sanitario pubblico che offre a tutti – non senza enormi difficoltà – garanzia di diagnosi e cura. Quanto al triste conteggio di chi non ce la fa, in Italia chi muore dopo essere risultato positivo al Coronavirus viene conteggiato nelle tabelle dell’ISS sull’epidemia, cosa che non sempre viene fatta altrove, dove la presenza del virus passa spesso in secondo piano rispetto al quadro sanitario preesistente. Quello che viene riassunto nella sottile differenza linguistica tra morire “di” Coronavirus e morire “con” Coronavirus.

È qui che entrano in gioco i due grandi modelli culturali: da una parte chi mette in campo iniziative dispendiose e per salvare i suoi deboli e i suoi anziani (considerati una ricchezza umana e non un peso economico), dall’altra chi mette in conto centinaia di migliaia di morti, la stragrande maggioranza dei quali fuori dal sistema produttivo, mantenendo come priorità il benessere e quindi il tenore di vita di chi si salva. Inutile forse esprimere giudizi di merito: essendo due visioni così diverse ciò che da noi può sembrare folle e disumano, a poche migliaia di chilometri suona normale. Sbagliato metterla anche sul piano strettamente politico: sono due modelli che esistono da prima delle ideologie moderne, ideologie che tra l’altro si sono sviluppate toccando in modo trasversale i due modelli.

E poi, c’è l’Europa, l’Europa unita, la grande casa in cui abitiamo tutti, la sintesi delle nostre diversità. Oggi l’Europa si mostra con due facce opposte: quella di Christine Lagarde e quella di Ursula von der Leyen. Inutile dire che lo spirito che rende sensata la sua stessa esistenza è quello espresso in poche semplici parole della Presidente della Commissione (“Pronti ad aiutare l’italia qualsiasi cosa serva”), mentre la “gaffe” della prima, oltre a far crollare le borse, è stata un assist a chi vorrebbe utilizzare anche il Coronavirus per riportare indietro le lancette dell’orologio e ritornare a tanti piccoli Stati deboli e litigiosi. L’Europa, alla fine, sosterrà i nostri sforzi per tenere in vita i nostri anziani e ci aiuterà, finita l’emergenza, a rimettere in piedi la nostra economia. Si badi, non sarà un atto di carità, ma un’azione a tutela della sua stessa esistenza come istituzione.

Insomma, da figli più o meno consapevoli di Santa Romana Chiesa, per una volta dobbiamo ritenerci fortunati di essere italiani. Italiani in un’Europa Unita.

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