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Il tabù del potere e Draghi l’intoccabile: ci si indigna per chi lo critica ma si tace sui suoi errori politici

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Scusate, ma per parlare del caso del giorno – “il caso Travaglio” – purtroppo bisogna entrare negli automatismi del vernacolo. Se uno dicesse: “Quello è un figlio di puttana”, tutti capirebbero che l’oggetto dell’insulto è il figlio, non la madre. Quando si dice “figlio di puttana”, anche nell’accezione più positiva – che esiste – si parla di uno spregiudicato, di un furbastro, di un dritto. Non certo della professione materna e della virtù del suo “genitore uno”.

Ed ecco perché, dovendo entrare in quello che ormai è diventato un caso mediatico-politico di rilievo bisogna persino spiegare alcune banalità di automatismo della lingua italiana: “figlio di papà”, giusto o sbagliato è un rampollo, un campione delle élite, cresciuto in un ambiente protetto in mezzo ai suoi simili. Del padre questo lemma dice poco, o nulla, del figlio dice tutto. È certo che Marco Travaglio sbagli nel dire che Mario Draghi è “solo un curriculum” (avercelo, direbbe Totò): non è vero che Draghi non capisca “un cazzo”, ma è certo che ha pasticciato sui vaccini. E non poco: il punto era quello.

E non c’è dubbio alcuno che, senza che questa debba essere considerata una colpa, Draghi sia figlio delle élite. È figlio di una farmacista (borghesia agiata) e di un padre che lavorava in Banca d’Italia e che aveva lavorato come dirigente nel mondo del credito. E che ha fatto la sua carriera in Banca d’Italia e nel mondo del credito: figlio – appunto – di suo padre, nella scelta vocazionale di una vita.

Ecco perché la cosa più penosa che si è letta, ieri, era l’argomentazione (non a caso l’ha utilizzata Matteo Renzi) che Draghi sia orfano. Anche Renzi è “un figlio di papà”, indipendentemente dallo stato di salute di papà Tiziano. È cresciuto nell’azienda di famiglia, non ha mai lavorato un minuto in vita sua, prima della politica: prendeva la paghetta dalla ditta di papà e mamma Renzi, poi gli abbiamo dato uno stipendio noi, la collettività. E di certo Renzi è più “figlio di papà” di Draghi.

Ma quando si parla dell’ambiente del liceo Massimo a Roma, quello dove ha studiato l’ex governatore, non a caso si dice: “Quella è una scuola per figli di papà”. Lo si fa senza scomodare anagrafi e certificati di morte: è – ancora oggi – il liceo delle élite, dove la classe dirigente romana iscrive i figli che non vuole sottoporre alle incertezze della scuola pubblica.

La categoria di cui si parla – dunque – è quella dei figli protetti, che frequentano persone di pari censo, non quella dei padri facoltosi e dei loro mestieri. Sarebbe come se parlando di qualcuno dandogli del “figlio di puttana” si ribattesse: “Ma guarda che sua madre fa la crocerossina”. Tuttavia, seguendo il filo dell’incongruità, e dell’invettiva contro Travaglio si è arrivati a criticare persino Articolo uno, il partito che organizzava la festa in cui il direttore de Il Fatto Quotidiano ha parlato.

Come se una festa in cui si dibatte delle idee, dovesse garantire una sorta di certificazione conformistica: come se tutte le idee dovessero essere uguali. Ma allora di cosa si dibatterebbe nelle feste dei partiti? Roberto Speranza non dovrebbe essere chiamato a dissociarsi da Travaglio, ma dovrebbe di certo dargli una medaglia: perché il mondo ha scoperto grazie alla polemica sui figli di papà che esiste la festa di Articolo uno, e subito dopo che Articolo uno ha una platea non conformista.

Dunque il tema di questi dibattiti non è il padre, ma il conformismo intorno al governo Draghi, un certo clima culturale. Il tema non è l’iperbole ingiuriosa, ma il tabù di Mario Draghi.

Adesso bisogna fare ordine: di Palmiro Togliatti si scriveva che era un servo di Mosca. Di Alcide De Gasperi che fosse un servo degli austriaci. Di Antonio Segni che fosse stato un presidente golpista. Di Giulio Andreotti si diceva che fosse stragista e mafioso (ben prima del suo processo). Dei democristiani (tutti) che erano un regime. Di Aldo Moro che fosse pazzo e (anche) sessuomane (rivedersi Todo modo, se presi da qualche dubbio). Di Silvio Berlusconi si disse e scrisse qualsiasi cosa. Mentre Romano Prodi veniva chiamato dalla stampa di destra “Mortadella” (a lui il soprannome piacque). Amintore Fanfani era un mostro con tentazioni dittatoriali. Giorgio Almirante un “fucilatore fascista”. Bettino Craxi un “cinghialone”, ma anche “Bokassa”, come il dittatore africano che amputava gli oppositori, con ferocia tribale, a colpi di machete.

Solo oggi il conformismo dei giornali, e l’Italia del 90 per cento (dei media) sono intonati a una sola voce, e si pone il tema del reato di “lesa maestà”. In una democrazia si critica, in una autocrazia si omaggia il sovrano. Il premier, dunque, diventa un monarca intoccabile, che non va disturbato, sbeffeggiato e (soprattutto) irriso. Ma mi faccio questa domanda: i giornali che fino a sette giorni fa dipingevano la riforma Cartabia come se fosse perfetta e inemendabile, e che secondo copione esaltavano il consenso imposto da Draghi nella votazione in Consiglio dei ministri, cosa scrivono ora quando devono dare la notizia che per volontà di Draghi e della ministra la riforma cambia in modo sostanziale? Non è un contrordine? Era scritta male? Erano giuste le critiche? Se fosse passata come la proponeva il sovrano sarebbero andati in fumo i processi di mafia e di terrorismo? E non ha detto persino Paolo Mieli (ieri, a In Onda) che è stato un errore sospendere gli Open Day vaccinali?

Marco Travaglio ha libertà di opinione, non è eletto, non ha ruoli istituzionali, può dire dei leader politici quel che vuole. Giusto o meno lo giudicano i suoi lettori. Chi non condivide è libero, a sua volta, di criticarlo. Io non condivido l’iperbole dell’invettiva, non sottoscriverei mai il “non capisce un cazzo”. Ma ho scritto su questo sito che Draghi sulla campagna vaccinale ha sbagliato due volte.

Chi oggi fa polemica su Travaglio ha staccato la spina della criticità ed è questo il tema del contendere. I troll leopoldini (e dintorni) che ieri erano scatenati sui social (e sui giornali) contro il direttore de Il Fatto per le sui opinioni, non hanno detto una parola sul vero assurdo della politica in queste ore. E cioè che Matteo Renzi, ancora una volta, ricatta Enrico Letta dicendogli che se vuole candidarsi alla Camera deve abiurare alla sua linea politica.

Il che – comunque la si pensi – è a dir poco folle. Come se un alleato minore del centrodestra – che ne so Lorenzo Cesa – dicesse che Giorgia Meloni o Matteo Salvini non si possono candidare alla Camera nella loro coalizione. Questo è l’editoriale che manca, tra i maestri del coro. Questo il corsivo desaparecido. Quello sul figlio di papà di Rignano, beniamino dei direttori, che con l’uno virgola, pretende ancora di dare le carte nella politica italiana.

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