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Incontro all’autogrill, Renzi chiama da Giletti: cosa c’è dietro questa storia che avrebbe dovuto rimanere segreta?

Immagine di copertina

E Renzi chiamò in diretta per protestare, per la prima immagine della ormai celebre “donna dell’Autogrill” in tv: “Guardi Giletti, sono ad una cena, ma non ho potuto non chiamare!”. È accaduto ieri, su La7. Massimo Giletti pubblica per la prima volta la foto (oscurata) della famosa professoressa del video (spiegando chi è) girato in autostrada sull’incontro tra l’ex premier e l’ufficiale dei Servizi, e Matteo Renzi chiama in diretta durante la puntata di “Non è l’Arena” per mettere in dubbio, ancora una volta, la versione della donna: “È mai possibile che ci sia una professoressa che racconta quattro diverse versioni sulla sua storia?”.

Non ci sta il senatore di Italia Viva, non crede a ciò che l’autrice del video ha raccontato ai magistrati sulla sua identità e su quel documento che lo fa soffrire tanto: “Se quella professoressa era davvero li, Giletti, se aveva davvero il padre che stava male, e se è vero che anche lui era lì… se tutto questo è vero si dovrebbe vedere dalle registrazioni telecamere!”. E così, di fronte ad un nuovo capitolo di una lunga e tormentata vicenda ancora una volta bisogna chiedersi: cosa c’è davvero dietro questa storia di un incontro in autogrill tra un politico e un dirigente di primo piano dei servizi segreti, che avrebbe dovuto restare sconosciuto all’opinione pubblica?

Malgrado una scaltra operazione propagandistica di Renzi (che è tornato a scrivere del video e di quella che chiama la “sedicente professoressa” nell’ultima edizione del suo libro, “Il Mostro”) occorre ripartire dai fatti. La notizia di ieri, a “Non è l’Arena” era ciò che Giletti ha rivelato (pur proteggendola con l’anonimato) sull’identità della donna: “Mi sono appostato per due giorni – ha raccontato il conduttore – l’ho attesa, l’ho filmata, non mostro il suo volto per non renderla riconoscibile, ma posso confermare che questa donna esiste, è una persona vera, e che fa davvero la professoressa come ha detto lei stessa a Report”.

Ed ecco il riassunto delle puntate precedenti: il programma di Sigfrido Ranucci – come è noto – aveva ricevuto una mail della signora, che annunciava di aver fatto un video in cui era immortalato l’incontro tra Matteo Renzi (che aveva riconosciuto) e un altro signore, anche lui “con la scorta” (che però lei non aveva riconosciuto). E come mai la donna era riuscita ad immortalare questo incontro? Spiegava a Report di essersi trovata in quella piazzola dell’autogrill per una indisposizione del padre, di essere rimasta incuriosita per l’incontro tra Renzi e uno sconosciuto che però aveva la scorta, per quel colloquio circospetto, e di averlo filmato per questo motivo.

È Report che identifica Marco Mancini, ricostruisce la dinamica, acquisisce anche la versione di Renzi. Uno scoop, senza dubbio, al punto che Mancini si deve dimettere (sono i giorni della crisi di governo) e Renzi è in imbarazzo: spiega che quel colloquio è avvenuto in un autogrill, che lui aveva fretta, che dice a Mancini di raggiungerlo, e che il cuore del faccia a faccia sono saluti, auguri (era il 23 dicembre) e il dono di un vassoietto di “Babbi”. Una versione a dir poco inverosimile.

Che però il leader di Italia viva supera a mondo suo, sostenendo in interviste, interventi televisivi e libri che la spiegazione della signora non lo convince: lui la chiama “la sedicente professoressa”, si domanda addirittura se esista davvero, aggiunge che a suo avviso la donna non aveva la possibilità di girare con il proprio telefonino quel documento: “Giletti – ha sostenuto anche ieri – ma a lei pare possibile che una donna abbia potuto fare tutto questo di fronte agli uomini di due scorte? Io voglio acquisite le registrazioni delle telecamere di sicurezza dell’autogrill, ho nominato un perito, le immagini sono prese da due posizioni diverse, la professoressa ha detto che Mancini è andato verso Roma e io verso Firenze. E poi si è contraddetta”.

Nell’ultima edizione del suo libro Renzi la direttrice del servizio di aver apposto un segreto di stato (“Sulle stragi lo capisco, sull’autogrill no!”) e di voler capire “con l’aiuto di un perito, se il babbo della signora era davvero malato, e se era presente con il suo telefonino nella zona coperta dalle celle della rete”. Una straordinaria cortina fumogena in stile Renzi, che ipotizza dunque un complotto gravissimo per colpirlo, in cui i servizi segreti avrebbero usato la professoressa per coprire una loro attività investigativa, pur di colpirlo.

Il primo risultato è straordinario: non è più Mancini che deve spiegare perché è stato costretto alle dimissioni per una pratica come minimo irrituale, non è più Renzi che deve chiarire il contenuto di quel colloquio. È lei che deve discolparsi. Ieri l’ex presidente del Consiglio contestava anche l’affermazione fatta poco prima dall’avvocato della professoressa: “L’avvocato dice una balla, non è vero che io abbia rifiutato il confronto con la professoressa”.

Peccato, tuttavia che le indagini siano state compiute e che tutti i punti di questa costruzione renziana siano già stati smentiti dalla procura della Repubblica: 1) La signora esiste davvero, questo ormai è fuor di dubbio ed è già stato stabilito senza ombra di dubbio dagli investigatori. 2) La signora è – è stato verificato anche questo – una professoressa vera, e non ‘sedicente’, come dice Renzi. È laureata in Storia dell’arte, fa l’insegnante di sostegno nella scuola media superiore lavorando con dei ragazzi fragili. 3) È stato provato che la professoressa non ha e (non ha mai avuto) nessun rapporto, di nessun tipo, con i servizi segreti. 4) La professoressa ha potuto provare la sua presenza con le ricevute di transito dell’autostrada (grazie al tracciamento del Telepass, stampando l’estratto di pagamento) e 5) Le condizioni di salute del padre (addirittura presentando la documentazione sanitaria). 6) La professoressa non ha fornito “quattro versioni”, come dice Renzi.

Ne ha fornita una sola (Renzi è andato verso Firenze, Mancini verso Roma). E quando le hanno chiesto come lo sapesse, o come lo avesse stabilito, lei – che si era già mossa dalla piazzola – ha precisato di essere stata sorpassata dalla macchina su cui aveva visto Renzi (“con i lampeggianti accesi”) mentre andava verso nord, ma non da quella di Mancini. 7) Questa affermazione si fonda sul fatto che la professoressa ha dimostrato di conoscere benissimo quella strada (e quindi lo svincolo per l’inversione) perché da residente extra romana fa quel percorso molto spesso. E infine 8) la Belloni non ha opposto nessun segreto di Stato sull’attività e sull’identità della professoressa (come ha spiegato bene Roberto D’Agostino in un suo editoriale). Fra l’altro, non è il servizio ma il governo a decidere in ultima istanza. E varie volte il segreto viene rifiutato.

Anche perché 9) il segreto di Stato non è stato posto come dice Renzi “sull’autogrill” (altra balla) ma sulla vicenda professionale di Mancini. Questa spiegazione è stata fornita in una risposta ufficiale dal sottosegretario Alfredo Mantovano. Quindi si potrebbe concludere che tutti gli attacchi di Renzi alla professoressa e alla Belloni (di cui lui dice con orgoglio: “Sono io che le ho impedito di diventare presidente della Repubblica”, come se fosse un merito) sono stati una abile manovra diversiva all’insegna dell’antico adagio per cui “la miglior difesa è l’attacco”.

E ieri Renzi, in difficoltà sul tema del suo continuo tiro bersaglio sulla professoressa provava a giustificarsi a L’Arena dicendo: “Io non l’ho denunciata, Giletti. Io non ho denunciato la professoressa!”. Un’altra meravigliosa capriola dialettica del leader di Italia viva, che tuttavia poco dopo era costretto ad ammettere: “Mi sono costituito parte civile in questo processo”. Quindi, a rigor di diritto, il suo è un impegno ancora più grave.

Alla luce della telefonata di ieri, la morale di questa storia è purtroppo amarissima: un politico, un potente, un ex uomo di Stato, combatte contro un normale cittadina, una professoressa di scuola media superiore, la costringe a pagarsi un avvocato e a sostenere un procedimento, a presentare documentazioni mediche, a dover spiegare che non ha nessun rapporto con i poteri occulti dello Stato, a dover tutelare il proprio anonimato e la propria reputazione, in una sfida impari in cui il suo accusatore la attacca ogni giorno in tv e sui giornali, mettendo in dubbio addirittura la sua esistenza.

Mentre lei – se vuole tutelare la sua famiglia – non ha nessuna possibilità di difendersi pubblicamente. Nel corso dell’indagine non si è sottratta a nessuna richiesta dei magistrati. Ieri Renzi diceva: “Io so da dieci giorni il suo nome”. E poteva farlo perché a comunicarglielo è stato lo stesso avvocato della professoressa. Non solo la difesa della signora aveva chiesto un interrogatorio difensivo con Renzi, anche per chiarire di persona tutti gli eventuali dubbi dell’ex premier. Ma in questo caso avrebbe dovuto riferite i contenuti del colloquio intrattenuto con Mancini essendo sottoposto all’obbligo di dire la verità. Evidentemente – fino ad ora – ha preferito non farlo: tuttavia ora Renzi potrebbe essere obbligato in ogni caso a rendere dichiarazioni davanti al pubblico ministero.

Fra l’altro: l’unico che ha cambiato versione, per ora, è Renzi, che tra una intervista e l’altra, ha fatto sparire l’immaginifica trovata “sullo scambio dei babbi”, che avrebbe fatto precipitare un aspirante capo dei servizi segreti in autostrada, con la scorta (per consegnare un cabaret di paste!). L’ultimo paradosso – infine – è questo: avendo già riscontrato in maniera inequivocabile che la signora non ha nessun rapporto con poteri occulti (ovvero ciò che prendendo una cantonata, in buona o in cattiva fede, Renzi sosteneva nella sua denuncia contro ignoti) il pm avrebbe dovuto archiviare l’inchiesta. Ha potuto procedere, invece, solo perché ha cambiato l’ipotesi di reato, immaginando – e ci vuole un bello sforzo intellettuale – che la professoressa abbia violato, da privata cittadina, quindi da sola, l’articolo 617 septies del codice penale.

Quello, in sostanza, che impedisce una registrazione fraudolenta di privati (il reato che commetterebbe un vicino di casa, per esempio, che per diffamare un suo condomino si nascondesse per filmarlo, e pubblicasse delle foto imbarazzanti sulla bacheca del palazzo). Peccato che sia difficile sostenere che la registrazione fosse “fraudolenta” (abbastanza improbabile, visto che il video è stato realizzato in uno spazio pubblico, addirittura nel parcheggio di un autogrill!). Peccato che non ci fosse fraudolenza perché era ben visibile. E peccato che non si tratti di un colloquio tra privati, visto che almeno uno dei due interlocutori era una figura nota, un ex presidente del Consiglio (quindi un personaggio pubblico!). La professoressa, per giunta, non ha “diffuso” quelle immagini, ma le ha consegnate a dei giornalisti per una legittima verifica (esistono ancora il diritto di cronaca e di inchiesta, in questo paese) su quel pubblico colloquio.

Se Renzi voleva discutere con Mancini e voleva farlo senza essere sottoposto a sguardi indiscreti, dunque, avrebbe dovuto farlo in una più consona sede istituzionale, e non intraprendere una guerra contro una normale cittadina perché è stato pizzicato mente discute con uno 007. Tuttavia questa non è solo la storia antichissima del lupo che rimprovera all’agnello di inquinare l’acqua che lui beve alla fonte. È un grave precedente che, se venisse giudicato un reato, porterebbe in carcere il 90% degli italiani e dei giovani che fanno filmati e li diffondono in rete, ad esempio sui social.

Anche se l’ultimo e più clamoroso paradosso è questo: siccome è stato cambiato il capo di imputazione, se la professoressa (speriamo che il Pm rinsavisca) venisse giudicata colpevole, l’unico elemento certo sarebbe che ha agito da sola, che è provata l’assenza di qualsiasi legame, che è stata lei e non altri, e che la fantasmatica teoria di Renzi verrebbe smontata, rivelandosi una ennesima balla. Viceversa: anche se venisse prosciolta, a maggior ragione sarebbe provato che è innocente.

E infine, retroscena dopo retroscena, nessuno sta ragionando sul fatto, che se come sosteneva Renzi la professoressa ha agito di concerto con i servizi, non c’era nessun interesse a fare da paravento ad una operazione coperta. E adesso, dato che il Pm ha accertato che ha agito da sola (le indagini sono già concluse) la teoria di Renzi ha ancora meno senso: perché avrebbe dovuto rischiare un processo, addirittura auto accusandosi, una professoressa di scuola media superiore che non è mai stata in quell’autogrill, non ha il padre malato (come insinua Renzi) e non ha fatto quel video? Ecco perché se si va all’osso, alla fine della storia, quando il fumo della propaganda, scompare, la vicenda dei babbi e dell’autogrill resta una accusa priva di qualsiasi senso.

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