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Pd e M5S reggono il moccolo a Draghi ma così assicurano la vittoria della destra alle elezioni

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Prima legge dei governi tecnici: la sinistra sostenendoli si svena, e dona sempre il suo sangue alla Causa. Poi – subito dopo, quando si vota – rimane, quasi immancabilmente, fregata nelle urne. Questo meccanismo vizioso si sta ripetendo anche adesso, per effetto della continua e logorante guerriglia della Lega nella maggioranza.

Sta accadendo, soprattutto, con il braccio di ferro sui provvedimenti economico-sociali, dove – per la prima volta in assoluto – si introduce un’altra novità: quella della Confindustria che detta i provvedimenti che predilige direttamente ad un pezzo della maggioranza (e indovinate quale? Sempre la Lega di Matteo Salvini, ovvio) con il silenzioso silenzio assenso di Mario Draghi.

Per certi versi questo ricorso storico ha dell’incredibile: cambiano le stagioni, i leader, i partiti coinvolti nel gioco politico, ma questa amara regola non sembra mutare mai. La sinistra è sempre quella che porta la croce. Come se questo copione fosse in realtà un comandamento non scritto della politica italiana.

È accaduto con il governo di Carlo Azeglio Ciampi, che portò l’ex governatore della Banca d’Italia al Quirinale, ma che poi fu seguito dalla vittoria di Silvio Berlusconi alle politiche del 1994. È accaduto con il governo di Mario Monti, che fu seguito dalla celebre “non vittoria” del Pd di Pierluigi Bersani, nel 2013, malgrado tutti i sondaggi favorevoli della vigilia. La coalizione del bene comune (pagando il prezzo delle riforme più impopolari) non ottenne la maggioranza, come noto, e il centrodestra tornò subito protagonista, con le stagioni delle alleanze obbligate del Nazareno.

Oggi, il governo tecnico di Draghi, e la difficile convivenza tra il Pd di Enrico Letta e la Lega di Salvini ripropone questo tema del sacrificio unilaterale. Il nodo è: il centrodestra vive il governo istituzionale come un’opportunità di conflitto, con cui accrescere i propri consensi, mentre il centrosinistra è sempre gravato dal mito della responsabilità e del senso del dovere, a cui sacrificare le proprie bandiere.

Ed ecco il paradosso più curioso: questa volta il governo tecnico non era obbligato. Esistevano teoricamente, infatti, sia una maggioranza giallorossa a quattro partiti sia una maggioranza Ursula con la sola Forza Italia. La prima, come è noto, è stata uccisa dal veto di Matteo Renzi. La seconda – in modo meno clamoroso – dal veto dello stesso Draghi e (dietro di lui) di Sergio Mattarella.

Ma attenzione: il centrodestra, per di più privo di Giorgia Meloni, non avrebbe avuto i voti per governare. E anche il governo Draghi non potrebbe stare in piedi senza i voti di Pd e M5S. Per questo incredibile congegno, dunque, chi garantisce la maggioranza paga anche il conto, e i padroni di casa si ritrovano curiosamente sul banco degli imputati, additati come reprobi dai loro principali beneficiati.

Quindi Maria Stella Gelmini presenta i provvedimenti di tutto il governo, ma poi fa le interviste in cui li ascrive al merito del suo partito. Giancarlo Giorgetti si accorda per votare un decreto, ma poi in Consiglio dei Ministri, giunto al momento del voto, dice a sorpresa che gli ha telefonato Salvini e che non lo può più approvare (scena teatrale e memorabile).

Il ministro Speranza viene attaccato da un partito della sua stessa maggioranza. Il ministro Giorgetti (ancora lui!) spiega con una pubblica intervista, il giorno dopo aver votato il provvedimento sul coprifuoco, che la Lega è contraria alle norme che ha appena votato. E poi ovviamente sempre gli ineffabili ministri della Lega (e poi anche quelli di Forza Italia) accusano un altro ministro di sinistra, Andrea Orlando niente meno di aver “taroccato” i provvedimenti sul lavoro e sui licenziamenti, per inserire a tradimento una norma di maggiore protezione dei lavoratori a rischio.

La cosa davvero grottesca, in questo gioco al massacro, è che (secondo tutte le indagini demoscopiche) in questi mesi il partito di Salvini non sta traendo beneficio dalla sua linea di lotta e di governo. E che l’unica formazione che veramente sta capitalizzando la conflittualità interna alla maggioranza è il partito della Meloni, Fratelli d’Italia.

La seconda cosa curiosa è la constatazione che questo logorio è un gioco a senso unico: non ci sono dirigenti della parte sinistra della maggioranza che attaccano i loro colleghi di centrodestra con la stessa metodica pervicacia. Ed ecco che cosa significa portare la croce: sei tu che garantisci la sopravvivenza della maggioranza, con i tuoi voti determinanti, ma sei sempre tu che devi fare da bersaglio al tirassegno dei tuoi oppositori interni.

Al termine di questo percorso c’è persino un altro elemento di scenario che complica il quadro (di cui abbiamo già parlato su TPI): la partita del Quirinale. Ovvero il progetto di smarcamento che Salvini coltiva, nell’imminenza del voto per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.

Se la Lega riuscisse a scongiurare un Mattarella bis ed eleggere al Colle Mario Draghi (diventando determinante nel voto), potrebbe persino comodamente concludere a un anno dal voto la sua esperienza di governo, smarcarsi, mettersi all’opposizione del nuovo inquilino di Palazzo Chigi chiunque fosse, e rifarsi una verginità in vista delle elezioni, ritornando con le mani libere.

Salvini non vede l’ora di tornare a battere i cari vecchi toni duri dell’indimenticabile stagione del Papeete. La domanda che bisogna farsi, e che probabilmente molti elettori di centrosinistra in queste ore si fanno è: conviene portare sempre la croce? E offrire sempre un sostegno incondizionato?

È giusto che Draghi non abbia mai strigliato gli esponenti del suo governo che stanno sulle barricate contro i loro stessi colleghi? Il ruolo di un presidente del Consiglio tecnico è davvero l’equidistanza a prescindere dal merito, da chi attacca e chi si difende?

Tuttavia negli ultimi giorni, partendo dal dibattito sull’agenda politica, agli elettori giallorossi è venuto persino il sospetto che l’equidistanza teorica sia in realtà una benevolenza pratica verso alcune posizioni leghiste. E il tema su cui questo sospetto è diventato più che concreto è stato senza dubbio la vicenda della tassa di successione, con Draghi che nel merito ha di fatto stroncato la proposta del leader del Pd Letta, con la frase secondo cui “non è il momento di prendere, ma di dare”.

Una teoria abbastanza singolare, dal momento che la successione sui grandi patrimoni immaginata da Letta, di fatto, dava ai più giovani togliendo ai più ricchi. Questo sospetto è diventato un timore, nelle ultimissime ore. Quelle in cui, di fronte all’asse tra Confindustria e Lega, il premier non ha dato la minima impressione di voler riequilibrare i rapporti di forza, e nemmeno ha speso (al contrario di quanto era accaduto per le polemiche su Speranza) il suo peso politico per difendere l’operato di Orlando.

Anche anche qui, il fantasma delle Quirinarie ha il suo peso: se Draghi vuole essere eletto al Colle, da questo Parlamento, in questa legislatura, è evidente che i voti di Salvini diventano preziosi, soprattutto sapendo di avere già in tasca quelli di Forza Italia, quelli del Pd e considerando anche che il Movimento Cinque Stelle è attraversato da divisioni profonde.

Nel partito più forte del Parlamento si combattono tra loro idee più governiste e oppositori dichiarati del governatore come Alessandro Di Battista (che non è parlamentare ma ha un forte ascendente sulle viscere dei gruppi grillini). Insomma, se i giallorossi vogliono uscire dal tritacarne hanno una sola possibilità: far capire – e presto – che il loro consenso non è scontato. E che la loro pazienza non può essere infinita.

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