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Quirinalopoli, la partita delle partite della politica italiana è già iniziata

Immagine di copertina
credit: Emanuele Fucecchi

La vera notizia sulla guerra per la scalata al Colle, oggi, è contenuta in una “mappa” di Ilvo Dimanti pubblicata su “La Repubblica” stamattina: ed è una notizia persino un po’ nascosta che tuttavia ci permette di spiegare la vera sfida che Matteo Salvini sta giocando in queste ore dentro la maggioranza, intorno al Quirinale e al nodo decisivo del calendario istituzionale che porta all’elezione del nuovo presidente.

La vera partita della Lega – infatti – in questi giorni si combatte in contemporanea su due fronti impegnativi: da un lato contro il Pd (e il centrosinistra), ovviamente, dentro uno schema classicamente bipolare. Ma soprattutto, dall’altro lato, c’è il confronto (concorrenziale e fratricida) che avviene con Fratelli d’Italia e con la sua leader, Giorgia Meloni.

Così per spiegare cosa sta accadendo bisogna iniziare dalla vera notizia del sondaggio di Diamanti, che in realtà non è quella su cui titola il quotidiano di largo Fochetti, sul fatto che il premier sarebbe primo nel gradimento (bella scoperta, per ora è l’unico nome davvero in campo). Perché se è vero che nelle preferenze della metà degli italiani che si pronunciano Mario Draghi è in testa con un margine sorprendentemente risicato (il 13% dei consensi, secondo Diamanti), il dato clamoroso riguarda invece Sergio Mattarella. Infatti, malgrado quella del sondaggio fosse la stessa settimana in cui il presidente aveva detto di “volersi riposare” chiudendo in apparenza all’ipotesi del “secondo mandato”, ben l’11% per cento degli italiani (tra quelli che si sono pronunciati), dichiarano di preferire comunque la riconferma, nel suo attuale ruolo, del presidente uscente. Non solo.

Se si va a scomporre questo dato – come fa Diamanti, sulla base delle preferenze degli elettori di ogni singolo partito – si scopre che 1) “Mattarella – secondo il sondaggio di Dimanti – verrebbe ricandidato sia dagli elettori del Pd che della Lega”. 2) “Nel caso della Lega – aggiunge l’autore delle ‘Mappe’ – l’indicazione appare in contrasto con le affermazioni di Salvini, che ha, invece, proposto Draghi”. 3) “Nel Pd invece – scrive ancora Diamanti – Mattarella è preferito a Draghi”. Dietro queste due trasgressioni di orientamento, tra i gruppi dirigenti e i rispettivi popoli elettorali di Lega e Pd, si nascondono, in realtà, due notizie non da poco. E nei retroscena di queste ore se ne aggiunge anche un’altra. “Noi – spiega un dirigente di prima fila del Carroccio, in anonimo – a Draghi lo dobbiamo mandare a tutti i costi sul Colle alla scadenza naturale del settennato”. Ovvero: nessun Mattarella Bis.

Il motivo per cui Salvini e i suoi vedono come il fumo negli occhi una rielezione di Mattarella (malgrado questo stato d’animo dei suoi elettori) ha un nome. E questo nome – ovviamente – “è Giorgia”. Il bis del presidente uscente, infatti, implicherebbe una conseguenza: quella che Draghi resti a Palazzo Chigi sino a fine legislatura. E quindi, in automatico, anche quella che la Lega rimanga legata dal patto del governo tecnico, condannata alla sua guerriglia quotidiana (l’altro ieri su Speranza, ieri sul coprifuoco, oggi sui licenziamenti) dentro la sua stessa maggioranza che sostiene Draghi. Questo è un gioco che regala molti titoli di giornale, e che tuttavia alla lunga logora chi lo fa.

Matteo Salvini è un leader che si è costruito partendo dal proprio istinto, dotato di grande fiuto intuitivo, e questa sua stessa percezione, oggi, gli dice che finché la Lega sarà al governo, per la sua temuta rivale Giorgia saranno aperte praterie di consenso nel cuore incandescente e identitario dell’elettorato di Centrodestra. Quello che stiamo vivendo è “il momento” della presidente di Fdi, così come due anni fa era “il momento di Salvini”: il libro della Meloni è primo in classifica nella saggistica, i dirigenti di Fratelli d’Italia della seconda generazione impazzano nei talk, complice anche il problema strutturale degli autori dei programmi, che, se non vogliono un coro unanime, devono invitare un rappresentante di Fdi. Ovvero quello de “l’unico partito di opposizione” (dalla battaglia simbolica sul Copasir al giorno per giorno), sembra diventato il piazzamento in grado di garantire la migliore rendita degli ultimi anni.

Ed ecco così il ragionamento dei leghisti, messo in chiaro da una “consigliera del principe” molto ascoltata da Salvini come la giornalista de Il Foglio Annalisa Chirico: “Gli elettori della Lega, soprattutto quelli più popolari, non amano il governo Draghi. È un fatto. Alcuni di loro lo percepiscono come una dura necessità, e così è stato spiegato da Salvini. Però… malgrado questo, questi elettori popolari soffrono, si sentono stretti, questo li rende sensibili, e vulnerabili, al messaggio dell’opposizione”. E così, in questo travaglio c’è una conseguenza politica che per la Chirico produce una svolta strategica: “La Meloni non si deve illudere. I voti persi ora verso Fdi possono tornare se si torna all’opposizione. Alla Lega serve che Draghi sia eletto al Colle prima della fine della legislatura. A Salvini – aggiunge la Chirico – serve un anno di tempo per poter occupare di nuovo lo spazio dell’opposizione totale come sa fare lui, un anno per dimenticare i compromessi necessari, riprendersi la visibilità e la libertà che adesso è in parte oscurata dai vincoli di maggioranza”.

Ultima notazione, quella di una leghista doc come Susanna Ceccardi, eurodeputata, amazzone di Salvini: “Se nascesse il quarto governo non eletto della legislatura i nostri non ne capirebbero il senso”. Sorriso della Chirico: “Senza dubbio. Perché qui c’è un gioco di causa-effetto che aiuterebbe Salvini: se Draghi viene eletto alla fine del settennato di Mattarella, con i voti decisivi della Lega, lui sale sul Colle, e nasce comunque un nuovo governo”. Su cui – è intuitivo – Salvini sparerebbe napalm ogni giorno, chiedendo il voto anticipato. Ed ecco il grande cerchio della strategia salviniana che si chiude. Se la Lega esce dal governo con l’elezione di Draghi, c’è ancora spazio per un governo che arriva a fine legislatura; e se la Lega non ci sta, restano solo due ipotesi politiche possibili in questo parlamento: o un governo Ursula, o un governo con quattro partiti della vecchia maggioranza giallorossa. Nei conciliaboli leghisti circola anche una ipotesi preferita, quella di un governo Letta, che come avversario sarebbe il massimo. Infatti così si ricomporrebbe lo schema bipolare e Salvini otterrebbe un altro anno di legislatura per sparare su di un governo di centrosinistra. Oppure, nel caso di una maggioranza Ursula (magari guidata da un nome come Marta Cartabia) contro un governo tecnico di cui lui non fa parte. E così Salvini potrebbe provare a vincere la partita delle politiche, il duello per la leadership con la Meloni. Ecco perché, la prima ipoteca su questa sfida, il leader della Lega vuole stipularla, spingendo Draghi al Quirinale, senza passare per un Mattarella bis.

A sinistra qualcuno obietta scettico: “E cosa ci guadagnerebbe Draghi?”. Semplice: un biglietto per salire sul Colle, unico presidente già sicuro dell’elezione, prima ancora che si costruisca l’assemblea dei grandi elettori. Non sarebbe un risultato da poco, se si pensa che tutti i presidenti designati delle ultime maratone presidenziali – da Andreotti a Forlani, da D’Alema a Prodi, a Marini – hanno fallito nella loro sfida, malgrado potessero contare su maggioranze solide (sulla carta). Perché il gioco delle Quirinarie, oggi, si fonda su uno slogan facile: meglio un Colle oggi che una gallina domani.

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