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Lotta alla povertà: le armi (scariche) dell’Ue e il ruolo dell’Italia

Immagine di copertina
Credit: AGF

Von der Leyen ha fissato l’obiettivo: azzerare il numero di indigenti entro il 2050. Ma le misure adottate finora non bastano. E intanto il Governo Meloni va in senso opposto: il passaggio da Rdc all’Assegno di inclusione ha lasciato sole mezzo milioni di persone

Nel suo discorso “State of the Union” del mese scorso, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato l’obiettivo di eradicare la povertà in Europa entro il 2050. Non si tratta solo di un orizzonte morale: è un piano politico e sociale ambizioso, destinato a incidere sulla coesione e sul futuro dell’Unione. Secondo i dati Eurostat, oltre 93 milioni di persone in Europa – il 21,4% della popolazione – sono oggi a rischio povertà o esclusione sociale. Ma portare numeri di tale entità a zero richiederà uno sforzo ben superiore rispetto a quello adottato finora. 

Per raggiungere questo obiettivo, la presidente ha annunciato anche la creazione della prima Strategia europea contro la povertà (Eu Anti-Poverty Strategy). Non è un piano già delineato, ma un progetto in fase di costruzione sul quale la Commissione ha aperto una consultazione, per arrivare all’approvazione entro il 2026. Non si conoscono pertanto i contenuti precisi, ma l’ambizione è chiara: premere sull’acceleratore dell’inclusione e della coesione sociale. 

L’idea di fondo è che la povertà non si combatte con una sola misura, ma con un insieme coordinato di politiche. Dalla garanzia per l’infanzia all’accesso universale ai servizi essenziali, come sanità, istruzione, casa, energia. Dal salario minimo alla protezione sociale dei lavoratori poveri, fino al sostegno alle famiglie e alla promozione dell’occupazione di qualità. 

Uno standard europeo
In questo mosaico, uno strumento fondamentale è rappresentato dal reddito minimo come misura di ultima istanza: un paracadute per chi, nonostante tutto, resta indietro, chi anche con un lavoro a basso salario o alcune misure di welfare non riesce a uscire dalla trappola della povertà. Previsto anche dal principio 14 del Pilastro europeo dei diritti sociali, il reddito minimo è quindi il livello minimo di sicurezza che un’Europa sociale matura dovrebbe garantire a ogni cittadino. 

Nel gennaio 2023 l’Ue ha approvato una Raccomandazione sul reddito minimo, fornendo una bussola per orientare le politiche sociali dei Paesi membri. La Raccomandazione invita gli Stati a fissare livelli minimi di reddito adeguati per sostenere il costo reale della vita, aggiornandoli regolarmente in base all’inflazione, e a semplificare le procedure di accesso, riducendo la burocrazia e le discriminazioni. Chiede inoltre di rafforzare il legame tra assistenza economica e servizi pubblici essenziali – come casa, sanità, formazione e occupazione – per rendere il sostegno un trampolino verso l’autonomia, non un meccanismo di mera sopravvivenza. 

Pur restando priva di valore obbligatorio, la Raccomandazione ha segnato un cambio di passo: riconosce che la lotta alla povertà non può essere lasciata alle sole politiche nazionali, ma richiede una cornice comune di dignità e inclusione in tutta l’Unione. Tuttavia, il carattere non vincolante della norma ha fatto sì che pochi Paesi ne abbiano effettivamente implementato i suggerimenti. 

Nel rapporto Cares 2025, redatto per Caritas Europa insieme a colleghi delle università Bocconi e Sapienza, abbiamo mostrato che i sistemi di reddito minimo in Europa sono ancora troppo inadatti e diseguali. Mettendo a sistema i dati ufficiali con le esperienze degli operatori Caritas nei diversi Paesi Ue e con le testimonianze degli stessi percettori, emergono forti lacune rispetto agli obiettivi della Raccomandazione. 

Nessun Paese europeo raggiunge l’obiettivo cardine di accompagnare fuori dalla povertà i percettori, con prestazioni che mantengono i nuclei familiari al di sotto della soglia della povertà. Le procedure d’accesso restano spesso farraginose e in molti Stati si registra l’assenza di un coordinamento tra assistenza economica e servizi sociali. 

Molti attori dell’economia sociale, come Caritas Europa, chiedono un salto di qualità politico: una direttiva europea vincolante, capace di fissare standard minimi comuni e meccanismi di monitoraggio obbligatori. Il reddito minimo deve essere non solo un trasferimento monetario, ma un “ponte verso l’inclusione”, integrato con formazione, assistenza all’infanzia e alloggi accessibili. Un sistema che trasformi la «ultima istanza» in un trampolino verso autonomia e dignità. 

Il caso dell’AdI
Mentre in Europa si fa strada la consapevolezza della necessità di standard comuni e più ambiziosi, l’Italia ha scelto la strada opposta. 

Con il passaggio dal Reddito di Cittadinanza (RdC) all’Assegno di Inclusione (AdI), introdotto nel 2024, il nostro Paese è tornato a essere l’unico in Europa senza una misura universale di reddito minimo. Questo perché il nuovo schema italiano, analizzato nel dettaglio in un recente rapporto di Caritas Italia, restringe fortemente la platea di beneficiari: per accedere all’AdI, una famiglia deve avere nel nucleo minori, disabili o over 60, oppure componenti riconosciuti come «fragili» dai servizi sociali. Ne restano esclusi i cosiddetti «occupabili», ovvero gli adulti in età lavorativa senza carichi familiari, così come gli occupati a basso reddito: una scelta che contraddice il principio di accessibilità universale della misura, incarnato dai valori europei e promosso dalle stesse associazioni. 

Il risultato di queste restrizioni è che il numero di nuclei beneficiari del reddito minimo è crollato da 1,4 milioni nel 2022 a circa 650mila nel 2024. Il nuovo sistema ha ridotto la platea di quasi la metà, risultando in una perdita di capacità di riduzione della povertà: se il RdC abbassava l’incidenza della povertà assoluta dall’8,9% al 7,5%, l’AdI la riduce solo all’8,3%. A farne le spese sono mezzo milione di nuovi poveri quindi: soprattutto single, lavoratori poveri, famiglie senza figli o disabili, e gli stranieri, spesso esclusi dai criteri anagrafici o di residenza. 

Una questione di democrazia
Entrambi i rapporti Caritas – quello europeo e quello italiano – arrivano alla stessa conclusione: senza un reddito minimo adeguato e accessibile, la lotta alla povertà resta monca. Le misure di ultima istanza non sono solo ammortizzatori economici: sono strumenti di giustizia sociale, fondamentali per evitare che milioni di persone scivolino ai margini. In assenza di una rete di sicurezza universale, la povertà non è solo un problema di reddito, ma di partecipazione, fiducia, cittadinanza. 

L’obiettivo “povertà zero” entro il 2050 promosso dall’Europa sarà credibile solo se accompagnato da politiche comuni vincolanti e da un cambio di paradigma: considerare il welfare non come costo, ma come investimento produttivo. L’Italia, invece, sembra aver imboccato una strada diversa, più restrittiva e meno solidale. 

Nessuna economia può prosperare lasciando indietro gli ultimi. Una crescita sostenibile e inclusiva è l’unica veramente solida nel lungo periodo, perché riduce disuguaglianze, rafforza la coesione e trasforma una fetta di popolazione relegata ai margini della società in cittadinanza attiva che possa contribuire alla vita sociale ed economica.

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