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La guerra in Ucraina punta a stabilire un nuovo ordine mondiale sacrificando l’Europa sull’altare

Immagine di copertina
Credit: Ewan White

Molto spesso in questi giorni abbiamo sentito parlare di guerra per procura. Ovvero una guerra mossa in un territorio per conto di altri Paesi interessati e non per una reale volontà dei popoli residenti. Gli avvenimenti di questi ultimi giorni ormai hanno palesato che non si tratta di una guerra tra Russia e Ucraina, ma di un conflitto su scala mondiale che ha come sfondo uno scontro tra l’Eurasia e l’Occidente.

S&D

Tante le questioni su cui soffermarsi a riflettere. Per prima cosa andrebbe osservato che l’autodeterminazione è una prerogativa del popolo ucraino, o almeno di una maggioranza qualificata di esso, e che si traduce nel riconoscersi in valori facenti riferimento al blocco atlantico o in alternativa in quelli della federazione russa, nel caso delle popolazioni russofone.

Prima di parlare di autodeterminazione andrebbe dunque compreso quanto questa sia stata attuabile negli ultimi decenni, considerando la volontà di un Paese che per tutto il primo decennio degli anni 2000 è risultato diviso per metà, tra i filo occidentali (Galizia, Kiev, ecc.) e i filo russi, (il Donbsass e la parte sud-orientale del Paese). Questo ha reso impossibile una sintesi di collocazione geopolitica dell’Ucraina, creando le condizioni per l’insediamento di sfere d’influenza politica, culturale, militare ed economica, afferenti a Stati terzi, in particolare agli USA, da una parte, e alla Russia dall’altra.

Come già accaduto in altri casi simili, dai Contras in Nicaragua, al Cile di Pinochet, ai talebani in Afghanistan, tali sfere di influenza non di rado fomentano i peggiori istinti reazionari della popolazione, alimentando le divisioni sul piano politico, etnico e culturale. 

Per quel che riguarda l’Ucraina, gli USA, in particolare, hanno più o meno indirettamente appoggiato le varie rivoluzioni, da quella arancione a quella di Euro Maidan, non curandosi di legittimare nascenti gruppi – poi trasformatisi in milizie – interni al Paese, utili a destabilizzarlo. I russi hanno agito di conseguenza, organizzando militarmente il Donbass. 

Nella storia recente emerge in maniera chiara come gli americani abbiano soffiato sul fuoco della “Rivolta di Euromaidan”, non facendosi scrupolo alcuno a sostenere gruppi di facinorosi che si rifacevano al nazismo ucraino della seconda guerra mondiale e fomentando, di conseguenza, non solo il nazionalismo, ma anche l’integralismo etnico contro i russofoni che pure rappresentavano una larga fetta della popolazione. Dall’altra parte, anche la Russia ha reagito sostenendo i referendum secessionisti in Crimea e successivamente in Donbass. 

Nel Donbass però la situazione si è complicata e ha degenerato una guerra civile. Una guerra che dura ormai da quasi un decennio, con decine di migliaia di morti e tanto di crimini di guerra perpetrati dai vari battaglioni neo-nazisti di cui stiamo prendendo coscienza. Solo oggi ci rendiamo conto dei massacri come quello accaduto in Odessa nel 2014, quando i manifestanti filo-occidentali assaltarono una manifestazione filo-russa nella città, con slogan apertamente neo-nazisti, incendiando con le molotov il “Palazzo dei sindacati” e bruciando vive 43 persone, alcune di esse totalmente estranee alla manifestazione.

È dunque evidente come parlare di autodeterminazione del popolo ucraino sembri quasi un ossimoro, utile più ai partiti dell’Occidente che forse devono giustificare l’invio di armi a Zelensky che a una reale possibilità che tale prerogativa sia realmente attuabile. La vera vittima rimane il popolo ucraino e su questo non esiste alcun dubbio.

Abbiamo letto le parole del Papa nella recente intervista al Corriere: “forse l’abbaiare della Nato ha facilitato l’ira russa”. Diciamo in maniera più netta: il governo americano ha le sue responsabilità nel conflitto.

Il filosofo Noam Chomsky, spesso tirato per la giacchetta in questi giorni, nel celebre libro “Capire il potere”, racconta i meccanismi che hanno governato le mosse politiche americane dal dopoguerra ad oggi e come tutte le guerre, dal Vietnam alle rappresaglie in America Latina, siano state volute e perseguite dall’America per imporre un dominio, prima militare, poi economico e infine politico sul pianeta. Questo va sotto il nome di imperialismo occidentale. La questione del predominio militare quale conditio sine qua non per mantenere il dominio economico è tipica del blocco atlantico dalla sua nascita, all’indomani delle seconda guerra mondiale, ad oggi. Oggi in molti concordano sul fatto che la partita in Ucraina e tutt’altro che un conflitto sul diritto dei cittadini ucraini di scegliere con chi stare, ma piuttosto si prefigura come uno scontro potenzialmente deflagrante che ha sullo sfondo il sovvertimento dell’ordina economico mondiale.

Ebbene, forse è il caso di guardarsi attorno superando la miopia di chi vorrebbe mantenere uno status quo anche a costo di una guerra nucleare nel centro dell’Europa, vedi le recenti dichiarazioni del governo britannico dopo la fornitura di armi offensive all’Ucraina o i 33 miliardi $ degli Stati Uniti di Biden assegnati dal parlamento americano ricorrendo a un decreto, attuato l’ultima volta durante il nazismo.

Quando sentiamo ripetere come un mantra dall’informazione italiana il concetto d’isolamento della Russia dobbiamo sapere che si fa riferimento a quel sistema tolemaico nel quale l’Occidente è il centro del mondo e tutto il resto è marginale e subalterno. Il mondo che avanza, ovvero i 35 Paesi – che sui 140 totali rappresentano il 50% della popolazione e i 75% delle materie prime esistenti sulla terra – non si sono opposti all’invasione Russa in Ucraina e da decenni intrattengono scambi commerciali e rapporti politico-diplomatici con la Cina e la Russia. Parliamo di Paesi che hanno un basso debito. La stessa Russia ha solo il 17% del Pil, popolazione giovane, produttività alta, forza militare, materie prime e ampi margini di sviluppo.

Nel decennio in cui la cinese Asian Bank mira a destituire l’FMI e la stessa Banca Mondiale, finanziando e attuando progetti con i tre quarti del continente africano, l’America si risveglia con un’inflazione che punta al 10% e il debito pubblico più grande del pianeta, ormai prossimo ai 30 trilioni di $. Chi ha acquistato parte importante del debito americano sono proprio i cinesi, che sono anche i più grandi compratori di dollari al mondo nel mercato dei cambi e, non di meno, sono il Paese che più di ogni altro ha assorbito la capacità produttiva dell’intero Occidente, puntando a sostituirne la manifattura (anche quella europea), e il principale concorrente sul piano delle nuove tecnologie. L’India non è da meno. Il resto sono materie prime ed energia, ma quelle appunto si trovano in buona parte in Russia, nell’Africa ormai colonizzata dalla tigre cinese e, per la restante parte, nel medio Oriente, ovvero in Arabia Saudita che oggi si riscopre non più così filo-occidentale. Dopo le sanzioni messe in campo verso la Russia, si è scatenata una guerra economico-finanziaria per la quale, anche in caso di distensione e fine del conflitto, il fronte delle economie emergenti accelerera il processo di rivoluzione economica che era già in corso, puntando nel medio periodo alla de-dollarizzazione dell’economia mondiale.

Dobbiamo tener presente che il benessere dei Paesi occidentali dipende per larga parte da un sistema politico-economico basato sull’egemonia del dollaro. L’attuale politica monetaria si basa unicamente sul concetto di fiducia della valuta. Diversamente dal passato, la stampa di moneta è scollegata da qualsiasi tangibilità di controvalore, cioè dalle cosiddette riserve auree. L’attuale ordine mondiale vide la luce nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods. In quell’occasione l’impero Britannico cedette lo scettro di padrone del mondo agli Stati Uniti ponendo le basi del nuovo imperialismo economico, basato su un sistema di cambi fissi tra il dollaro e le altre monete dellOccidente e una diretta corrispondenza tra dollaro e le riserve auree amaricane (che erano le più grandi del pianeta), questo pose di fatto il dollaro al posto dell’oro. In quell’occasione fu fondato anche Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Successivamente, nel ‘71, dopo il piano Marshall, il miracolo economico e la guerra in Vietnam, si scoprì che i dollari in circolazione erano talmente tanti che non esisteva nessuna riserva aurea nell’universo in grado di garantirne la solvibilità. Così, con un accordo tra il Presidente Nixon e l’Arabia Saudita, si creò il sistema dei petroldollari: un accordo per il quale il petrolio, e successivamente tutte le materie prime, sarebbero state quotate solo in dollari, e dunque la moneta americana presa come unico riferimento in tutte le transazioni internazionali. Questo significò considerare il dollaro come bene rifugio e valuta di riserva mondiale. 

Possedere la moneta di riferimento planetario portò molti vantaggi: la supremazia finanziaria riconosciuta agli USA, una sostanziale libertà di tassi molti bassi nonostante il debito elevato, nessun rischio di fuga di capitali, ma anzi una forte attrattiva di investimenti nel debito del Paese e nessun rischio di svalutazione della moneta. La tenuta del dollaro come riferimento negli scambi commerciali del pianeta rappresenta la supremazia americana sul panorama internazionale. 

Grazie a questo e alla supremazia militare, gli Stati Uniti hanno potuto regnare indisturbati sull’economia mondiale, non ponendo limite alcuno al livello di benessere del Paese. Stampare dollari, infatti, per la FED – Banca centrale americana – è sempre stata un’operazione a costo zero, non dovendo incappare in nessun rischio di svalutazione della moneta, in quanto i dollari potevano anche essere stampati in quantità enormi e diluiti nell’intera economia del pianeta. 

Oggi però, dopo un ventennio di crescita esponenziale dei Paesi BRIC (Brasile, Russia, India, Cina), la situazione è in forte cambiamento.

Mentre siamo inebriati da una litania soft sull’invio di armi e sulle azioni di contenimento della crisi, spendendo decine di mld€ al mese in deficit per attutire le ricadute delle sanzioni alla Russia in Italia, mentre applaudiamo Zelensky quale salvatore nelle piazze e nei Parlamenti, piuttosto che chiedere “ragione” ai nostri governanti delle scelte che stanno compiendo, dovremmo domandarci qual è la reale posta in gioco del conflitto Ucraino, che sullo sfondo vede disegnarsi un enorme cambio di paradigma e uno scontro tra Eurasia e Occidente.

I Paesi emergenti sono i principali competitor degli USA ormai da decenni e oggi si apprestano a indebolirli ulteriormente e a chiudere la partita proprio sul piano monetario. La Russia ha annunciato che userà lo Yuan cinese come moneta di riferimento; l’Arabia Saudita, quella del Bin Salman, amico degli States, per la prima volta gira le spalle agli USA, dichiarando che commercerà il loro petrolio con la Cina, direttamente in Yuan; l’India ha recentemente stabilito che gli scambi con la Russia sull’acquisizione di gas e petrolio avverranno in rupie, tenendo come riferimento lo yuan cinese. La stessa Russia chiede il pagamento in rubli delle forniture energetiche all’Europa, e ha recentemente chiuso il gas a Polonia e Bulgaria che non hanno accettato l’imposizione di Putin.

La cosa sta generando un terremoto finanziario in Europa, con diverse società fornitrici che starebbero seriamente pensando di aprire i conti in rubli. Da uno sguardo ai grafici dei Forex emerge in maniera lampante come non ci sia stato nessun default del rublo, anzi. Dopo 15/20 giorni di caduta della moneta russa subito dopo la decisone delle sanzioni, è seguita una forte rimonta nel rapporto rublo/euro e ad oggi le sanzioni hanno generato un rublo più forte. In uno scenario del genere, più che di isolamento della Russia, forse bisognerebbe parlare di isolamento dell’Occidente.

Il vero elemento di criticità in tutto ciò emerge guardando i grafici di indebitamento degli Stati Uniti. Infatti, negli ultimi 15 anni, in generale dagli anni ‘80 ad oggi, questo debito – nonostante i parametri di crescita del Paese – è salito in maniera esponenziale, soprattutto dopo la crisi del 2008. Oggi è talmente alto che qualsiasi economia farebbe fatica a reggerlo. Il fatto di poter stampare la moneta necessaria, senza incappare in alcun rischio inflativo (almeno finora) e senza svalutazione della moneta stessa, ha permesso agli americani di poter vivere molto al di sopra delle loro possibilità, con livelli di consumo molto alti e un tenore di vita invidiabile. Ove dovesse finire la supremazia del dollaro perché soppiantato dallo yuan, finirebbe la capacità di indebitamento degli States e con essa si affaccerebbe il rischio di default e lo spettro della recessione della più grande potenza mondiale, con limitazioni nei consumi, disoccupazione, drastiche riduzioni del welfare, ecc. Tutto ciò è quello che si prefigura dietro le quinte di un potenziale conflitto mondiale.

Il sociologo John Thompson, nel descrivere i quattro poteri che governano i rapporti nel mondo moderno, insegnava a mettere al centro il potere “coercitivo”, prima di quello “politico” e di quello “economico”, perché appunto la forza può sempre sovvertire l’ordine delle cose e mantenere gli status quo egemoni. Questo accade tra l’Occidente e il resto del mondo da quasi 80 anni a questa parte. Solo che oggi, dopo il rientro da perdenti in Afghanistan, l’America e l’Europa non si possono permettere più bare con le salme dei suoi soldati che rientrano a casa dalle guerre, per questo si apprestano a usare i morti degli altri.

L’Ucraina ha un esercito di 300 mila persone da armare fino ai denti: operazione molto pericolosa, perché così si rischia di generare una grande e incontrollata forza, con chiare infiltrazioni naziste al suo interno, disposta al sacrificio estremo. Utili potenziali strumenti nelle mani di procuratori esterni. Le esperienze del passato non fanno ben sperare, eppure la memoria non conta nulla. Parlare dei motivi e fare delle riflessioni sul problema viene liquidato come “complicazionismo”. Tutto per mettere a tacere una guerra mossa da interessi tali da prefigurare un nuovo ordine mondiale, nel quale evidentemente non ci si fa scrupolo alcuno a sacrificare l’Europa sull’altare. La cosa assurda in tutto ciò è il comportamento kamikaze degli Stati europei.

Sempre Thompson spiegava che il quinto potere, quello simbolico, ovvero la comunicazione, negli ultimi 60 anni è diventato l’unico in grado di sovvertire il potere coercitivo, perché muove le masse e la pubblica opinione. Ne sanno qualcosa gli americani e lo stesso Nixon già dai tempi del Vietnam. Bene, allora vediamo di farne buon uso.

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