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Perché arrendersi alla dittatura della guerra?

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Credit: AP

Non solo Israele e Hamas. Sono 170 i conflitti in corso nel mondo. Resiste l’idea infame per cui gli spargimenti di sangue sono ineluttabili. Eppure la maggioranza delle persone non tollera più questa concezione. Significa che cambiare le cose è possibile

Osservare la cartina del mondo disegnata, come ogni anno, dall’Icg, l’International Crisis Group, è impressionante. Ovunque, ma proprio ovunque, ci sono focolai, tensioni, conflitti che portano a morti violente degli esseri umani. Ad oggi sono in corso 170 guerre in tutti i continenti, Antartide escluso, per il momento.

Mentre la discussione del pianeta ha – comprensibilmente – il suo focus su Israele, nel resto della Terra, ogni secondo muoiono ingiustamente e per violenza bambini e donne e uomini. Una macabra contabilità di morte distingue tra morti militari e civili. Come se non fossero carne, sangue e progetti e vita e gioia sia gli uni che gli altri. La stessa incomprensibile idea parla di “crimini di guerra”, come se la guerra non fosse, essa stessa e comunque, un crimine.

Ma la teoria sottesa, il pensiero più infame, più indegno e più inaccettabile è che la guerra sia ineliminabile. Esista. Anzi, che sia anche utile. Bella, per citare il Coriolano di Shakespeare che gridava: «Ah, per me, dico, datemi la guerra! È meglio cento volte della pace, come il giorno è migliore della notte; la guerra è cosa viva, movimento, è vispa, ha voce, è piena di sorprese. La pace è apoplessia, è letargia: spenta, sorda, insensibile, assonnata, e fa mettere al mondo più bastardi che non uccida uomini la guerra». Ma se quella è letteratura, questa è realtà.

Davvero ancora noi siamo visitati dal sospetto che la guerra sia sempre inevitabile? Che combattere sia parte consustanziale dell’umanità, e che la guerra sia un bene, ma vada solo condotta con regole accettate dalla Convenzione di Ginevra? D’altro canto, se ti attaccano e uccidono i tuoi, cosa puoi fare se non uccidere i loro?

Eppure, lo stesso pensiero, grazie a Dio, non è più tollerato all’interno delle nostre organizzazioni sociali, dei nostri Stati, delle nostre città.

Mentre prima era opportuno saldare i conti da soli, oggi (quasi) nessuno di noi pensa che sia bene andare a sparare al ladro che ha svaligiato casa o finire a sventagliate di mitra neppure chi abbia commesso crimini pur atroci. I parenti di un morto ammazzato chiedono giustizia, che il colpevole venga murato in carcere, forse. Ma non è socialmente accettato che vadano a “farsi giustizia da sé”. Ci si affida allo Stato, alla polizia, alla giustizia organizzata. Alla legge.

Perché non pensare allora che un ordine mondiale, pur imperfetto, pur asimmetrico, pur zoppicante possa esistere? Perché non sperare che gli uomini di buona volontà possano creare una struttura sovrannazionale, dotata di norme e diritti e forza per farle rispettare, per – almeno – limitare le carneficine?

Il fracasso della struttura delle Nazioni Unite è evidente. Un sistema governato dal veto dei cinque vincitori della Seconda guerra mondiale, oramai quasi 80 anni fa, non regge, non funziona, fa acqua. L’Onu va riformata e va riformata ora, con un movimento urgente e trasversale di tutti i Paesi del mondo, di tutte le democrazie, di tutti quelli che non vogliono altra violenza. Evitare il baratro, ad ogni costo.

Se la guerra tra Israele e resto del mondo prosegue con questa virulenza, se continueremo a pensare che il conflitto sia inevitabile (e fors’anche giusto), se proseguiremo a dividerci tra filo-israeliani e amici di Hamas, cercando le cause del conflitto per capire cosa succederà ora, ci condanneremo al fallimento e il mondo ad una distruzione bestiale.

Possiamo continuare a mantenere e rispettare la nostra natura di uomini imperfetti, di legno storto, di prevaricatori, anche pensare, come diceva Eraclito, che Pòlemos (il demone della guerra, ndr) di tutte le cose è madre. Proseguire a combattere le prepotenze, affermare i nostri diritti, vincere contro gli interessi di altri, ma senza uccidere, senza sparare, senza programmare aggressioni nei kibbutz o operazioni di terra. Si può. Si deve.

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