Il Fatto deve risarcire il padre di Renzi, Travaglio furioso: “Cambiamo mestiere”
Marco Travaglio ha commentato la sentenza che obbliga il suo giornale a versare un risarcimento di 95mila euro a Tiziano Renzi
“Quando un Tribunale ti dà torto e sai di avere ragione, impugni la sentenza e speri che i giudici di secondo grado in appello te la riconoscano. Così ci siamo sempre comportati, senza fare tante storie. Ora però la sentenza del Tribunale civile di Firenze che dà torto al Fatto (cioè al sottoscritto e a una brava collega), imponendoci di versare lo spropositato risarcimento di 95 mila euro a Tiziano Renzi e creando un precedente che mette a rischio la sopravvivenza del nostro giornale, ci costringe a rivolgerci subito a voi lettori”.
È l’amaro attacco dell’editoriale di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano di martedì 23 ottobre.
Travaglio ha commentato la sentenza che stabilisce che Tiziano Renzi, padre dell’ex premier Matteo Renzi, dovrà essere risarcito con 95mila euro dal Fatto Quotidiano.
Tiziano Renzi aveva querelato il quotidiano diretto da Marco Travaglio per una serie di articoli pubblicati tra fine 2015 e inizio 2016 in cui il direttore del Fatto aveva dato del “bancarottiere” al padre dell’ex premier, anticipando la pronuncia del tribunale di Genova sul fallimento dell’azienda di famiglia Chil Post.
“Non siamo qui a gridare al complotto né a piagnucolare per la persecuzione giudiziaria – scrive Travaglio nel suo editoriale – Anzi, se avessimo scritto qualcosa di falso e/o diffamatorio, come può sempre capitare in un quotidiano, avremmo già rettificato da un pezzo, senz’attendere che Renzi sr ci facesse causa. Ma non è questo il caso”.
Il direttore del Fatto ripercorre poi la vicenda fornendo la sua versione.
“Il signore in questione ci aveva intentato una causa da 300mila euro per sei articoli usciti fra il 2015 e il 2016: il giudice gli ha dato torto per quattro articoli e ragione per un titolo (a un articolo ritenuto corretto) e due parole contenute in due miei commenti (per il resto ritenuti corretti). E ha stabilito che il titolo e le mie due parole valgono 30 mila euro ciascuno, più 5 mila di riparazione pecuniaria”
“Le mie due paroline da 30 mila euro ciascuna sono ‘bancarotta’ e ‘affarucci’ – prosegue Travaglio – In quel momento Tiziano Renzi era indagato a Genova per la bancarotta di una sua società poi fallita, la Chil Post. Che la società fosse fallita non era in discussione (il crac è del 2013), mentre si trattava di stabilire se Renzi padre avesse commesso il reato di bancarotta (in seguito avrebbe ottenuto l’archiviazione, che naturalmente non riportò in vita la società fallita, anche perché altri coimputati sono a processo per quella bancarotta)”.
“Il crac c’era, la condanna di Renzi sr per bancarotta no: e infatti non ho mai scritto che avesse commesso quel reato, ma semplicemente che era coinvolto nella bancarotta di una società di cui era stato proprietario (e dove aveva assunto Matteo)”.
Il direttore del Fatto conclude quindi con amarezza.
“Un titolo e due articoli che non contengono fatti falsi e che riscriverei uguali altre cento volte. E sapete il perché di quella cifra spropositata? Per ‘la posizione sociale del soggetto diffamato (padre del Presidente del Consiglio, politico e imprenditore)’. Perbacco. Così la regola aurea che vuole i potenti più esposti alle critiche viene ribaltata: più conti e meno puoi essere criticato”.
“Certo, potremmo evitare tutto questo facendo come tanti altri: usando la lingua al posto della tastiera. O facendoci scrivere gli articoli da qualche giudice, per dire che chi fa fallire le sue società è un grande imprenditore un po’ sfortunato e chi compra terreni con un socio lo fa a sua insaputa. Ma non ne siamo proprio capaci. Piuttosto, preferiamo cambiare mestiere”.