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I miei figli non vanno a scuola e mai ci andranno

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Erika Di Martino, madre di cinque figli, racconta a TPI il modello educativo che permette ai ragazzi di apprendere come e quanto vogliono a casa, senza orari e compiti

Invece di alzarsi presto la mattina, immergersi nel traffico della città, combattere per far fare i compiti ai ragazzi, confrontarsi con note e insegnanti, Erika Di Martino ha preferito seguire un’altra strada per l’educazione dei propri figli. Si è affidata all’homeschooling, anzi, in particolare, all’unschooling, due metodi di istruzione parentale assolutamente legali.

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L’homeschooling è un metodo educativo per ricreare la scuola tra le mura di casa, seguendo i normali programmi scolastici e restando fedeli a tempi prestabiliti. Il bambino non viene iscritto in nessun istituto, ma è il genitore a fornire gli strumenti e le nozioni necessarie per la formazione.

L’unschooling prevede invece che i ragazzi conseguano le conoscenze tra le mura di casa senza seguire un programma prestabilito e senza orari. Possono approfondire le materie che suscitano in loro maggiore interesse, secondo le modalità che preferiscono. Anche in questo caso sono i genitori che provvedono all’educazione dei figli.

L’istruzione parentale è assolutamente legale in Italia. L’articolo 34 della Costituzione recita: “L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”.

Ancora prima dello Stato quindi, sono i genitori i responsabili dell’istruzione dei propri figli e per farlo potranno inviare una lettera e comunicare ogni anno alla direzione didattica di competenza la volontà di educare i figli a casa. Alla prima lettera deve essere allegata l’autocertificazione che attesta le capacità tecniche e le possibilità economiche dei genitori.

Niente voti, niente compiti e grembiuli, niente orari: i figli di Erika crescono seguendo un percorso alternativo, libertario, ma non anarchico. I suoi cinque bambini sono responsabilizzati, si investe fiducia sulla loro capacità e voglia di apprendere seguendo maggiormente attitudini e passioni personali, piuttosto che imponendo dall’alto una formazione prestabilita. Erika lavora part time e tutta la famiglia – composta da sette persone – vive a Milano grazie allo stipendio del papà.

Eliminate le spese per tasse scolastiche, iscrizioni e libri, si fa economia per poter apprezzare tutte le esperienze e i viaggi dal valore didattico. Si parte in bassa stagione e si sfruttano le offerte, ma ogni occasione è buona per imparare qualcosa. Dalle visite nei musei ai viaggi alla scoperta di nuove città e modi di vivere.

Ma come si cresce, come ci si forma, come ci si rapporta con il resto della società? È davvero tutto così semplice e bello come sembra?

Erika di Martino, la mamma-insegnante e fondatrice del network italiano educazioneparentale.org, racconta a TPI come funziona questo modello educativo molto diffuso in America e oggi particolarmente apprezzato anche in Italia.

“Il bambino ha un desiderio innato di apprendere, l’adulto non dovrebbe rovinare questa curiosità come spesso accade”, racconta Erika. “Talvolta la sana voglia di imparare dei figli è scoraggiata, impedendo l’approfondimento di tematiche a loro care e trattando con superficialità le richieste dei ragazzi”.

Secondo quanto spiega Erika esiste un modo per stimolare questo desiderio di apprendimento e parte prima di tutto con una responsabilizzazione del bambino al quale viene fatto conoscere l’ambiente che lo circonda, il proprio corpo, gli alimenti di cui si ciba ogni giorno.

“Ogni elemento può essere un pretesto per cominciare un approfondimento, anche solo l’alimentazione contiene in sé così tanti campi semantici che spaziano dalla geografica alla storia, dall’economia alla biologia”, spiega Erika. “Il problema è che fin da piccoli siamo stati abituati a intravedere una differenza tra studio e gioco e questo non rende credibile la teoria secondo la quale si può apprendere giocando”.

Alcuni critici sostengono che questo metodo lascia un’eccessiva libertà al bambino. Questo comporta una mancanza di regole, vuoti formativi riguardanti le materie apprese e una difficoltà nel riuscire a rapportarsi con la società dato il mancato confronto con compagni di classe.

“Io ho un metodo di procedere empirico, ho studiato libri di pedagogia moderna e classica. Ho appreso e trasferito le nozioni che potevano essere utili nel mio metodo educativo”, ribatte Erika. “Non lascio fare ai miei figli tutto quello che vogliono come se dovessero crescere allo stato brado, applico una leadership genitoriale forte, a differenza di quello che vedo in molte altre famiglie. Per quanto riguarda le materie posso garantire che tocchiamo tutti gli argomenti e il rapporto che posso avere con i miei figli che uno a uno, rispetto a quello che si trova in tantissime aule super affollate dove il rapporto tra insegnante e alunno è almeno uno a 25”.

I bambini sono supervisionati e seguiti, sono provvisti delle tecnologie necessarie per stare al passo con i tempi e quando sbagliano – come accade a tutti i bambini il cui desiderio resta comunque il gioco e lo svago – è mostrato loro l’errore commesso, facendo leva sullo speciale rapporto che si è creato con i genitori.

A Erika si obietta inoltre che forse in questo modo si è voluta fare una scelta di comodo. Forse vuole far evitare ai propri figli sofferenze ed esperienze necessarie per un corretto sviluppo della personalità.

“La sofferenza è intrinseca nella vita stessa di un individuo, non basta togliere un bambino dalla scuola per preservarlo da bullismo o violenza”, si difende Di Martino. “Per fare esperienza basta andare a giocare a calcetto, in un parco giochi o confrontarsi con tutto quello che accade per strada, anche solo nel proprio quartiere”.

Per la mamma-insegnante la scelta di educare i propri figli a casa non è adatta a tutti. “È una decisione che va ponderata, non è importante essere tuttologi”, conclude Erika. “Il bambino ama che il proprio genitore si sieda accanto a lui. Sicuramente non è una scelta d’élite. Io lavoro part time e mio marito è un impiegato, ce la stiamo facendo anche con cinque bambini, bisogna sapersi organizzare”.

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