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Il mio viaggio in uno dei confini più instabili d’Europa

Immagine di copertina

Il fotoreportage di TPI dalle enclavi serbe circondate dal Kosovo nazionalista. Qui le famiglie di entrambi i paesi piangono vittime e carnefici

Per alcuni è la polveriera dei Balcani, per altri un simbolo di speranza, di certo la regione del Kosovo è un groviglio di rancori, minoranze etniche e religiose che tentano una lenta e precaria convivenza tra risoluzioni non definite, confini instabili e armi sepolte nei bauli.

S&D

Negli anni Novanta, in ogni punto cardinale dei Balcani infuriavano guerre destinate a segnare in modo definitivo territori e inimicizie che ancora oggi sopravvivono in forma latente. In particolare, nella regione del Kosovo, il fronte nazionalista serbo fu protagonista di violenti azioni repressive verso i kosovari di etnia albanese costretti a drammatiche migrazioni in Albania.

(Credit: Sandro Montefusco. L’articolo continua dopo la foto)

Alla fine degli anni Novanta vittime e carnefici si confusero e ai rastrellamenti dei nazionalisti serbi si sostituirono le rappresaglie dell’Esercito di liberazione kosovara (UCK) contro montenegrini, serbi e gitani al fine di ripulire il Kosovo soprattutto dalle minoranze serbe e ortodosse.

La guerra ebbe la sua risoluzione solo nel 1999 grazie all’intervento della Nato con la missione militare internazionale Kosovo Force (Kfor), alla quale partecipa anche il contingente italiano. Il Kosovo ebbe la possibilità di dichiarare la sua indipendenza dalla Serbia e, nello stesso tempo, alla Kfor venne assegnato il difficilissimo compito di garantire la sicurezza, la tutela e la sopravvivenza di tutte le minoranze etniche e proteggere l’enorme patrimonio storico dei monasteri ortodossi nel cuore del Kosovo. Ancora oggi, a quasi 20 anni dall’intervento della Nato, la Kfor garantisce una convivenza pacifica.

È proprio in compagnia dei militari della più grande base internazionale Nato a comando italiano, che TPI ha compiuto un viaggio nel Kosovo, per conoscere villaggi, monasteri, terre di confine e uomini e donne che tentano di seppellire armi e rancori per costruire un desiderato e sofferto futuro di pace.

(Credit: Sandro Montefusco. L’articolo continua dopo la foto)


Il silenzio di Peje

Peje è una delle principali cittadine del Kosovo occidentale. Nel suo distretto convivono una decina di differenti gruppi etnici. La maggior parte della popolazione è di etnia albanese (90 per cento), seguono diverse sotto etnie rom (4 per cento), bosniaci e piccolissimi altri gruppi come i serbi (0.4 per cento).

A meno di dieci chilometri dal centro della città, sorge il villaggio di Goraždevac, enclave serba in cui oggi vivono poco più di 500 abitanti ma prima della guerra vi erano quasi 2mila persone.

Sul lungo rettilineo di collegamento da Peje si intravede il colore marrone delle costruzioni. Casolari semplici, costruiti con fango e mattoni, circondati da orti e piccoli pascoli. L’ostilità del vicinato e le continue minacce subite in quasi un ventennio rendono precaria la stabilità e in un certo senso “vietano” l’ambizione stessa a un vivere più dignitoso. Più volte le rappresaglie hanno scoraggiato il ritorno di famiglie serbe nelle loro antiche abitazioni, molte delle quali completamente distrutte. 

(Credit: Sandro Montefusco. L’articolo continua dopo la foto)


Nel villaggio c’è un silenzio profondo, solo pochi rumori agresti e il vociare di alcuni bambini in un orto. Nella piccola piazza ci sono due uomini che fumano e salutano cordialmente le mimetiche dei militari. La loro stessa esistenza è il frutto della presenza dalla Kfor. 

A loro chiediamo la strada per il cimitero, più volte profanato e distrutto. Indicano una quercia immensa. C’è erba molto alta, un vecchio cancello arrugginito all’ingresso e un gentile prato che abbraccia le lapidi. Timidamente una bandiera serba accompagna il silenzio mentre si scorgono le date di morte. Quel drammatico 1999 è stato il pianto violento di popoli che hanno confuso ragioni e torti, vicini e nemici. 

(Credit: Sandro Montefusco. L’articolo continua dopo la foto)

Il blindato che ci ha portato fin qui fa da sfondo alle lapidi dei caduti mentre i due uomini ci seguono con lo sguardo. Decidiamo di tornare indietro, di incrociare ancora gli occhi rugosi e socchiusi che si intravedono dal fumo di una sigaretta morbida tra le labbra. Nel silenzio del vento dei Balcani, le conversazioni hanno poche parole, solo timidi gesti. Ci stringiamo la mano e loro salutano con braccio alzato il motore rumoroso del blindato che ci riporta a Peje. 

Non abbiamo ancora percorso i sette chilometri per il centro che ci fermiamo ancora. Lungo la strada c’è un altro cimitero ma questa volta le croci ortodosse sono sostituite da minareti che sovrastano le lapidi. La bandiera albanese sventola alta, l’aquila a due teste veglia fiera i suoi caduti. La data di morte è sempre la stessa. Mi sembra incredibile che a pochi chilometri di distanza le famiglie debbano piangere le vittime e i carnefici gli uni degli altri. 

(Credit: Sandro Montefusco. L’articolo continua dopo la foto)

Decani e il monastero salvato

Da Peje questa volta ci dirigiamo in direzione sud verso Decani. È un piccolo centro di 30mila abitanti con una forte identità albanese, a pochi chilometri proprio dai confine con il Montenegro e l’Albania. Qui il partito nazionalista raccoglie larghe maggioranze e non è un caso che sia la città di Ramush Haradinaj, ex generale dell’UCK, oggi politico d’opposizione del governo kosovaro. Eroe nazionale per i kosovari, accusato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità dai serbi.

È proprio in questa cittadina, cuore dell’ideologia nazionalista kosovara-albanese, che è presente il più antico monastero della chiesa ortodossa serba. Costruito nel 1300, il monastero Visoki Decani è la più grande chiesa medievale dei Balcani e contiene il più grande affresco bizantino che si sia conservato fino a noi.

(Credit: Sandro Montefusco. L’articolo continua dopo la foto)

I paradossi della Storia e dei popoli regalano questo contrasto che per alcuni aspetti è stato drammatico. La Serbia difese con un enorme schieramento di forze il suo cuore storico e religioso. Accerchiato da un ambiente ostile, il monastero ha rischiato più volte di essere distrutto come tanti altri monasteri minori. Gli albanesi, dopo aver subito le pulizie etniche serbe, volevano distruggere ogni resto storico della cultura serba-ortodossa senza nessun risparmio. Solo l’intervento della Nato ha permesso di salvare il monastero patriarcale di Peje e quello di Decani. 

Il comandante operativo della missione Kfor spiega a TPI l’importante compito di difesa del monastero, l’immensa ricchezza storica del luogo e le antichissime tradizioni che circa trenta monaci difendono e conservano all’interno di quel luogo. Un monaco ci accompagna nella cattedrale, ci spiega la simbologia, gli affreschi e ci invita per un sorso di rakija, bevanda nazionale serba.

(Credit: Sandro Montefusco. L’articolo continua dopo la foto)

Lo stupore nell’entrare nel monastero è enorme. Ammiriamo la bellezza degli affreschi, la calma interna dei prati, le coltivazioni e le attività dei monaci, grazie alle quali sono in grado di autofinanziarsi e sostenersi. 

Raccontano che le truppe serbe, anche dopo la risoluzione, non abbandonarono il monastero fino a quando non ci fu fisicamente il passaggio di consegne alle forze garanti del Kfor.

Terminata la stradina di collegamento con il grande monastero, a Decani sventolano alte le numerose bandiere albanesi, i manifesti della propaganda dell’UCK e altri in onore dell’eroe nazionale Haradinaj.

Viene da chiedersi quanto tempo ancora dovrà passare affinché dolore e rancori possano diluirsi nelle generazioni. Fino ad allora la Kfor garantirà il rispetto delle minoranze, i confini precari e tutelerà i processi che condurranno alla preziosa autodeterminazione del popolo kosovaro.

Ritorno a “Villaggio Italia”, la base di Belo Polje sede del contingente italiano in Kosovo. Con le nuvole gonfie e il vento freddo sembra già notte. Nei pressi del bar, accanto allo spaccio alimentare della base, riesco a collegarmi al wifi per organizzare il viaggio di ritorno. Accanto a me un giovane militare italiano, con un’inconfondibile cadenza sicula parla alla moglie chiedendole della pagella della figlia. Rassicurato, torna nella sua stanza.

Un’altra notte può scendere serena sui confini dei Balcani.

(Credit: Sandro Montefusco)

Si ringrazia il Tenete Colonnello Lo Monaco (Brigata Folgore) e il contigente italiano KFOR. 

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