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I morti che conviene dimenticare

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In Bielorussia lo Stato ricorda le vittime del nazismo, ma dimentica quelle del comunismo

Ventisei camini emergono dalla distesa di neve che ricopre l’area del memorial del massacro di Khatyn. Sono sparsi qua e là, per segnalare dove un tempo sorgevano le modeste abitazioni di chi viveva in questo villaggio alla periferia est della capitale bielorussa. In cima a ogni camino c’è una campana, che rintocca in totale sincronia con le altre scandendo il passare di ogni minuto. Un singolo e cupo rintocco corale rompe il silenzio ogni sessanta secondi, cosi che nessuno possa mai scordarsi di questa tragedia.

S&D

Settant’anni fa la Bielorussia veniva affossata dagli eventi della Seconda Guerra Mondiale, schiacciata tra le due maggiori potenze continentali. Da ovest avanzavano i nazisti, che seguendo le direttive dell’Operazione Barbarossa si servivano della Bielorussia per aprirsi la strada verso la Russia.

I partigiani bielorussi ricorrevano spesso a rappresaglie organizzate con mezzi limitatissimi. In una di queste azioni di disturbo il 22 Marzo 1943 attaccarono un convoglio nazista, uccidendo quattro soldati tedeschi. Tra questi c’era Hans Woellke, vincitore di una medaglia d’oro nel lancio del peso alle Olimpiadi di Berlino del 1936, con il quale anche il Fuhrer all’epoca si era voluto congratulare di persona.

La vendetta nazista non si fece attendere. Quello stesso pomeriggio il battaglione 118 degli Schutzmannschaft, le forze ausiliarie collaborazioniste, si recò in blocco al villaggio di Khatyn. Radunarono tutti gli abitanti in un fienile, bloccarono porte e finestre, e infine appiccarono un incendio. Morirono 149 persone, tra cui 75 bambini. Sopravvisse solo Joseph Kaminsky, che quel giorno perse il figlio.

A loro due è dedicata la statua di bronzo di 6 metri che accoglie i visitatori al memorial di Khatyn. Alle spalle del colosso che porta in braccio il figlio esanime si intravedono le tombe di tutte e 149 le vittime, la neve attentamente spalata per non coprirne i nomi.

Alla sinistra delle tombe un’altra scritta in bronzo, e un numero, 186. Ricorda che la sorte di Khatyn non fu unica. Altri 185 villaggi vennero rasi al suolo in circostanze più o meno simili.

I soldati bielorussi vengono regolarmente in visita a quello che è il complesso memoriale più grande della nazione. Battaglioni interi si muovono ordinati lungo i sentieri stretti già battuti, parecchi tirano fuori la macchinetta fotografica e immortalano il momento. Oggi come ieri i nemici circondano la Bielorussia, loro sono i primi a doverselo ricordare.

In macchina serve meno di un’ora per raggiungere la foresta di Kurapaty, teatro di un’altra tragedia bielorussa, seppur diametralmente opposta per quanto riguarda i colpevoli e la maniera in cui viene ricordata. Se da ovest avanzavano i tedeschi, infatti, da est si faceva strada – e invero si era già stazionata da tempo – l’armata rossa di Stalin, rendendosi spesso colpevole di stragi di innocenti.

Tra il 1937 ed il 1942 a Kurapaty vennero giustiziati e seppelliti dai servizi segreti sovietici almeno 30 mila civili bielorussi, sebbene le stime più ampie arrivino fino a duecento mila vittime. Ma bisognò aspettare il 1988 per “scoprirlo”.

“Kurapaty: la strada della morte” e “I pini mormorano sopra la tomba” sono i titoli dei principali articoli pubblicati in quell’anno dallo storico Zianon Pazniak. Grazie ai suoi studi e alle sue ricerche, il procuratore generale aprì un’inchiesta che portò alle prime esumazioni dei cadaveri.

Quasi tutti i teschi rinvenuti presentavano un foro di 5-6 cm sulla fronte, e uno di simile diametro sulla nuca, chiari indizi di esecuzioni sommarie. Pochissimi invece presentavano ferite di striscio e in posti diversi, segno che qualche prigioniero aveva forse tentato la fuga. Negli scavi iniziali furono ritrovati anche 200 bossoli per il tipico fucile sovietico Mosin-Nagant e una pistola TT-30.

Ma ricordare una strage perpetrata dai comunisti, in un Paese che oggi come ieri mantiene la sua facciata rossa, è estremamente scomodo. La Bielorussia aveva promesso la creazione di un memorial, che però non si è mai avverata. E tanto meno Alexander Lukashenko, al potere dal 1994 nell’ultima dittatura d’Europa, ha oggi interesse a pubblicizzare le stragi perpetrate sul suolo bielorusso da parte di quel pase che oggi ritiene essere il suo più potente alleato. Furono gli attivisti, allora, a prendere l’iniziativa e ad installare centinaia di croci di legno alte un metro all’interno della foresta.

Chi visita Kurapaty si trova quindi davanti a una scena spettrale. I pini mormorano davvero sulle tombe segnate dalle centinaia di croci. E sono gli unici a parlare, perchè i visitatori sono quasi inesistenti. Non ci sono sentieri con la neve spalata, come a Khatyn. Soltanto le orme solitarie di chi, incurante della neve che arriva quasi alle ginocchia, ha deciso di portare i fiori a queste vittime dimenticate dallo stato.

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