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La vita dopo l’inferno: nomi, voci e volti di rifugiati che hanno affrontato l’orrore nel viaggio verso l’Europa

Immagine di copertina
Yakub (23, dal Mali) e la sua sposa Fatima (20, anche lei dal Mali) ritratti all'interno della loro tenda in un campo di accoglienza di Settimo Torinese. Avendo un figlio in arrivo fra pochi mesi e con la loro richiesta d'asilo ancora in sospeso, sperano che le autorità italiane possano presto fornirgli una sistemazione più adeguata.

“Dopo aver provato a scappare [da un campo di detenzione dei trafficanti] mi legarono e mi appesero in modo che le mie gambe non toccassero il suolo. Poi mi picchiarono senza pietà con dei tubi. […], racconta Moses, fuggito dal Ghana.

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“Ti affamano, ti attaccano per giorni e giorni, per costringerti a pagare un riscatto per essere rilasciato. Altrimenti, se trovano uno dei loro partner disposto a comprare, ti vendono! Vendono esseri umani laggiù!”, racconta ancora, in un centro di accoglienza a Messina.

Attraverso una narrazione collettiva fatta di ritratti, testimonianze e scene di vita comune raccolti in vari centri d’accoglienza in Italia, ‘Life after hell’ (‘La vita dopo l’inferno’) mira a restituire nomi, voci e volti ai rifugiati che hanno affrontato l’orrore durante il loro viaggio e sono fuggiti dall’inferno libico per costruirsi una vita altrove.

Mercy ha 30 anni e viene dalla Nigeria. Oggi si trova in una sistemazione temporanea per richiedenti asilo a Bergamo.

Sistemata nell’appartamento assieme al marito Abdulai ed alla figlia neonata Fareeda, Mercy fuggì dalla Nigeria dopo l’incendio alla sua abitazione provocato da nemici della sua famiglia.

Sul suo braccio destro sono ancora chiaramente visibili le ustioni provocate dall’incendio.

L’IOM stima che a fine 2016 erano presenti in Libia tra i 700.000 ed il milione di migranti. Nella maggior parte dei casi sono detenuti illegalmente in campi gestiti da trafficanti armati e vengono sottoposti ad ogni tipo d’abuso, tra cui pratiche schiaviste e tortura.

In fuga dal loro paese prima e dalla Libia poi, tra gennaio 2014 e ottobre 2017, in media 8 persone al giorno sono morte nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Italia. È la rotta migratoria più letale al mondo, con oltre 10.000 morti in 3 anni e mezzo.

Ciononostante, durante lo stesso periodo più di 500.000 persone hanno raggiunto le coste italiane, e oltre 270.000 hanno fatto richiesta d’asilo. Durante i 2 anni di attesa necessari per ottenere una risposta, i richiedenti asilo vengono ospitati in centri di accoglienza su tutto il territorio. Hanno diritto a vitto, alloggio, lezioni d’italiano e una modesta somma in denaro, ma a causa del loro imprecisato status legale, è quasi impossibile per loro ottenere un regolare contratto di lavoro.

Per realizzare ‘Life after Hell’, durante l’estate 2017 Marco Panzetti ha visitato 5 di questi centri di accoglienza, dal paesino alpino di Vedeseta, a nord, fino alla città siciliana di Messina, a sud.

Il risultato è un reportage dove le scene di vita quotidiana si combinano con i ritratti dei richiedenti asilo per rivelare le loro testimonianze, a volte scioccanti, a proposito della Libia, dell’attraversamento del Mediterraneo e, in generale, della loro situazione in Italia.

Questa lavoro è stato sovvenzionato dal Migration Media Award (premio giornalistico finanziato dalla Ue) e sostenuto dai partner del premio: ICMPD (International Centre for Migration Policy Development) e Open Media Hub. Parte del materiale è stato prodotto su incarico della Croce Rossa Britannica e di SOS Méditerranée.
I centri di accoglienza visitati sono gestiti da Caritas Italiana e Cooperativa Ruah (Bergamo e Vedeseta), Croce Rossa Italiana (Settimo Torinese e Messina) e Cooperativa Caleidos (Modena e Formigine). 

Il progetto fotografico è a cura di Marco Panzetti

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