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“Caro Vladimir, ti telefono”: Biden tratta con Putin sul nucleare

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Vladimir Putin e Joe Biden, presidenti rispettivamente di Russia e Usa. Credit: ANSA

Lo scontro politico tra Mosca e Washington alterna dal dopoguerra ad oggi tentativi di distensione a periodi di feroci accuse politiche. La fine traumatica della presidenza Trump e il rientro in Russia del dissidente Alexey Navalny sembrano appartenere decisamente alla fase delle accuse reciproche e della sfida a colpi di cronaca. Ma dagli anni Sessanta ad oggi su una cosa non si è mai giocato fuori dalle regole: la regolamentazione dell’arsenale nucleare.

Queste regole potrebbero scadere venerdì prossimo, il 5 febbraio. Le due superpotenze nucleari – Usa e Urss fino al 1992 e Usa e Federazione Russa oggi – hanno stabilito delle linea guida condivise nella gestione, e limitazione, del loro arsenale nucleare.

L’accordo bilaterale in vigore, però, è prossimo alla scadenza e il team del neo-eletto presidente Biden sta lavorando contro il tempo per portare a casa un accordo al fotofinish, dopo che l’amministrazione Trump ha cercato in ogni modo di evitarlo.

Nella serata di martedì 26 gennaio lo sblocco, nella telefonata Biden-Putin. Impacchettato tra dichiarazioni pungenti sull’arresto del dissidente russo Alexey Navalny e uno scambio di accuse sulla situazione in Ucraina orientale, i due presidenti fanno trapelare il possibile rinnovo quinquennale dell’accordo New Start.

Il New Start, accordo in vigore al momento, segna il limite a 700 tra missili balistici intercontinentali (Icbm) e missili balistici a lancio da sottomarino (Slbm) e bombardieri strategici, oltre a un limite massimo di non più di 1.550 testate nucleari schierate.

Siglato a Praga nel 2010 da Barack Obama e Dimitri Medvedev, si è dovuto aspettare il 2018 e la riduzione di 427 testate da parte degli Usa e 211 da parte di Mosca per raggiungere l’equilibrio pattuito.

La cifra, comunque, si limita a regolare il numero di testate attive e schierate e non tiene conto delle testate in magazzino, 5.800 per gli Stati Uniti e oltre 6.300 per la Federazione Russa.

L’accordo del 2010 è l’erede di una dinastia di firme inaugurata nel 1967 da Leonid Breznev e Gerald Ford con la firma degli accordi Salt, seguiti poi nel 1987 dalla storica firma tra Ronald Reagan e Michail Gorbačëv con l’accordo sull’uso di missili balistici a medio e corto raggio.

Negli anni seguirono lo Start I, sempre a firma sempre di Gorbačëv ma questa volta con George H. W. Bush, e poi lo Start II, sempre a firma Bush Sr ma questa volta controfirmato da Boris Eltsin, sino ad arrivare all’accordo New Start del 2010.

Il trattato avrebbe dovuto essere rinnovato o rinegoziato dalla precedente amministrazione americana ma, come nel caso di molti altri dossier, Donald Trump ha scelto una strada diversa. Quando alla fine del 2016 il team di negoziatori di Mosca ha iniziato a tastare il terreno per capire l’opinione della nuova amministrazione a riguardo, Trump non ci ha girato intorno e in una telefonata con Putin lo ha definito un “bad deal”, formula già utilizzata nei confronti dell’accordo sul nucleare iraniano voluto dal suo predecessore Barack Obama.

Passa un anno e nel marzo 2018 Putin annuncia al mondo in un discorso pubblico che la Russia ha sviluppato un nuovo “super missile”, il Rs-28 Sarmat, capace di aggirare i sistemi antimissilistici Nato, e capace di colpire qualsiasi punto del globo. Il presidente russo condisce la presentazione con la minaccia: “Non avete ascoltato il nostro Paese allora, ci ascolterete adesso”.

Il nuovo sistema missilistico – fanno sapere da Mosca – non risulta parte del conteggio pattuito a Praga. La strada del dialogo a quel punto si fa sempre più stretta. L’amministrazione Trump prosegue nella sua strada del non cercare un rinnovo, sostenuta dalle preoccupazioni date dalle nuove armi presentate da Mosca e ad aprile 2019 propone una bozza per un nuovo testo, con una modifica che stravolge completamente l’approccio classico usato finora proponendo di includere nell’accordo una nuova potenza nucleare: la Cina.

Mosca rispedisce al mittente l’idea, ma ancor più energico è il No di Pechino, che rifiuta tassativamente di partecipare ad una qualsiasi discussione sui suoi armamenti. L’arsenale nucleare cinese è stimato tra le 200 e le 400 testate attive ma la segretezza di Pechino e la mancanza di accordi impedisce di conoscerne la cifra esatta.

A Washington, comunque, non mollano. Nel giugno 2019 John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, taglia corto: “Il rinnovo del New Start così com’era è altamente improbabile, la Casa Bianca vuole un nuovo e più comprensivo accordo”.

La linea dura di Washington costringe i russi a qualche apertura e agli inizi del 2020 Mosca accetta di inserire il Rs-28 Sarmat tra i vettori menzionati negli accordi, e propone nuovamente un’estensione senza modifiche degli accordi di Praga: la Russia sembra voler accelerare per chiudere un accordo prima della fine della corrente amministrazione.

Ma Trump entra nella fase finale della sua presidenza, dove ogni decisione è ormai orientata alla sua campagna elettorale, e quella di un rinnovo di un trattato sulla riduzione degli armamenti nucleari voluto da Obama non sembra portargli voti.

Marshall Billingslea, nuovo negoziatore nominato dalla Casa Bianca nel aprile 2020, tenta una mediazione proponendo una soluzione che avrebbe incluso la Cina ma ormai le elezioni presidenziali Usa sono vicine e a Mosca si fa strada la convinzione che è meglio aspettare il voto prima di siglare un nuovo accordo.

Appena insediato alla presidenza, Biden fa sapere a Mosca di essere pronto a firmare il rinnovo degli accordi del 2011, rinnovo quinquennale senza modifiche. La palla passa alla Russia, che chiede di vedere le carte: il rinnovo è potenzialmente dietro l’angolo ma la scadenza è settimana prossima.

La telefonata di martedì sera sblocca la situazione, ma i giorni sono pochi e la firma ancora non c’è. Inoltre, come sottolinea Andrey Kortunov, analista del Istituto Russo Riac, la firma del New Start non porrà fine alla rapporto conflittuale tra le due superpotenze.

“La corsa agli armamenti nucleari passerà da una dimensione quantitativa a una dimensione qualitativa, si investirà quindi non sul numero ma su innovazione tecnologica”. Questo, secondo Kortunov, “potrebbe includere il campo della ricerca della tecnologia spaziale in ambito militare, delle cyber armi o dell’intelligenza artificiale”. Tutti campi al momento privi di trattati di regolamentazione.

Leggi anche: Biden è presidente, la buona America è tornata (di G. Gramaglia)

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