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Una vita sottoterra

Immagine di copertina

Circa un terzo della popolazione di Pechino vive in piccole tane sotterranee dove il giorno e la notte passano senza distinzione

È buio per le strade e i palazzi dei quartieri-dormitorio della periferia di Pechino.

S&D

Davanti a un condominio nella zona ovest della capitale cinese, d’improvviso un uomo rompe la simmetria della lunga marcia degli operai di ritorno nelle proprie abitazioni dopo una giornata di lavoro.

Ma anziché dirigersi verso l’entrata principale del grande palazzone, l’uomo imbocca un vicolo e varca l’ingresso di un ostello seminterrato. Si addentra in un cunicolo labirintico senza fondo e dalle pareti nude, illuminato da due o più lanterne cieche.

Poi salta giù per una galleria snodata in una rampa di scale elicoidale e scende per uno, due, tre piani sotto la superficie per raggiungere la sua tana. Non è il protagonista di un film di fantasia e neppure l’interprete del Bianconiglio in una ipotetica rivisitazione cinese del celebre Paese delle meraviglie di Lewis Carroll.

Il nome del piccolo uomo cinese è Wu Ying, ha 50 anni ed è un meccanico. Ogni sera precipita in quell’abisso sotterraneo di tunnel intrecciati per dormire nella sua camera di appena 12 metri quadrati che ha in affitto per 650 yuan al mese.

GUARDA LA GALLERY: LE IMMAGINI

Wu Ying è uno dei membri della “tribù dei topi”, così come viene chiamato in città in modo sprezzante il manipolo dei lavoratori con basso salario. Sono operai, cuochi, parrucchieri, camerieri, che supportano il settore dei servizi di Pechino senza però riuscire mai a sbarcare il lunario.

Dieci, alle volte anche dodici ore di lavoro continuo remunerate pochissimo, tanto da costringerli al confino nella clandestinità. Con la bolla speculativa immobiliare, i prezzi delle abitazioni nella metropoli cinese si sono impennati vertiginosamente e più di un terzo della popolazione ha dovuto abituarsi all’idea di sentire come propria “casa” un fazzoletto di cemento ammuffito ricavato tra i rifugi antiaerei, costruiti negli anni Sessanta e Settanta, e nelle sei mila cantine che formano il mondo sotterraneo di Pechino.

Una giovane estetista, Zhuang Qiuli, entrata da qualche anno ormai nella tribù, sente il bisogno di spiegare che “non c’è differenza tra noi e le persone che vivono sopra di noi nel condominio signorile. Indossiamo gli stessi vestiti e abbiamo le stesse acconciature. L’unica differenza è che noi non possiamo vedere il sole”, racconta.

Le gru che volteggiano senza pausa, notte e giorno, sono indicatori incontrovertibili della rapida e progressiva evoluzione urbanistica della metropoli cinese in superficie. Eppure, un terzo della grandezza complessiva di Pechino si estende nel sottosuolo. Pechino è una città-specchio, una città dal volto doppio.

Sim Chi Yin, una fotografa freelance, è piombata in quel paese del nonsenso sotterraneo e ha immortalato alcuni frammenti della quotidianità della “tribù dei topi”, testimoniando le difficoltà di una vita senza luce, trascorsa tra le mura imputridite di cemento e fili di acciaio.

Racconta che i “topi di Pechino” pagano affitti mensili oscillanti dai 300 a 700 yuan per le camere partizionate di sette-otto metri quadrati, o a volte, con l’aggiunta fortunata di un armadio, oltre al solo letto singolo, se lo spazio è più ampio. Spesso cinquanta e anche cento abitanti condividono un unico bagno.

Le note ufficiali dei funzionari sottolineano che quei nidi di cemento sotto terra “non sono sicuri, sono sporchi e caotici, andrebbero sgomberati”. Cucinare è tendenzialmente proibito nella Pechino sotterranea, eppure la lunga muraglia cinese del sottosuolo, umida e verdastra, sembra trasudare gli odori della cucina tradizionale: cavoli e tofu cotti al vapore, carne in agrodolce, fritture di pasta e verdure miste saltate.

Lungo le pareti delle gallerie sono stati posti alcuni cartelli segnaletici per ammonire i sotto-abitanti di stare attenti all’utilizzo del gas. La probabilità di rischio per avvelenamenti, intossicazioni dell’aria e incendi è notevole. La città nascosta sotterranea è una trappola mortale.

Secondo un’inchiesta del Global Times, nei prossimi cinque anni sarà vietata la permanenza nei rifugi. “Se il governo ci dice di andare, dobbiamo andare”, assicurano quanti della tribù vivono in quel limbo invisibile dai primi anni Novanta, ma la strategia del governo di Pechino non è del tutto chiara.

Dal 2004 il regime di accesso e affitto dei sotterranei è stato liberalizzato per agevolare la locazione dei milioni di migranti rurali giunti dalle remote province cinesi, pronti a cavalcare l’onda dell’industrializzazione e del nuovo miracolo economico della Cina.

Nella stanza-casa di Wu Ying l’aria è lanosa, una piccola finestrella si affaccia in un corridoio chiuso, mentre la luce intermittente dei neon rischiara il buio cavernoso con fasci luminescenti psichedelici.

L’uomo siede sul bordo del letto, guarda ancora una volta il suo orologio e spegne la luce artificiale, nella speranza di precipitare in quell’altro mondo, quello a cielo aperto, con il sole diverso da una lampada fosforescente a incandescenza.

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