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Reportage TPI – Il dramma dei rifugiati siriani in Turchia: “Non vogliamo essere considerati vittime di Serie B”

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

Restano in attesa davanti alle macerie e si sentono ignorati da Ankara, che fatica a gestire la crisi. Le zone terremotate della Turchia ospitano due milioni di profughi, già sfollati a causa della guerra. Ma il disastro alimenta derive xenofobe e ora in tanti temono il rimpatrio

Prima, una guerra civile che dal 2011 ad oggi ha ucciso almeno un mezzo milione di persone.

La distruzione, la perdita di tutto, la fuga. Poi, l’attraversamento del confine per entrare in un Paese stabile, sicuro. Ricominciare tutto da capo. Infine, arrivano i terremoti del 6 Febbraio 2023.

Per milioni di rifugiati siriani che vivono in Turchia, questo è solo l’ennesimo capitolo di un decennio in cui più che vivere, non hanno fatto altro che tentare disperatamente di sopravvivere.

Nei terremoti che hanno colpito il sud della Turchia e il nord della Siria hanno perso la vita almeno 44mila persone. La Turchia è un Paese ad alto rischio sismico, ma un disastro di questa portata è storicamente unico. Dieci province sono state danneggiate. Per un po’ di prospettiva, basti pensare che il terremoto è stato mille volte più forte rispetto a quello che nel 2016 ha colpito Amatrice e 30 volte più forte rispetto a quello dell’Irpinia del 1980.

Le zone a sud del Paese colpite dal terremoto ospitano più di due milioni di rifugiati siriani. Vivono a Gaziantep, Malatya, Hatay, Antiochia. 

Appena il governo turco ha annunciato che ai siriani con carta d’identità delle province turche colpite dal terremoto sarebbe stato permesso di tornare nel proprio Paese per un massimo di sei mesi, centinaia di persone si sono precipitate a formare lunghe file ai valichi di frontiera. Molti di loro avevano perso tutto quello che avevano faticosamente costruito in Turchia: una casa, un nuovo senso di sicurezza.

Le autorità turche dicono che più di 30mila siriani hanno attraversato il confine e sono tornati in Siria dopo i terremoti, ma le Nazioni Unite non hanno confermato questi numeri e sostengono che molti di questi sono tornati in Siria solo temporaneamente.

Vita da rifugiati
Dei tre milioni e mezzo di siriani registrati come rifugiati in Turchia, almeno 1.500 hanno perso la vita a causa dei terremoti, ma il numero potrebbe salire ancora. E per quelli che sono sopravvissuti, questo trauma si aggiunge a quello della fuga dalla guerra in Siria, e al senso di impotenza.

Ahmed ha cinquant’anni, folti baffi grigi e gli occhi appannati dal dolore. Siede su una delle poltrone – se ne trovano molte in giro per il centro di Antiochia, sistemate di fronte alle case distrutte, sale di attesa improvvisate per sopravvissuti che aspettano che i cadaveri dei loro cari siano estratti da sotto le macerie. Cinque giorni dopo il terremoto, è seduto lì, guarda le persone fermarsi davanti alle macerie. Si avvicina a noi, e dice: «Lì sotto c’è mio fratello».

Ci sono stati molteplici momenti come questo, in cui non resta che rimanere a bocca spalancata, qualsiasi parola superflua, qualsiasi tentativo di mostrare empatia paralizzato dal senso di impotenza.
«Lo sanno», ci risponde, quando gli chiediamo se ha allertato le squadre di soccorso, «ma servono i macchinari. Non bastano i volontari a mani nude. L’ho detto, ma mi hanno ignorato. I dispersi siriani non valgono quanto quelli turchi…», dice, la rassegnazione nel volto. La frustrazione di Ahmed è quella di molti siriani nel Paese.

L’ostilità nei confronti dei rifugiati siriani non è una novità in Turchia, ma dopo i terremoti non ha fatto che acuirsi. Sui social media, ogni cattiva notizia seguita al disastro – i saccheggi ai negozi, alle case distrutte, gli attacchi fra gang nelle zone meno sicure di Hatay – è stata da molti attribuita ai siriani, e infiammata dalla retorica xenofoba di politici di estrema destra come Umit Ozdag. In questo disastro, la ricerca di capri espiatori è stata pressoché istantanea. 

E vedendo il livello della devastazione, non è difficile capire perché. I danni alle infrastrutture, incluse strade e ponti, e le temperature gelide hanno rallentato i soccorsi, e non c’è un edificio nel centro di Antiochia che stia ancora in piedi. Sono stati in molti come Ahmed ad aspettare invano, giorno dopo giorno.

Spostamenti limitati
Vivere da rifugiato siriano in Turchia significa dipendere da un documento chiamato Kimlik, che garantisce protezione temporanea e accesso ai servizi pubblici. Se fino al 2016, il percorso burocratico per i siriani era molto semplice, negli ultimi anni le cose si sono complicate.

Per limitare l’arrivo dei rifugiati, la Turchia ha cominciato a costruire un muro al confine con la Siria, e ad introdurre procedure più restrittive. 

I rifugiati siriani registrati tramite il kimlik non possono muoversi dalla provincia in cui sono registrati senza il permesso delle autorità, anche se queste restrizioni sono state sospese temporaneamente dopo i terremoti. Ora è permesso loro spostarsi e stabilirsi in altre località per un massimo di 60 giorni, a patto di procurarsi autonomamente una sistemazione, e ad eccezione della capitale.

«Non è facile vivere con questi limiti», ci dice la giornalista siriana Zaina Erhaim da Londra. La sua famiglia è originaria di Idlib, ma sua madre Mayada vive nel sud della Turchia, a Gaziantep, dal 2013. «Mia madre ha la Kimlic card, che rende tutto molto più difficile rispetto a coloro che hanno la residenza turistica. Per andare a trovare la sorella ad Antiochia, o venire a Istanbul, le serve un permesso. Abbiamo anche faticato a trovarle un appartamento, perché molti turchi si rifiutavano di affittare a siriani».

Le chiedo cosa le è successo dopo i terremoti. «Voleva lasciare Gaziantep, ma non aveva l’autorizzazione, la municipalità non lavorava, era tutto sospeso. Per giorni, è dovuta rimanere lì, dormire nell’automobile di conoscenti o per strada con temperature sotto zero, arrangiarsi come poteva. Ora è a Istanbul, sono riuscita a prenderle una stanza d’hotel per qualche giorno. Ha paura di tornare a Gaziantep, ma non posso permettermi di continuare a pagarle l’hotel». Lo scorso anno, Zaina ha provato a fare domanda di riunificazione familiare nel Regno Unito, ma è stata respinta.

«Farò ricorso. L’unico modo per offrire un po’ di sicurezza a mia madre è averla qui con me. Ha vissuto la guerra, i terremoti, ha visto molti dei suoi amici e conoscenti siriani in Turchia deportati all’improvviso. Sono più di dieci anni che non si sente davvero al sicuro».

Un problema e un’opportunità
Ad aumentare il senso di insicurezza, in questi giorni hanno contribuito i molteplici attacchi contro i siriani: chi è stato cacciato da dormitori comuni, chi da mense o centri di distribuzione, altri attaccati per strada. Ma si tratta di una pentola a pressione che era destinata ad esplodere da tempo. Negli ultimi dieci anni, non esiste Paese al mondo che abbia accolto più rifugiati della Turchia. Anche guardando alla proporzione di rifugiati rispetto alla popolazione locale, la Turchia si classifica tra i primi Paesi, quarta dopo il Libano, la Giordania e la piccola isola di Nauru, con il 5 per cento della propria popolazione composto da rifugiati. Ci sono rifugiati provenienti da Paesi come l’Afghanistan, l’Iraq e l’Iran, ma la maggior parte di loro sono siriani.

Per il presidente Recep Tayyip Erdogan, i rifugiati sono insieme un problema e un’opportunità. 

Quando il flusso di rifugiati siriani è cominciato, l’economia turca era solida, l’Unione europea disposta a versare miliardi di dollari in contributi alla Turchia perché gestisse l’emergenza e impedisse ai rifugiati di raggiungere l’Europa, e la popolazione turca empatica verso il dramma affrontato dai siriani, percepiti perlopiù come ospiti “temporanei”.

Ora però, le cose sono molto diverse. Il Paese è indebitato fino al collo, e nell’ottobre 2022 l’inflazione ha toccato il massimo degli ultimi 24 anni, all’85,5 per cento, in gran parte a causa della politica monetaria voluta da Erdogan, che anziché alzare il costo del denaro per frenare i prezzi, ha deciso di abbassare i tassi d’interesse.

Il declino economico degli ultimi anni ha trasformato l’iniziale accoglienza verso i rifugiati siriani in ondate di rabbia che, soprattutto nei social media turchi, si traducono in post ostili ai rifugiati, visti come beneficiari di molti diritti mentre i turchi “faticano a tirare avanti”, o in video che immaginano una società distopica in cui Istanbul è distrutta e i siriani dominano il Paese, oppure ancora in attacchi violenti come nel 2021, quando ad Ankara case, negozi e macchine di proprietà di rifugiati siriani vennero attaccati da protestanti anti-immigrati.

In aggiunta, la guerra in Siria sembra arrivata ad uno stallo. Così il presidente ha cominciato una nuova politica mirata al “rimpatrio” dei siriani. Secondo Human Rights Watch, centinaia di rifugiati sono stati deportati in Siria, e nel maggio 2022 Erdogan ha annunciato un progetto di costruzione di nuove abitazioni per 1 milione di rifugiati nel nord della Siria, spiegando che più di 50mila case sono già state costruite dal governo turco nella provincia nord-occidentale di Idlib, dove vivono già 50mila famiglie.

Nel febbraio 2022 il ministero degli Interni ha imposto un limite massimo di 25 per cento di residenti stranieri per quartiere in 16 province, e nel marzo 2022 migliaia di siriani hanno ricevuto messaggi che li informavano che il loro Kimlik era revocato.

L’incubo del ritorno
Dopo l’emergenza umanitaria innescata dai terremoti e con l’avvicinarsi delle prossime elezioni parlamentari e presidenziali – previste per il maggio 2023, sebbene sia probabile che verranno posticipate, vista la crisi innescata dal sisma e lo stato di emergenza in vigore nel Paese – non è da escludere che il presidente faccia leva sul tema dei rifugiati per raccogliere consensi. 

Il suo governo è in una posizione delicata – il suo partito salì al potere dopo il terremoto a Izmit del 1999, promettendo una legge più severa per garantire la costruzione di case a norma antisismica, ed è ora molto criticato per i molti condoni edilizi oltre che per la lentezza dei soccorsi – e la disperazione di molti cittadini turchi che in questi terremoti hanno perso tutto ha contribuito ad aumentare le tensioni sociali.

Ma nonostante la devastazione e l’impatto che questi terremoti avranno sull’economia turca, sarà difficile per Erdogan convincere fino a “un milione di siriani” a tornare in un Paese dove temono bombe, persecuzione e dove rimane loro ben poco.

Nella bella città storica di Antiochia, Mustafa, 42 anni, ha vissuto con sua moglie e i suoi quattro figli per ben otto anni, dopo aver abbandonato la loro casa a Hama, nella Siria centrale, a causa della guerra.

«Non abbiamo più niente in Siria. C’è rimasta solo mia sorella, con la sua famiglia. I miei figli sono qua, mia moglie, anche i miei due fratelli», ci racconta. Chiedo a Mustafa cosa ricorda del terremoto. «Il primo o il secondo?», chiede. La prima volta erano in casa, Mustafa ha sentito subito le scosse, radunato la sua famiglia e sono scappati prima che crollasse l’edificio. Non rimane più niente del loro appartamento. La seconda volta, invece, erano all’aperto.

«Eravamo riuniti intorno al fuoco, a riscaldarci. I miei figli erano terrorizzati. Persino ora, hanno paura. Non vogliono più stare al chiuso». Mustafa e la sua famiglia dormono dentro alle tende fornite dalle autorità locali, per terra, senza materassi o sacchi a pelo. «Dormiamo un’ora sì e un’ora no».  Anche in queste condizioni, e senza certezze sul futuro, «la Turchia è la nostra casa. Qua siamo al sicuro. L’esercito ci protegge, c’è da mangiare». Gli chiedo se tornerebbe mai in Siria: «No, non adesso. Quelli che stanno tornando, lo fanno per una visita, per un funerale, magari per rivedere i familiari sopravvissuti ai terremoti. Ma non rimarranno. In Siria si muore di fame, non c’è sicurezza. Qua non abbiamo più una casa, non so quando i miei figli potranno tornare a scuola, o dove vivremo, quando avremo un tetto sulle nostre teste. Ma almeno possiamo sognare un futuro».

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