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Home » Esteri

La corsa al tesoro di Damasco: ecco chi e come (Italia compresa) vuole spartirsi la ricostruzione in Siria

Immagine di copertina
Credit: Bandar al-Jaloud / Saudi Royal Palace

Prima la revoca delle sanzioni da Usa e Ue, con il sostegno della Turchia. Poi l’incontro dell’autoproclamato leader al-Sharaa con Trump. Ora la promessa di investimenti dall’Arabia Saudita e nella lista degli interessati c'è anche Roma

Dopo quasi quattordici anni tra guerra civile, interventi militari stranieri e insurrezioni terroristiche, quasi 618mila morti, più di 113mila dispersi, 7,4 milioni di sfollati, 6 milioni di rifugiati all’estero e due terremoti devastanti, senza contare la pandemia di Covid-19, in Siria sembra finalmente arrivato il momento della ricostruzione. Anche grazie alla revoca della maggior parte delle sanzioni imposte dall’Unione europea e dagli Stati Uniti. Ma la torta è così ghiotta che, ancora prima della fuga dell’8 dicembre scorso dell’ex dittatore Bashar al-Assad in Russia, dal Golfo all’Europa c’era la fila per accaparrarsene una fetta. Ora però la corsa è entrata nel vivo.

Danni riparabili
L’affare, d’altronde, si prospetta enorme. Tra ripristino delle infrastrutture danneggiate e nuovi progetti di sviluppo si parla di una cifra stimata tra i 400 e i 1.000 miliardi di dollari. «La Siria oggi è una terra di opportunità, con un immenso potenziale in ogni settore», ha spiegato, non a caso, il ministro delle Finanze del nuovo governo siriano, Yisr Barnieh. Ma il Paese, di fatto, è in ginocchio.
Quattordici anni di conflitto, secondo l’ultima valutazione della Banca mondiale, hanno devastato l’economia, segnando una contrazione complessiva del Pil di oltre il 50 per cento rispetto al 2010 e registrando nel 2024 un calo del reddito nazionale lordo pro capite fino ad appena 830 dollari, ben al di sotto della soglia internazionale dei Paesi poveri. Oltre il 90 per cento dei cittadini siriani cioè quasi 16,7 milioni di persone, secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp), vive al di sotto della soglia di povertà e necessita di aiuti umanitari urgenti. I danni fisici alle principali città siriane poi, tra cui Aleppo, Homs e la capitale Damasco, secondo il Syria Joint Damage Assessment pubblicato nel 2022 dalla Banca mondiale, erano compresi tra gli 8,7 e gli 11,4 miliardi di dollari. Una cifra che non teneva ancora conto degli effetti dei devastanti sismi del febbraio 2023, che hanno colpito il nord del Paese e il sud della Turchia.
Strade, ponti, aeroporti, centrali elettriche, acquedotti, fogne: quasi ogni settore richiede interventi urgenti. Oltre la metà delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie, secondo la Banca mondiale, sono state danneggiate, gli impianti elettrici operano da anni a capacità ridotta, l’aeroporto internazionale della capitale, il principale scalo del Paese, deve ancora far fronte ai danni dei raid aerei subiti negli ultimi anni. Quasi un terzo delle abitazioni è stato danneggiato o distrutto, interi quartieri a Raqqa e Aleppo sono ancora costellati di macerie e abitati da sfollati. Anche la produzione agricola, a causa della siccità che nei primi mesi di quest’anno ha colpito il Paese, è in crisi. La mancanza di pioggia, in calo del 50 per cento rispetto alla media stagionale e mai così scarsa dal 1997, ha intaccato le attività soprattutto nelle campagne di Aleppo e Idlib, mentre le coltivazioni di cereali nel nord-est amministrato dalla minoranza curda hanno registrato pessimi raccolti. Ovviamente la valuta locale è crollata. Malgrado la ripresa registrata a maggio a seguito  dell’annuncio della revoca delle sanzioni Usa da parte di Donald Trump dopo l’incontro in Arabia Saudita con l’autoproclamato presidente ed ex jihadista Ahmad Al-Shara’a, il cambio con il dollaro è tornato ai livelli del 2023, quando la valuta statunitense era scambiata tra le 11mila e le 12mila lire siriane (rispetto alle 59 del 2011), alimentando l’inflazione, arrivata a tre cifre nel 2024 e scesa quest’anno intorno al 30 per cento. Insomma c’è tanto da fare e al più presto, anche perché dalla caduta del regime ultracinquantennale degli Assad sono già stati rimpatriati 400mila rifugiati e se ne attendono altri due milioni entro la fine dall’anno.

Due anni di aperture
D’altra parte, ha sottolineato in un’intervista alla Cnbc il governatore della Banca centrale di Damasco Abdul Qader Hasriyeh, «ora il clima per gli investimenti è favorevole». «Il governo siriano cerca di costruire un’economia produttiva, piuttosto che dipendere da alti tassi di interesse o da schemi di investimento rischiosi», ha ribadito il banchiere centrale siriano, secondo cui, «in base alle direttive del presidente Ahmad Al-Shara’a, il governo non ricorrerà a prestiti dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) o dalla Banca Mondiale». Tradotto: i soldi arriveranno da i singoli partner stranieri di Damasco. La fila, come già detto, è lunga ma la corsa alla torta della ricostruzione era già cominciata prima della fuga di Assad.
I primi a riaprire i contatti furono gli Emirati Arabi Uniti, il cui ministro degli Esteri Abdullah bin Zayed al-Nahyan aveva visitato la capitale siriana già nel novembre 2021. Ma l’accelerata decisiva era arrivata nel febbraio del 2023, all’indomani dei due devastanti terremoti che provocarono oltre 55mila vittime tra Siria e Turchia, quando il dittatore cominciò a ricevere i capi delle diplomazie di Giordania, Egitto e Arabia Saudita. Finché, nel maggio di quell’anno, Assad non fu personalmente ricevuto con tutti gli onori al vertice della Lega Araba a Gedda, dopo 12 anni di sospensione dall’organismo multilaterale regionale. Queste prime mosse però, che avevano portato persino il Governo Meloni ad annunciare la riapertura della nostra ambasciata a Damasco nel luglio del 2024, non avevano prodotto risultati tangibili. Almeno fino alla fuga del dittatore in Russia.
Se la copertura politica al nuovo governo di Al-Shara’a era arrivata dalla Conferenza di Parigi dello scorso febbraio, a cui avevano partecipato Francia, Italia, Bahrein, Canada, Egitto, Germania, Grecia, Iraq, Giappone, Giordania, Kuwait, Libano, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Spagna, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e Unione europea, la corsa vera e propria agli investimenti è iniziata tra aprile e maggio di quest’anno, con in prima fila Ankara, Riad, Abu Dhabi e Doha.

La “lista” degli interessati
Basta infatti scorrere la cronologia degli annunci degli impegni ufficiali da parte dei vari governi della regione e non solo per scoprire chi sta cercando di spartirsi la ricostruzione in Siria. A fine aprile, infatti, Arabia Saudita e Qatar hanno cancellato il debito da 15,5 milioni di dollari contratto dalla Siria nei confronti della Banca Mondiale, saldando anche gli arretrati di Damasco con l’Associazione Internazionale per lo Sviluppo (Ida), consentendo così al nuovo governo di Al-Shara’a di ottenere dall’istituto di Washington la conferma dell’idoneità a ricevere nuovi finanziamenti internazionali. Il mese successivo Riad e Doha hanno poi annunciato un’iniziativa congiunta per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici in Siria, con un esborso mensile da parte del solo Qatar di almeno 29 milioni di dollari. La Turchia non è rimasta a guardare: nello stesso periodo Ankara ha annunciato l’intenzione di vendere 2 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno alla Siria tramite il gasdotto che collega la regione turca di Kilis ad Aleppo per alimentare la generazione di 1.300 megawatt di elettricità nel nord-ovest del Paese.
Non a caso, proprio a metà maggio, Trump ha annunciato la revoca delle sanzioni a Damasco, seguito dall’Unione europea, e il settore privato ne ha subito cominciato ad approfittare. Il 29 maggio scorso infatti un consorzio di aziende, composto dalla qatariota Ucc Holding, dalla statunitense Power International e dalle turche Kalyon Ges Enerji Yatirimlari e Cengiz Enerji, ha firmato con Damasco un accordo da 7 miliardi di dollari per la costruzione di quattro centrali elettriche a gas e di una centrale solare, ciascuna da mille megawatt, nel sud della Siria. A metà luglio invece il colosso emiratino Dp World ha finalizzato un accordo di concessione trentennale con l’Autorità generale siriana per i porti terrestri e marittimi per sviluppare e gestire lo scalo di Tartus, un’intesa che prevede 800 milioni di dollari di investimenti nel secondo maggiore porto siriano. Ma alla competizione partecipa anche l’Italia, o almeno vorrebbe.

Roma si muove?
Il nostro Paese, come detto, è l’unico del G7 ad aver riaperto la propria ambasciata a Damasco prima della caduta del regime, mentre il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani è stato tra i primi leader occidentali a visitare la capitale siriana (a gennaio) dopo l’ascesa del nuovo esecutivo di al-Shara’a, sottolineando la volontà di Roma di fare da «ponte» tra il Paese arabo e l’Ue. A fine giugno poi, il nostro ambasciatore in Siria Stefano Ravagnan è stato ricevuto dal ministro degli Esteri della nuova amministrazione Asaad al-Shaibani per discutere, tra l’altro, come riportato dal portale Decode39, «del sostegno agli sforzi di ricostruzione e della costruzione di una nuova Siria».
La revoca delle sanzioni e delle restrizioni al commercio offre d’altronde nuove opportunità anche alle nostre aziende in settori critici, come quelli bancario, energetico, delle telecomunicazioni e in altri importanti comparti industriali. Come emerso da un incontro organizzato a marzo da Assolombarda, le nostre imprese possono essere particolarmente interessate all’esportazione in Siria di attrezzature e tecnologie per l’esplorazione, l’estrazione, la produzione e la raffinazione di petrolio greggio e la liquefazione del gas naturale; alla concessione di prestiti e alla partecipazione alla costruzione e all’installazione di nuove centrali elettriche; e alla vendita di macchinari industriali e componentistica meccanica. Se Roma ancora discute però, c’è chi continua a mettere soldi veri sul piatto.

Nuovi progetti
Il 24 luglio, nel corso del Forum siriano-saudita a Damasco, Riad ha firmato altri 47 accordi economici e annunciato 6,4 miliardi di dollari di nuovi investimenti, di cui l’85 per cento da parte di aziende private del regno. La quota maggiore, ovviamente, è destinata alle infrastrutture. Quasi tre miliardi di dollari infatti saranno destinati alla produzione di cemento, allo sviluppo immobiliare e alla ricostruzione del sistema infrastrutturale siriano. Oltre un miliardo di dollari invece sarà investito nei settori delle telecomunicazioni, dei servizi e delle piattaforme digitali. Qui in prima fila figurano i colossi sauditi Stc, Elm e Classera, che punteranno anche sui pagamenti tramite dispositivi mobili, sui servizi amministrativi digitali, sulle tecnologie per l’istruzione a distanza e sulle piattaforme logistiche digitali.
Ma è solo il primo passo, come ha confermato all’apertura del Forum di Damasco il ministro degli Investimenti saudita Khalid Al-Falih: «Queste cifre sono solo l’inizio e non riflettono le nostre ambizioni. Dobbiamo lavorare insieme, in modo stretto e coeso, per far crescere e aumentare questi numeri in linea con gli sforzi delle nostre due nazioni per costruire un futuro migliore per i nostri popoli». Secondo le prime stime della società di consulenza statunitense Frost & Sullivan, l’impatto di questi progetti sul mercato del lavoro siriano potrebbe portare alla creazione di oltre 50mila nuovi impieghi diretti e altri 150mila nell’indotto. «La Siria potrebbe sbloccare un’altra ondata di investimenti nell’ordine dei 15-20 miliardi di dollari entro il 2030», ha spiegato il vicepresidente della società di consulenza americana Abdulaziz Jalab. «La fase successiva probabilmente dovrebbe concentrarsi su settori più complessi, come le industrie per la trasformazione agricola orientate all’esportazione, le infrastrutture turistiche e i servizi finanziari». Insomma siamo solo al principio, anche se la strada è lunga e piena di ostacoli.

Molte incognite
Il principale intralcio è dovuto alla violenza che ancora attanaglia la Siria. Finora non ha avuto successo il tentativo di far confluire nell’esercito controllato da Damasco tutte le milizie attive nel Paese, compresi i gruppi armati espressione (o autoproclamatisi tali) delle minoranze etniche e le formazioni appoggiate dalle potenze straniere, come alcuni corpi drusi sostenuti da Israele o le Forze democratiche siriane a maggioranza curda finanziate da Usa e alleati europei. Ad oggi, oltre ai gruppi della coalizione “Command of Military Operations”, il coordinamento di varie milizie guidato dal gruppo jihadista Hayat Tahrir al-Sham che ha marciato sulla capitale fino alla fuga del dittatore, alle forze armate del vecchio regime obbediscono principalmente le formazioni filo-turche e i miliziani stranieri del Partito islamico del Turkestan (Tip), composto per lo più da combattenti uiguri provenienti dalla provincia cinese dello Xinjiang, a cui Al-Shara’a ha garantito un ruolo militare e politico nel nuovo Stato.
Altri invece continuano a dialogare e qualche volta a scontrarsi con Damasco. Prova ne sono le recenti violenze scoppiate a luglio nel sud della Siria tra le forze regolari e le milizie druse appoggiate da Israele, che continua a occupare non solo le alture del Golan ma anche la zona demilitarizzata istituita negli anni Settanta. Dalla caduta di Assad infatti lo Stato ebraico ha condotto oltre 900 attacchi aerei e di artiglieria e più di 400 incursioni via terra contro il nuovo governo di transizione siriano. Le milizie curde invece, malgrado gli accordi con il nuovo esecutivo, continuano ad autoamministrarsi. Tutto questo senza dimenticare i massacri settari, compiuti in particolare contro le comunità alawite da elementi dei gruppi jihadisti affiliati al nuovo ordine, costati la vita a marzo, secondo l’International Crisis Group, a un migliaio di persone a Latakia e Hama. Insomma, una situazione ancora esplosiva che nemmeno l’annuncio delle nuove elezioni parlamentari previste a settembre sembra poter disinnescare. La torta della ricostruzione però è talmente ghiotta che potrebbe riuscire dove la politica sta fallendo. Oppure trasformarsi nell’ennesimo saccheggio.

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