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La Scozia scalda i motori per l’indipendenza, il piano anti-Brexit può essere la giusta occasione

Immagine di copertina
Il primo ministro scozzese Nicola Sturgeon. Credit: AFP

Diplomazie dei partiti a lavoro per evitare il divorzio senza accordo con l’Unione Europea. Il ruolo, forse decisivo, della Scozia. Ma il prezzo può essere l’autorizzazione al secondo referendum indipendentista a distanza di pochi anni

Sono di quelle occasioni e scelte che accadono una volta per generazione, anche molto meno, eppure se ne parla sempre più a voce alta, nonostante l’ultima volta sia stata solamente nel 2014.

Sì, di un’altro referendum sull’indipendenza della Scozia se ne parla oramai a voce alta, non solo a Edimburgo ma anche nella capitale del Regno, sulle rive del Tamigi.

Oltre confine stanno formalmente preparando la proposta per chiedere il ‘permesso’ a Londra, sede del potere centrale, che ha diritto di veto sulla materia.

Il laburista Jeremy Corbyn – leader del primo partito di opposizione – ha confermato di ritenere che Westminster non dovrebbe bloccare un secondo referendum sull’indipendenza scozzese, tuttavia sottolineando la sua ferma credenza nell’integrità dell’unione nazionale del Regno Unito.

Detto in parole povere, Jeremy Corbyn non ne condivide il fine politico, ma non si oppone al diritto di decidere del proprio destino della Scozia.

Certamente, sarebbe scorretto non ricordarlo, dal 2014 a oggi tante cose sono cambiate.

In Scozia al governo sta saldamente lo Scottish National Party con al timone Nicola Sturgeon, erede di Alex Salmond che quel referendum, nel 2014 appunto, lo perse. Finì 55 per cento contro il 45 per cento.

Ma la cosa più importante di tutte è stato il cambiamento del contesto politico. La Scozia ha una visione ‘europeista’, e nel referendum sulla Brexit ha votato per rimanere nell’Unione Europea. Non è un dettaglio. Finì 62 per cento per il Remain e 38 per cento per il Leave.

Jeremy Corbyn ha appoggiato le osservazioni del suo fidatissimo John McDonnell che di recente ha affermato che un governo laburista non ostacolerebbe un nuovo voto di indipendenza se ci fosse un sostegno sufficiente nel parlamento scozzese.

Dopo la “devolution” di fine anni ’90, con allora in carica il laburista Tony Blair a Downing Street, la Scozia gode di ampia autonomia amministrativa, ma l’indipendenza, sappiamo bene, è tutta un’altra cosa.

Come detto, Edimburgo non può tenere un referendum senza che gli venga data l’autorizzazione dal parlamento britannico. Il voto di indipendenza del 2014, infatti, si è tenuto dopo un lungo negoziato tra il governo centrale del Regno Unito e le forze politiche scozzesi di matrice indipendentista che hanno portato all’accordo di Edimburgo del 2012.

Alla prima dichiarazione di McDonnell è poi seguita, appunto, quella di Jeremy Corbyn, alimentando un duro dibattito con l’ala scozzese del partito laburista, che da sempre non sposa  la causa indipendentista e alla quale, anzi, si oppone fermamente.

A supporto della proposta per il secondo referendum, o quantomeno per non ostacolarne l’iniziativa, anche il “fuoco amico” di David Mundell, definito tale in quanto deputato conservatore che Boris Johnson ha licenziato come Ministro per la Scozia dopo il suo insediamento.

Mundell, ovviamente scozzese, ha affermato che Westminster non dovrebbe bloccare un referendum scozzese se i partiti a favore dell’indipendenza avranno la maggioranza alle prossime elezioni in Scozia, in arrivo nel 2021, un anno prima delle elezioni generali del Regno Unito del 2022 (probabilmente prima vista la situazione attuale). Una sorta di “non sono d’accordo al distacco, ma dovreste avere il diritto di decidere”.

La nuova posizione di Corbyn, che è bene specificare, non è stata votata dai membri del partito, ha rafforzato i sospetti che i laburisti stiano gettando le basi per un accordo con il partito indipendentista scozzese.

Il piano è quello di avere il sostegno dei parlamentari dello Scottish National Party a Westminster per sfiduciare il Premier Boris Johnson e formare un governo di coalizione per impedire l’uscita senza accordo con l’Unione Europea. Gli scozzesi alla Camera dei Comuni contano ben 39 parlamentari.

Successivamente, dopo tale traguardo, indire nuove elezioni per potere poi, una volta con il laburisti al governo e legittimati dopo le urne, indire il secondo referendum Brexit dove il Labour farebbe campagna per il Remain, così come gli scozzesi chiaramente.

Nello sfondo, come contropartita, il si di Londra per l’altro referendum caro all’SNP, quello sull’indipendenza.

La richiesta di Corbyn di un sostegno interpartitico per un governo laburista temporaneo per contrastare i piani di Boris Johnson per una Brexit con divorzio senza accordo è stata accolta calorosamente da Nicola Sturgeon, così come da Ian Blackford, il leader dell’Snp a Westminster.

Sturgeon ha affermato di aver sostenuto a lungo la formazione di “un’alternativa progressiva” al governo Tory di Westminster, ma ha escluso un patto formale con i laburisti.

“Sono del parere che le conseguenze e le implicazioni di una Brexit no-deal siano così gravi che dovremmo considerare tutte le opzioni senza escludere nulla”, ha detto ai microfoni di recente.

Sturgeon, pur sottolineando di non stimare politicamente Jeremy Corbyn,  ha affermato che il cambio di posizione sul referendum è però ampiamente apprezzato.

La stessa Sturgeon, ha però escluso di tenere un referendum non ufficiale senza il supporto legale di Westminster. Se si fanno le cose, bisogna farle bene, questo il concetto.

“Dobbiamo disporre di un processo legittimo, legale e probabilmente, cosa più importante di tutte, che venga riconosciuto a livello internazionale”, ha affermato.

Sturgeon punta a tenere il pressing  alto, cosicchè da poter avere il semaforo verde da Londra se anche nella prossima tornata elettorale il Parlamento scozzese del 2021 si dovesse tingere di giallo, il colore dello Scottish National Party.

I conservatori scozzesi hanno accusato Corbyn di “arrendersi” all’ SNP mentre Willie Rennie, il leader del partito dei Liberal Democratici scozzese, ha dichiarato di sentirsi deluso per gli elettori laburisti.

Intanto le manovre per disinnescare Boris Johnson e il no deal con Bruxelles proseguono. La Scozia potrebbe quindi entrare nella partita con un forte peso specifico mettendo da parte le frizioni con gli altri partiti britannici.

Da ultimo, proprio la proposta dei Lib-Dems, che tramite la sua leader Jo Swinson, tende la mano ai laburisti per lavorare a una mozione di sfiducia per mandare a casa Boris Johnson e instaurare un governo di coalizione temporaneo, come detto prima.

L’eccezzione è che per i Lib-Dems quel traghettatore non deve essere Jeremy Corbyn, che ha un profilo troppo marcato e divisivo.

Per loro sarebbe meglio puntare su una personalità più condivisa, a prescindere dalla bandiera di partito. Le idee sono quelle di Harriet Harmann, laburista ma con le credenziali, a quanto pare, per guidare un governo di larga coalizione e temporaneo.

L’ altra opzione è quella del conservatore Ken Clarke, 80 anni, il parlamentare più anziano alla Camera dei Comuni. Quest’ultimo gode di un’ottima stima che va oltre le linee del Piave dei partiti, anche fra gli avversari laburisti. Clarke potrebbe infatti attrarre anche i conservatori delusi dell’ala Remain, anche se questi potrebbero essere bilanciati dai laburisti Brexit, pochi ma comunque presenti fra gli scranni parlamentari. Lo stesso Clarke ha già dato la disponibilità. Vedremo.

In definitiva, la Scozia si ritaglia il suo spazio. La Brexit non passa solo da Londra, ma deve fare i conti con Edimburgo che il suo peso specifico lo mette tutto in campo questa volta. Se la ricompensa sarà evitare la Brexit e sognare l’indipendenza, allora si valuterà il prezzo politico da pagare.

Strategia? Cinismo? Opportunismo? No, solo politica.

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