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Denis Mukwege: il medico che vuole “guarire” la Repubblica Democratica del Congo diventando presidente

Immagine di copertina
Credit: Panzi foundation

Il "dottor coraggio" è il massimo esperto globale nella cura delle ferite da stupro, ha aiutato migliaia di vittime di guerra e ha vinto il Premio Nobel per la Pace nel 2018. Ora però aspira alla più alta carica dello Stato a Kinshasa

Quando nel 2009 Denis Mukwege ritirò il Premio Olof Palme a Stoccolma, anche Majken Bergman era presente. Nel 1955, la missionaria svedese viveva in un quartiere povero di Bukavu, nell’est della Repubblica Democratica del Congo, dove lavorava in un ambulatorio locale. Fu Bergman a salvare la vita del futuro Premio Nobel per la Pace durante i suoi primi giorni di vita quando, dopo il parto in casa, rischiò di non sopravvivere a un’infezione contratta per il taglio del cordone ombelicale. Cinquantaquattro anni dopo, Mukwege volle ringraziarla pubblicamente, definendola «un simbolo del senso stesso della vita».

Ma Bergman non è stata l’unica figura altruista a segnare la vita del “Dottor Coraggio”, com’è stato soprannominato in patria, dove ha deciso di candidarsi alle presidenziali che si terranno dal prossimo 20 al 27 dicembre. L’intera infanzia del medico congolese è stata segnata da persone che volevano aiutare gli altri, a partire da suo padre, un pastore protestante.

Diventare “Muganga”
Sin da bambino, Mukwege lo accompagnava a visitare i malati di Bukavu, sulle sponde del lago Kivu. Un giorno, quando aveva solo otto anni, andarono insieme a trovare un giovane malato terminale, per cui poterono soltanto pregare. Dopo questa esperienza disse al padre: «Tu puoi continuare a pregare, ma io darò loro le medicine di cui hanno bisogno». «Guardandomi indietro, mi rendo conto che fu a quell’età che decisi di diventare un “muganga”, che nella mia lingua madre significa “colui che salva vite umane”», raccontò Mukwege nel 2019 a un evento in Brasile.

Terzo di nove figli, Mukwege decise di studiare medicina ma non abbandonò la fede, diventando un ministro pentecostale a soli 13 anni. In seguito però si iscrisse all’Università del Burundi, dove si laureò in medicina nel 1983. Allora tornò in patria, cominciando a lavorare come pediatra nell’ospedale rurale di Lemera, a sud di Bukavu. Già l’anno successivo però, a soli 29 anni e dopo aver constatato le sofferenze delle sue pazienti a causa della mancanza di cure adeguate, decise di approfondire gli studi di ginecologia e ostetricia presso l’Università di Angers, in Francia.

Era il suo primo viaggio in Europa e spese quasi metà dei suoi risparmi soltanto per il biglietto aereo. Quando arrivò in città però ci mise un po’ a trovare un alloggio visto che, per razzismo, molti proprietari di casa gli rifiutavano un contratto d’affitto. Tanto che alla fine divise una casa con altri studenti. Il percorso accademico però fu brillante. Durante un cesareo, notandone le capacità, il suo professore gli chiese se ne avesse già praticato uno in precedenza. «Ne ho fatti quasi 500», rispose Mukwege. «E chi ci fai allora qui?», sbottò il docente, ammirato. Cinque anni dopo, al conseguimento della specializzazione, il chirurgo tornò in patria, riprendendo il suo lavoro a Lemera, dove era l’unico ginecologo qualificato della regione. Qui fu travolto, come tutti, dal fuoco incrociato della prima e della seconda guerra del Congo.

“L’uomo che ripara le donne”
Alla metà degli anni Novanta, l’ospedale di Lemera, vicino al confine tra Burundi e Ruanda, si ritrovò in mezzo agli scontri etnici seguiti al genocidio ruandese del 1994 e all’invasione dell’est del Congo. Qui, per la prima volta, Mukwege cominciò a curare le ferite dovute agli stupri di gruppo e alle violenze sessuali usate come arma contro i civili da parte delle milizie in conflitto. A Lemera, il ginecologo assisteva tutti, senza distinzioni di fazione, ma alla fine la zona fu invasa dalle forze filo-Kigali, decine di pazienti e operatori sanitari rimasero uccisi e lui fu costretto a fuggire in Kenya, mentre Laurent Kabila diventava presidente.

Soltanto nel 1998 Mukwege tornò in patria, ricominciando a operare a Bukavu, ma fece di più. Su un appezzamento di terreno agricolo in un quartiere povero alla periferia della città, il medico fondò il Panzi Hospital, aperto nel 1999 e dedicato alle cure ginecologiche e ostetriche. Tuttavia, lo scoppio di un’altra guerra lo costrinse a trattare nuovamente le vittime della brutalità delle milizie contro le donne e l’ospedale divenne un rifugio per migliaia di persone. Così, lui e il suo staff svilupparono una competenza specifica in materia di terapie dei danni causati agli organi interni dalle violenze sessuali, guadagnandosi l’appellativo di “Uomo che ripara le donne”.

Ma non si limitava alla medicina: Mukwege creò un proprio modello, integrando cure mediche, sostegno psicologico, assistenza legale e supporto socio-economico, per aiutare le vittime, diventando un esempio in tutto il mondo e cominciando anche a ricevere riconoscimenti all’estero, tra cui il Premio per i diritti umani delle Nazioni Unite nel 2008 e il Premio Olof Palme nel 2009.

Per quasi 15 anni, la struttura offrì assistenza a oltre 50mila donne, lavorando 18 ore ed effettuando quasi 10 interventi al giorno. Poi, nel 2012, a un paio di mesi dal suo discorso alle Nazioni Unite in cui denunciò lo stupro come arma di guerra e l’impunità dei colpevoli delle violenze sessuali di massa commesse negli anni precedenti in Congo, alcuni uomini armati attaccarono la sua casa, prendendone in ostaggio i figli. Alla fine, tornato in patria, Mukwege riuscì a salvare la sua famiglia, ma una delle sue guardie del corpo fu uccisa dagli aggressori. Così il medico fu costretto a lasciare di nuovo il Paese, trovando rifugio in Europa, dove nel 2013 ottenne il Right Livelihood Award, nel 2014 il Premio Sakharov dell’Europarlamento e nel 2015 un dottorato di ricerca presso l’Université libre de Bruxelles.

Nel gennaio 2013 però tornò nuovamente in patria, atterrando all’aeroporto di Kavumu, dove lo accolsero migliaia di persone in festa, soprattutto ex pazienti. Da allora ha continuato a operare a Panzi, curando almeno altre 32mila persone, e a denunciare in tutto il mondo le violenze sessuali subite dalle donne, ottenendo il Premio Nobel per la Pace nel 2018 insieme all’attivista yazida Nadia Murad. Senza mai dimenticare la sua gente.

Domani è troppo tardi
Mukwege non ha mai avuto paura di denunciare la cultura dell’impunità nei confronti dei crimini di guerra e contro l’umanità registrati dall’Onu nella Repubblica Democratica del Congo. Tantomeno si è astenuto dal criticare le politiche internazionali di sfruttamento in Africa. «Per fermare quanto sta avvenendo qui in Congo occorrerebbe innanzitutto che i colpevoli venissero puniti», disse in un’intervista rilasciata nel 2019 a TPI. «Poi ci vorrebbe una ferma volontà politica nazionale ed internazionale di porre fine al saccheggio dei minerali. Perché in questo modo cesserebbero i conflitti che stanno dilaniando da anni il nostro Paese».

La sua fama e il suo impegno hanno portato migliaia di persone a rivolgersi a lui per un cambiamento, anche politico. A settembre, una folla di donne si è presentata dal Premio Nobel per consegnarli un assegno da 100mila dollari, necessari per iscriversi alla Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni) e presentarsi alle presidenziali del prossimo 20 dicembre contro Felix Tshisekedi e un’altra ventina di candidati. «Hai guarito molte donne e oggi ti chiediamo di guarire anche questo Paese», disse allora una delle sue sostenitrici.

Un appello raccolto da Mukwege a inizio ottobre: «Il nostro Paese è diventato la vergogna del continente. Domani sarebbe troppo tardi, io mi candido», ha detto il 2 ottobre ai suoi sostenitori riuniti presso la parrocchia di Fatima, nella capitale Kinshasa.

Il suo programma è chiaro: punire «i predatori che si impadroniscono delle ricchezze del Congo», contrastare la «dissolutezza della politica» e «l’intervento di forze straniere senza l’autorizzazione del Parlamento», difendendo «la Costituzione, calpestata da colui che dovrebbe esserne il garante supremo». A sua volta però, senza mai nominarlo, Tshisekedi lo ha accusato di essere un «burattino» nelle mani di Paesi stranieri. Un’insinuazione respinta da Mukwege, definitosi «il più congolese di tutti i candidati». L’uomo che vuole guarire il Congo.

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