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Le proteste in Burundi contro il presidente

Immagine di copertina

Migliaia di manifestanti sono scesi in piazza per contestare Nkurunziza, che vuole ricandidarsi per la terza volta. Nei sei giorni di protesta sono morte 8 persone

Le forze di sicurezza del Burundi hanno represso duramente una protesta organizzata da alcuni manifestanti che domenica 26 aprile sono scesi in piazza nella capitale Bjumbura per contestare la decisione del presidente uscente Pierre Nkurunziza, che vuole candidarsi per la terza volta come capo dello stato.

S&D

Migliaia di manifestanti hanno bloccato le strade con pneumatici in fiamme e pietre pesanti, mentre gli agenti di polizia cercavano di arginare la protesta con lacrimogeni e idranti. Alcuni poliziotti avrebbero persino aperto il fuoco sulla folla.

Il governo ha negato l’utilizzo di armi da fuoco negli scontri. Il bilancio attuale è di otto morti e almeno venti feriti.

Venerdì 1 maggio il presidente Nkurunziza ha dichiarato che sanzioni severe verranno adottate contro i dimostranti. 

Nella stessa giornata diverse granate sono esplose in un distretto della capitale uccidendo tre persone, due poliziotti e un civile.

Dopo sei giorni di proteste, sabato 2 maggio gli organizzatori della manifestazione hanno annunciato che la dimostrazione si sarebbe fermata per due giorni, per rispettare il lutto delle famiglie delle vittime e per riprendere le forze. 

“Ricominceremo a lottare lunedì” ha dichiarato Pacifique Nininahazwe, capo di uno dei gruppi della società civile che hanno organizzato la manifestazione. 

L’attivista del Burundi Pierre Claver Mbonimpa è stato picchiato duramente e preso a calci dalla polizia, prima di essere arrestato per le dichiarazioni rilasciate durante un programma radiofonico, scrive Reuters.

Martedì 28 aprile Mbonimpa è stato rilasciato. Ha dichiarato di essere stato interrogato, maltrattato e picchiato dalle forze dell’ordine. L’attivista Vital Nshimirimana è invece attualmente ricercato dalla polizia.

Come si è arrivati alle proteste

Sabato 25 aprile il presidente in carica del Burundi Nkurunziza ha annunciato la sua candidatura, in vista delle elezioni presidenziali previste per il 26 giugno.

Il giorno seguente i manifestanti si sono radunati in strada, appellandosi alla Costituzione del Paese, promulgata nel 2005 alla fine di una guerra civile durata dodici anni, che stabilisce un limite massimo di due mandati presidenziali, di cinque anni ciascuno.

Secondo i sostenitori di Nkurunziza, tuttavia, i suoi primi cinque anni di presidenza non sarebbero da considerarsi come il primo dei due mandati consentiti, dal momento che l’attuale presidente nel 2005 non venne eletto dal popolo, ma fu votato dai parlamentari dell’assemblea nazionale.

Un testimone Reuters ha riferito che l’esercito del Burundi si è aggiunto alle forze dell’ordine incaricate di arginare la protesta.

Funzionari diplomatici e membri dell’opposizione hanno riferito che gli agenti di polizia sarebbero inclini ad appoggiare il partito del governo, il Consiglio nazionale per la difesa della democrazia – Forze per la difesa della democrazia (Cndd-Fdd).

Anche alcuni membri del movimento politico Imbonerakure, l’ala giovanile del Cndd-Fdd, avrebbero preso parte agli scontri contro i dimostranti. Il partito al governo, che è lo stesso di Nkurunziza, ha tuttavia negato di aver fornito armi al gruppo politico per contrastare i manifestanti.

I sostenitori di Imbonerakure sarebbero i responsabili di due delle cinque vittime complessive registrate finora, un fatto confermato dall’attivista Pierre Claver Mbonimpa poche ore prima del suo arresto.

Cosa succede ora

Le proteste sono continuate anche lunedì 27 aprile e si teme un’escalation di violenza. “La lotta andrà avanti”, recitava uno degli slogan della folla contro il presidente.

Il governo ha contestato che le proteste non si sono rivelate pacifiche come inizialmente promesso dai dimostranti che avevano organizzato la manifestazione.

“Questa sembra un’insurrezione più che una dimostrazione pacifica”, ha detto Gervais Abayeho, portavoce del presidente. Nel corso della giornata di lunedì 27, gli agenti di polizia hanno fatto irruzione in diverse stazioni radiofoniche private del Paese, interrompendo la copertura in diretta delle proteste.

In particolare, le autorità hanno voluto evitare che i notiziari venissero trasmessi anche al di fuori della capitale Bjumbura, dove il sostegno per il presidente è molto forte.

Il portavoce Abayeho ha giustificato la decisione del pubblico ministero di chiudere alcune stazioni radiofoniche private, accusate di alimentare le violenze.

Mercoledì 29 aprile, quarto giorno di proteste, un funzionario delle telecomunicazioni locali ha riferito che sono stati interrotti gli accessi telefonici a diversi social network e applicazioni di messaggistica istantanea. 

Diversi governi africani e occidentali avevano fatto pressione sul presidente del Burundi affinché non si ricandidasse. Il dipartimento di Stato americano ha comunicato il suo dissenso in seguito alla decisione di Nkurunziza, ed è pronto a intervenire con misure strategiche contro chiunque faccia ricorso a mezzi violenti. Mercoledì 29 aprile Tom Malinowski, funzionario del dipartimento di stato statunitense, ha riferito di essere in viaggio verso il Burundi.

La corte costituzionale burundese esaminerà l’ammissibilità della ricandidatura del presidente Nkurunziza, ha riferito Venant Barubike, segretario del presidente del senato. Ma gli oppositori del capo dello stato hanno contestato l’imparzialità della corte, ritenuta fedele a Nkurunziza, e hanno dichiarato che continueranno a protestare. 

— Guarda la gallery: Le immagini della protesta in Burundi 

Nel frattempo, più di 20mila persone sarebbero fuggite dal Burundi in Ruanda, che nel 1994 è stato teatro di un genocidio costato la vita a oltre 800mila persone tra Hutu e Tutsi, due tra i principali gruppi etnici ruandesi e burundesi. Inoltre, migliaia di abitanti del Burundi si sono diretti verso il Congo.

Funzionari diplomatici occidentali temono che le violenze in Burundi possano destabilizzare ulteriormente la regione, già messa a dura prova dal flusso di armi e di rifugiati causato dalle guerre in Sud Sudan e Somalia.

Il presidente del Burundi e il suo partito sono alla guida del Paese dalla fine della guerra civile, che ha infiammato il Burundi dal 1993 al 2005.

Durante la guerra civile, l’esercito – all’epoca composto esclusivamente da Tutsi – si è scontrato con alcuni gruppi di ribelli Hutu. L’attuale presidente Nkurunziza era il leader di uno di questi gruppi.

Oggi sia i Tutsi che gli Hutu fanno parte delle forze di sicurezza dell’esercito. L’85 per cento della popolazione del Burundi appartiene all’etnia Hutu, mentre i Tutsi rappresentano il 14 per cento degli abitanti.

Funzionari diplomatici hanno riferito che le tensioni nel Paese potrebbero sfociare in un conflitto etnico, anche se al momento l’opposizione include sia Hutu che Tutsi. 

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