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Home » Esteri

Esclusivo – Patrick Zaki a TPI: “Sogno di fare politica in Italia”

Immagine di copertina
Credit: EPA/STRINGER

“Voglio restituire tutto il bene ricevuto e aiutare più persone possibili. Sono arrivato nel vostro Paese da arabo, da africano, ma in modo privilegiato. Tutti però hanno diritto di seguire i loro sogni e di farlo in sicurezza. L’approccio del vostro 
governo sui migranti 
è inquietante. 
Ma 
fermare l’immigrazione
 è impossibile. 
Bisogna trovare 
soluzioni adeguate”. Ecco l'intervista esclusiva degli inviati di TPI in Egitto

Dall’alto il Cairo è una lunga, interminabile, accecante sequenza di luci: quelle che fanno brillare la maggiore megalopoli dell’Africa, la sesta per popolazione al mondo. Oltre 20 milioni di persone affollano la più internazionale delle città Mediorientali, dove il tempo scorre fra i richiami dei muezzin e le folle di turisti che si accalcano intorno alle piramidi. In questa straordinaria foresta di luci, ce ne è una che si rivela in qualche modo gemellata con il nostro Paese. Brilla in un quartiere che dista appena venti minuti da piazza Tahrir, dove nel 1919 gli egiziani manifestarono contro il Regno Unito che occupava le loro terre e nel 2011 pulsò la primavera araba, conclusasi con la destituzione del trentennale regime di Hosni Mubarak.

S&D

Questa luce batte nel cuore di Bologna, e appartiene al ricercatore e attivista per i diritti umani Patrick Zaki, incarcerato per un articolo del 2019 in cui prendeva le difese dei copti, sottolineando le sanguinarie persecuzioni dell’Isis degli anni precedenti e due casi di discriminazione sociale e giuridica. Studente all’Università di Bologna, Zaki venne arrestato nel febbraio 2020 all’aeroporto del Cairo – dove era atterrato dall’Italia per fare visita a dei parenti – con accuse molto pesanti, quali minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento alle proteste illegali, sovversione.

Qui – come ha evidenziato Amnesty International – venne «bendato e ammanettato, picchiato sulla pancia e sulla schiena e torturato con scosse elettriche dagli agenti dell’Agenzia di sicurezza nazionale (NSA) che lo hanno interrogato sul suo lavoro in materia di diritti umani durante il suo soggiorno in Egitto e sullo scopo della sua residenza in Italia». Iniziò così l’incubo. Rilasciato nel dicembre 2021, dopo 22 mesi di custodia cautelare trascorsi in cella, oggi Zaki vive al Cairo dove trascorre le sue giornate impegnandosi in prima persona per i diritti umani.

Il suo destino però è ancora in attesa di giudizio. Lo incontriamo – questo 32enne di Mansura, una corona di ricci ruvidi e gli occhi scuri che si muovono rapidi dietro una montatura leggera – nel quartiere delle ambasciate. Ci sediamo in un locale libanese la cui terrazza si affaccia sul Nilo, che scorre placido con riflessi mercurio fra grattacieli iper-moderni e baracche. Lui sorride, è magrissimo: «Sono a dieta, cerco di controllare l’alimentazione perché mi muovo poco». Racconta la sua storia in inglese: «Voglio imparare l’italiano, faccio tre ore di lezione la settimana, ma è difficile con tutti questi verbi da coniugare!». 

«L’unica cosa che volevo fare con quell’articolo – racconta – era mettere in evidenza la vita di una minoranza nel mio Paese. Quando il mio caso è diventato virale, la mia esistenza è cambiata e io, che mi interessavo ai diritti degli altri, ho visto negati i miei». A volte ci sono cose nella vita che cambiano tutto. Irrimediabilmente. Ed è così che Zaki – un ragazzo appassionato di calcio e di serate con gli amici, una laurea in farmacia – si ritrova al centro dell’attenzione internazionale. «Qui in Egitto – spiega – le persone conoscono la mia storia, ma in carcere ci sono centinaia di attivisti che non hanno avuto la mia fortuna. Molti egiziani credono che questi siano dentro perché, incoraggiati dai Paesi europei e dagli Stati Uniti, in realtà sostengano gruppi di terroristi. Tutelare le minoranze, come quella religiosa o quella gender, non è una delle preoccupazioni centrali della cultura egiziana. Per fortuna ci sono delle persone che scelgono ogni giorno di sostenermi. Sento molto forte il supporto dei copti del mio Paese. Ma non è sempre stato così». 

In che senso?
«All’inizio, quando mi occupavo di minoranze, chi mi stava vicino mi diceva di smetterla. Con il tempo però hanno capito. E adesso sono i primi che mi sostengono perché hanno compreso quanto sia importante che tutti gli esseri umani siano rispettati nel medesimo modo».

Lei in Italia è diventato un simbolo per il sostegno dei diritti umani. È così anche in Egitto?
«Non sono una figura pubblica per gli egiziani, ma i giovani sono molto interessati a questo tema e spesso mi scrivono perché mi vogliono incontrare, vogliono capire, vogliono studiare. Fare un paragone però fra l’Egitto e l’Italia non è corretto. L’Egitto non è nella medesima fase di democrazia, di attenzione per i diritti umani, di libertà di pensiero o di parola. Adesso in Egitto poi la situazione dal punto di vista economico è critica».

Come le sembra l’Italia vista da qui?
«Io sono arrivato in Italia da arabo, da africano, ma in modo privilegiato. Credo però che tutti debbano avere il medesimo diritto di inseguire il proprio sogno, e di farlo in sicurezza. È per questo che spero presto di poter tornare a Bologna. Voglio restituire all’Italia tutto l’affetto e il sostegno che mi ha regalato in questi anni”.

Parla quasi da politico…
«Se diventare un politico mi darà la possibilità di migliorare la vita delle minoranze e migliorare la situazione dei diritti umani, lo farò. Sono prima di tutto un attivista e questa è la mia passione».

Cosa ne pensa della politica attuale del Governo in Italia?
«La politica del nuovo governo nei confronti dei migranti è inquietante. È necessario lavorare di più per trovare soluzioni adeguate. Solo chi non ha speranza, si imbarca in mare aperto. Oggi l’Italia è uno dei luoghi più semplici da raggiungere per chi cerca una via di fuga. Fermare l’immigrazione è impossibile. Bisogna invece cercare una soluzione. E poi bisogna dire che le persone di colore, e parlo in prima persona, spesso sono discriminate. Sarebbe importante avere un atteggiamento inclusivo, e insegnarlo ai più giovani. Mi piacerebbe tornare a Bologna proprio per battermi contro il razzismo, in favore delle minoranze etniche e della comunità LGBT+. Credo che sia questo il compito di chi ha la fortuna di avere una voce grazie alle persone: esprimersi e battersi per i diritti di tutti».

L’Italia le è stata realmente di supporto in questi anni difficili?
«Assolutamente. Questo mi fa sentire molto fortunato. Da Bologna, la città a cui sono così profondamente legato e che reputo come un avamposto per i diritti umani in tutto il Paese, ho avuto un grande supporto. E lo stesso è stato dalle forze politiche sia di sinistra che di destra. Quando Giorgia Meloni è venuta al Cairo, ha parlato del mio caso».

Quali sono dal suo punto di vista i rapporti fra Egitto e Italia oggi?
«Si tratta di un rapporto molto stretto, sostenuto dai bisogni energetici dell’Italia. È un dialogo che, considerata l’attuale crisi, non può interrompersi nonostante la mia situazione, o quella di Giulio Regeni».

La sua vita è cambiata per un articolo in cui raccontava le sorti della minoranza copta.
«Volevo raccontare la discriminazione cui sono sottoposti i copti, e l’ho fatto verificando parola per parola. Oggi il Governo egiziano pare interessato a capire quello che è accaduto e a cambiare le cose. Dentro di me, però, temo che si tratti solo di una facciata. In Egitto il potere in ogni segmento della società continua ad essere appannaggio dei musulmani, mentre i cristiani non riescono ad avere posizioni significative. Magari hanno un ministero, come quello dell’immigrazione, peccato che poi non conti nulla».

Si è mai pentito di aver scritto questa storia?
«No. Non sono un giornalista, non volevo fare alcuno scandalo o scoop. Volevo solo raccontare, come ricercatore, gli evidenti problemi che affliggono la comunità copta in Egitto».

Così però è finito in prigione.
«La prigione è qualcosa che non si dimentica. Un’ora in prigione necessita di anni per essere metabolizzata. Io ho trascorso in cella due anni. È stato durissimo. Ogni tanto ho dei flashback di quello che è accaduto, dei momenti tremendi in cui la mia mente mi riporta indietro. La prigione ti resta dentro, e ti devasta. Sto cercando di fare del mio meglio per andare avanti, per dimenticare, ma ancora oggi la mia vita continua a essere incerta».

Lei è in attesa di giudizio. La prossima udienza presso la Corte della Sicurezza dello Stato per i reati minori si terrà il 9 maggio, e rischia di tornare in carcere per altri tre anni.
«Devo aspettare. Nel frattempo mi sento fortunato rispetto ai tanti attivisti ancora in carcere. Quella che vivo però non è piena libertà».

Perché?
«Non posso viaggiare, non posso prendere in affitto una casa poiché non so cosa accadrà domani o l’anno prossimo, non posso avere un lavoro a tempo indeterminato visto che nessuno assumerebbe qualcuno che rischia di andare in prigione da un momento all’altro, non posso programmare la mia esistenza né a breve né a lungo termine. Neanche quella personale».

Come è stato tornare a casa dopo la detenzione?
«Una volta in cella, ero convinto che vi sarei rimasto almeno per cinque anni, come spesso accade. Poi il Governo ha deciso di rilasciare numerosi attivisti e giornalisti, una cosa che non era mai accaduta prima. Quando sono stato liberato, ero spaesato. Per due anni avevo visto solo una persona la settimana. All’improvviso mi cercavano decine di persone che desideravano parlarmi e conoscere la mia storia. E poi ci sono stati gli incubi. Sognavo di restare imprigionato in una stanza che nessuno, a cominciare da me, era in grado di aprire. Per giorni ho dormito con la porta della mia camera aperta. Anche se avevo bisogno di privacy, la lasciavo spalancata».

E ora?
«Non è facile andare avanti. Chi è incarcerato, passa tutto il tempo a chiedersi: quando verrò rilasciatoPer fortuna avevo dei libri, che mi hanno tenuto compagnia».

Che cosa leggeva?
«I romanzi di Elena Ferrante. Non ho mai amato i libri che si dilungano in descrizioni meticolose, ma ho cambiato idea. Il racconto dei particolari, delle strade, dei profumi mi hanno tenuto compagnia, e in qualche modo salvato… In carcere, sapete, non esistono che tre colori».

Quali?

«Il bianco delle divise dei detenuti, il blu indossato da chi ha avuto un verdetto finale e il verde delle pareti della cella. È una cosa apparentemente sciocca, ma convivere per così tanto tempo con solo tre colori ha ucciso la mia immaginazione. Non voglio drammatizzare, ma è così. Da quando sono uscito, ho cominciato ad apprezzare i dettagli della quotidianità».

Per esempio?
«Il sole. Del cibo fresco. Una bevanda ghiacciata».

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