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Incendi sudamericani, una storia che si ripete

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L'incendio alla discoteca Kiss è solo l'ultima di una lunga serie di tragedie. All'origine ci sono l'assenza di controlli e misure di sicurezza nulle

Incendi sudamericani una storia che si ripete

Nelle situazioni estreme tutto diventa evidente: la stupidità di chi causa i danni, la codardia di chi cerca di nasconderli, il coraggio di chi salva vite umane e l’impotenza di chi rimane bloccato in una trappola mortale. Domenica 27 gennaio al Kiss, la discoteca della cittadina universitaria di Santa Maria nel Rio Grande do Sul, gli ingredienti c’erano tutti. Alle 2:30 di mattina, più di 1.500 giovani ballavano al ritmo dei Gurizada Fandangueira. D’un tratto un membro della band ha acceso un effetto pirotecnico per eccitare la pista. La schiuma dell’isolamento acustico ha preso fuoco e una nuvola di fumo tossico ha invaso la sala, togliendo l’aria a 234 ragazzi. Più di 120 sono ancora in ospedale, di cui 88 in gravi condizioni.

I cellulari hanno squillato all’infinito. Poi gli sms: “Dove sei?”. Ma le risposte non arrivavano perché i telefoni erano quelli dei ragazzi rimasti a terra, morti per asfissia. Piccoli dettagli d’orrore, raccontati dai testimoni scappati attraverso l’unica porta d’entrata e uscita aperta nell’incubo del Kiss. Accanto, le storie degli eroi del momento. Come quella del capitano della Brigata Militare Edi Paulo Garcia, che con il suo team ha tirato fuori dai bagni, scambiati per uscite d’emergenza, quasi 200 persone. O quelle di decine di ragazzi che, maglietta bagnata su naso e bocca, cercavano di aprire varchi nei muri per aiutare a far uscire chi non ce l’aveva ancora fatta.

Lunedì 28 la coda di persone in fila verso il Cemitério Ecumênico Municipal era enorme. A Santa Maria, 260 mila anime, sono in pochi a non aver perso almeno un amico. Il presidente Dilma Rousseff ha decretato tre giorni di lutto nazionale.

La tragedia del Kiss è solo la seconda, per numero di vittime, della storia brasiliana. Ai meno giovani saranno tornati in mente i fatti di Niterói. Era il 1961 e anche in quel caso un momento di gioia diventò un inferno: l’incendio al Gran Circus Norte-Americano. In quel caso i morti furono 503. Era il circo più grande dell’America Latina: 60 artisti, 20 impiegati e 150 animali, morti durante uno spettacolo per mano di Adílson Marcelino Alves, detto Dequinha, uno squilibrato che era stato licenziato dal padrone del circo. Insieme a due complici cosparse di benzina i teloni della struttura e gli diede fuoco. Fu condannato a 16 anni di prigione e sei anni di reclusione in un ospedale psichiatrico. Fu assassinato nel 1973 dopo essere fuggito dal carcere.

E in Sudamerica di tragedie del genere ne sono già successe parecchie. L’ultima in Argentina, il 31 dicembre del 2004. Nel locale República Cromañon, durante un concerto della band Callejeros, uno spettatore ancora oggi anonimo ha acceso un bengala in mezzo alla folla, rituale che fino a quel giorno era usuale nei concerti rock argentini. La candela incandescente è andata a finire sui teloni che coprivano gli interni del soffitto. 194 giovani hanno perso la vita in quella strage, per la quale è stata condannata la band, il proprietario del locale, gli ispettori municipali e gli organizzatori. Il sindaco di Buenos Aires, Anibal Ibarra, venne costretto a dimettersi, ma ancora oggi familiari e amici delle vittime chiedono nuove condanne.

Un altro incendio, a Caracas, provocò la morte di 47 persone nel locale La Guajira, nel dicembre del 2002. Lo stesso anno, nella capitale del Perú, Lima, la discoteca Utopía prese fuoco in un battibaleno, appena il dj decise di dare alle fiamme il getto di un aerosol acceso. “La discoteca più esclusiva e sicura di Lima”, come diceva lo slogan del suo proprietario, Percy North, era una corazzata infiammabile, dove persero la vita 29 persone. Nel 2000 anche Lobohombo, la discoteca più grande del Messico, si incendiò, portando con sé le vite di 20 ragazzi.

In quasi tutti i casi i locali avevano permessi dati senza controlli adeguati, erano sovraffollati e con misure di sicurezza praticamente nulle. Le porte antipanico inesistenti, o, ancor peggio, chiuse a chiave. In tutti i casi, i familiari delle vittime chiedono ancora oggi giustizia, e soprattutto prevenzione.

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