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Il nuovo leader del Tibet

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Il successore politico del Dalai Lama, il Sikyong Lobsang Sangay, racconta in esclusiva cosa sta accadendo realmente oggi in Tibet

Il nuovo leader del Tibet

Il Tibet è in fiamme. I tibetani bruciano. Da febbraio 2009 fino a oggi, 98 persone si sono autoimmolate invocando la libertà per il Tibet e il ritorno del Dalai Lama in patria. Solo nel 2012 le autoimmolazioni sono state 83, una tendenza in continua crescita che non lascia presagire nessuna imminente battuta d’arresto.

Domanda: “Se potesse definire con una sola parola quanto sta accadendo oggi in Tibet, che parola le verrebbe in mente?”

Sikyong: “Repressione!”

Il Sikyong Lobsang Sangay è lapidario e sicuro, conosce bene quale peso dare alle parole. Classe 1968, è stato il primo tibetano a laurearsi ad Harvard, dove è diventato professore di Diritto. Nato in un poverissimo villaggio per profughi tibetani a Darjeeling, nel Bengala occidentale, non sa quale sia il giorno del suo compleanno, ma la sua nascita è stata comunque registrata il 10 marzo, il giorno di commemorazione della rivolta ‘nazionale’ contro l’occupazione cinese del 1959.

È l’erede politico del Dalai Lama, il primo uomo non reincarnato a succedergli nella carica di rappresentante del governo tibetano in esilio. È il ‘Sikyong’, il primo ministro del Gabinetto dell’Amministrazione Tibetana Centrale.

Dopo 50 anni di esercizio del potere temporale, a marzo 2011 il Dalai Lama ha rassegnato le sue dimissioni dalla carica politica e per la prima volta nella storia del Tibet, che vanta una secolare tradizione teocratica, si è innescato un processo di democratizzazione interna. La Costituzione tibetana è stata emendata dall’Assemblea dei deputati e sono state indette le elezioni, vinte il 27 aprile del 2011 da Sangay con il 55 per cento dei voti. Il Dalai Lama ha trasferito su di lui l’autorità politica, scongiurando i rischi di un eventuale vuoto di potere in caso di un suo improvviso impedimento o decesso.

Fronteggiare il colosso cinese e vestire i panni del popolare Dalai Lama nel teatro politico internazionale e in quello regionale è una sfida ambiziosa per Lobsang Sangay, soprattutto ora che il suo Paese è in fiamme e seppellisce i suoi figli suicidi. A sentire le dichiarazioni del presidente del Comitato Permanente della Regione Autonoma del Tibet, Qiangba Puncog, una vera ‘emergenza Tibet’ non esiste. Tutto sarebbe stato montato dai media internazionali e dagli esuli tibetani indipendentisti, che guidati dal Sikyong Sangay e dal Dalai Lama avrebbero ‘istigato e architettato’ le autoimmolazioni al fine di raggiungere i propri obiettivi politici.

D: “Sikyong Sangay, come intende rispondere a queste accuse?”

S: “Invece di giocare a lanciare accuse contro tutti, le autorità cinesi dovrebbero indagare a fondo le cause che stanno dietro le autoimmolazioni e cercare di trovare un rimedio. Sia le colpe sia le soluzioni spettano solo a Pechino”.

A darsi alle fiamme oggi sono uomini e donne di tutte le età, il più giovane aveva 15 anni, il più grande 64, monaci e laici, analfabeti e scolarizzati. Qualcuno li chiama ‘martiri della libertà’, qualcun altro ‘testimoni della verità’, qualificando l’autoimmolazione come un atto altruistico che riflette la volontà e gli interessi di una collettività stretta nella morsa coercitiva di un sistema dominante. Per altri ancora l’autoimmolazione dei tibetani è un atto politico estremo, di protesta e resistenza. Il corpo è usato come un’arma per delegittimare l’autorità politica, per acutizzare lo stato di tensione e mobilitare le coscienze, per incrementare le risorse contrattuali nello sbilanciato rapporto con il potere centrale e per imporre una scadenza al confronto, quella determinata dal numero dei morti.

D: “Sikyong Sangay, qual è il significato profondo dell’autoimmolazione? Quali sono le sue cause concrete?”

S: “Le cause reali delle autoimmolazioni sono la repressione politica, l’emarginazione economica, la devastazione ambientale e l’assimilazionismo culturale”.

In Tibet in gioco ci sono gli equilibri regionali, la competizione per la supremazia tra i due giganti dell’Asia, l’India e la Cina, e il controllo del tetto del mondo, uno spazio geopolitico senza eguali, un immenso bacino minerario non sfruttato a cielo aperto e in parte ancora inesplorato, dove Pechino ha installato alcune basi missilistiche. Il Tibet fa gola a tutti. Per questo il controllo di Pechino è totale. Nel 2009 la spesa annuale procapite per la sicurezza pubblica nelle aree tibetane ha superato di ben cinque volte il budget speso per le altre province, ed è superiore al budget per la sicurezza estera.

D: “Quali sono gli effetti della politica di sicurezza della Cina sul Tibet?”

S: “L’occupazione del Tibet, in particolare la presenza dispotica delle truppe cinesi e le politiche repressive del governo di Pechino hanno dato vita a un circolo vizioso di proteste e repressione, che porterà più proteste e ancora più repressione”.

Lobsang Sangay prosegue la politica della ‘via di mezzo’ iniziata dal Dalai Lama, ossia della negoziazione e del confronto pacifico con le autorità cinesi. Guarda alla strategia di resistenza non violenta di Gandhi come modello per realizzare la propria politica di governo, rinforzando da una parte le relazioni con gli Stati Uniti dove ha vissuto per 16 anni e dall’altra la storica amicizia con l’India, che ospita il suo popolo fin dall’esodo del 1950.

D: “Cosa si aspetta il governo tibetano in esilio dal cambio della guardia a Pechino?”

S: “A giudicare dal passato c’è meno spazio per l’ottimismo ma io non perdo la speranza e sono fiducioso che i nuovi leader avranno nuove prospettive e risolveranno la questione del Tibet secondo una logica pacifica, attraverso il dialogo”.

D: “Sikyong Lobsang Sangay, se in questo momento avesse la possibilità di parlare faccia a faccia con il futuro presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, cosa gli direbbe?”

S: “Gli direi di risolvere la questione del Tibet pacificamente sulla base di una proposta che sia vantaggiosa per tutti”.

Tutti vincono, nessuno esce sconfitto dal confronto. Un buon inizio per il nuovo leader politico del Tibet, ma il suo progetto è davvero realizzabile?

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