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Hebron, dove tutto ha due nomi

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Una terra senza popolo per un popolo senza terra. Il reportage di Davide Lerner

Non si fa a tempo a varcare l’uscio della casa di Yosef Hartuv, colono israeliano della cittadina di Kiryat Arba alle porte di Hebron, e si è subito accolti dai cimeli di un missionario idealista per cui tutta la terra biblica appartiene di diritto al popolo d’Israele.

Il frammento di legno incorniciato sulla porta d’ingresso, racconta il religioso di origine americana, è un resto dell’antico tempio gerosolimitano di Salomone che presto, con l’aiuto del Messia, verrà finalmente ricostruito.

Poco importa se oggi su quel sito sorgono la moschea Al Aqsa e la cupola della roccia, edificata attorno alla pietra da cui Maometto sarebbe asceso al cielo con il suo cavallo alato.

Yosef finge quasi di non esserne al corrente: “il recinto sacro”, come i musulmani chiamano quello che per lui è il “monte del tempio”, non fa parte della narrativa di cui è intriso.

Allo stesso modo Yosef sembra spesso non accorgersi della presenza dei palestinesi di Hebron. Come scrive Ari Shavit nel suo nuovo “La Terra Promessa”, il colono “non vede perché se vedesse dovrebbe tornare indietro, e per proseguire sceglie di non vedere”.

(Qui sotto: un cortometraggio di nove minuti descrive la giornata tipo di Awni Abu Shamsiya, un ragazzo palestinese di Hebron. Yuval Orr, l’autore @yuvalorr, è un filmmaker israeliano. Il suo lavoro è stato finanziato da “Beyond walls”, un progetto internazionale per la difesa dei diritti umani nei territori).

“Una terra senza popolo per un popolo senza terra”, promettevano i sionisti, ma oggi in Palestina si chiamano con nomi diversi gli stessi siti. A Hebron, Al-Khalil per gli arabi, Yosef conduce una vita austera dedicata alla riconquista della cittadina sede della tomba del patriarca Abramo, grotta di Machpela per gli ebrei e moschea Ibrahimi per i musulmani.

“Chi ha fede non ha paura”, recitano gli adesivi che appiccica dappertutto nella sua piccola abitazione: la costante minaccia della resistenza palestinese, che costringe migliaia di reclute dell’esercito israeliano a pattugliare la città 24 ore al giorno, non intimidisce il religioso convinto che “uno stato ebraico debba essere fedele alla terra degli ebrei”.

Nel suo disegno satirico preferito, Netanyahu intima agli Stati Uniti di ritirarsi dai “territori occupati” dove un giorno vivevano liberi i nativi: gli indiani sono gli arabi, la frontiera è da spingersi sempre più avanti come negli anni dell’espansione nel West.

Zolla per zolla, i coloni continuano a espandere i loro insediamenti stringendo in un abbraccio mortale la Hebron palestinese: sono ormai cinque le colonie del centro cittadino, che si aggiungono alla popolosa ma periferica Kiryat Arba che conta fra i 7.000 e i 9.000 abitanti.

L’ultima, quella di Al Rajabi, è stata legalizzata dal governo israeliano solo pochi mesi fa. Lo raccontano gli italiani della “Temporary International Presence in Hebron” (TIPH), un contingente internazionale che dall’indomani della strage di Baruch Goldstein, il colono che nel 1994 penetrò nella moschea Ibrahimi e freddò 29 palestinesi per combattere la sua “guerra di Oslo”, si occupano di monitorare le violazioni dei diritti umani che avvengono nella città contesa e riferire ad entrambe le parti le infrazioni relative al protocollo su Hebron del 1997.

I coloni, spiega il Tenente Colonnello Francesco Bilancioni, convincono i palestinesi ad abbandonare le proprie case rendendogli la vita impossibile: nella colonia di Beit Hadassah, secondo il suo collega Salam Kamel Karam, avrebbero addirittura scavato un buco nel muro e fatto penetrare un serpente velenoso nella casa di un palestinese che non voleva saperne di farsi da parte.

Il divieto sull’acquisto delle case viene poi aggirato con documenti contraffatti e prestanome: fondi praticamente illimitati, provenienti da sostenitori perlopiù americani, fanno sì che solo gli idealisti scelgano di rimanere piuttosto che optare per la via pragmatica e incassare le offerte spropositate dei coloni.

“Mentre le altre colonie della Cisgiordania sono abitate anche da israeliani laici, attratti dalle agevolazioni economiche che il governo garantisce a chi si trasferisce al di là della linea verde, le colonie di Hebron sono abitate solo da estremisti religiosi a causa del portato spirituale della città di Abramo”, spiega invece il carabiniere Francesco Borretti. “Le violazioni che siamo tenuti a segnalare avvengono su base giornaliera, in particolare da parte dei coloni la cui stessa presenza è illegale sotto la legge internazionale sull’occupazione”.

Il duro lavoro d’osservazione dei 13 italiani del TIPH e dei loro colleghi internazionali, fatto di lunghi appostamenti ai check point e nei luoghi più caldi della cittadina, viene però vissuto con un po’ di amarezza: “Purtroppo il nostro mandato, che israeliani e Autorità Nazionale Palestinese devono rinnovare ogni sei mesi, non prevede la possibilità di intervenire e i rapporti che produciamo non hanno necessariamente un effetto concreto; alle volte i palestinesi vedono che la situazione peggiora invece che migliorare e ci chiedono a cosa serva la nostra presenza qui”.

Ogni sabato il colono americano Yosef guida un tour nella Hebron araba per mostrare a potenziali nuove reclute degli insediamenti come tutto, per un motivo o per un altro, appartenga di diritto al popolo d’Israele. Il suq della città vecchia, tormentato dal lancio d’oggetti dalla colonia soprastante di Beit Hadassa, viene attraversato da una trentina di ebrei circondati da altrettanti militari dell’esercito israeliano.

Le mitragliatrici dell’IDF circondano il drappello di aspiranti pionieri: i fucili puntati anche dai tetti e gli sberleffi dei coloni intimidiscono i bambini palestinesi che si affacciano alle finestra delle loro case. Nonostante il tour si svolga perlopiù nella cosiddetta “H2”, cioè nella zona a controllo militare israeliano, esso rappresenta una sistematica violazione degli accordi che fa leva sulla schiacciante supremazia militare degli israeliani, spiegano dal TIPH.

Le arringhe dei rabbini suonano da monito ai palestinesi a cui non è permesso di avvicinarsi: la loro libertà di movimento è sospesa nei luoghi dove Yosef e il suo collega che parla ebraico decidono di transitare.

Risalendo verso la casa di Kyriat Arba, Yosef percorre Shuada Street, uno stradone fantasma di negozi chiusi e insegne arrugginite che fu, un giorno, l’arteria principale della cittadina di Hebron. I soldati israeliani, alcuni diciottenni che sembrano bambini, sono appostati a distanza di venti metri gli uni dagli altri.

Yosef non li degna di uno sguardo e continua a raccontare: “Gran parte di ciò che vedi è frutto degli attacchi terroristici che subiamo”, spiega indicando le colonie, “solo con il potere contrattuale che ci garantisce l’impatto emotivo del delitto riusciamo a convincere il governo israeliano a legalizzare i nostri avamposti e avanzare”.

E dire che in passato, fino al 1929, una comunità ebraica secolare era vissuta in pace con la maggioranza musulmana di Hebron, Al-Khalil. Negli anni venti gli ebrei si erano addirittura rifiutati di avvalersi della difesa dell’Haganah, la formazione militare sionista precedente la formazione dello stato, sostenendo di non aver certo bisogno della tutela di un corpo estraneo in casa propria.

Il pogrom anti-ebraico del 1929, che spazzò via la presenza ebraica fino al ritorno con la politica coloniale dopo la “guerra dei sei giorni” (“naksa”, cioè “disfatta”, nel vocabolario arabo), dimostrò che avevano peccato d’ottimismo e inaugurò una storia di sangue per la città di Abramo. Oggi Hebron, dove secondo l’ultimo rapporto TIPH esistono ben 121 barricate permanenti che ostruiscono le strade per ragioni di sicurezza, è terra di ingiustizia e prevaricazione.

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