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A che punto è la crisi in Medio Oriente

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Per comprendere il conflitto mediorientale bisogna guardare alle alleanze religiose e politiche, più o meno dichiarate. L'analisi di Massimiliano Fanni Canelles

Per comprendere l’eterno conflitto in Medio Oriente, in particolare la guerra in Siria, è necessario esaminare le alleanze religiose e politiche – più o meno –dichiarate nella regione.

S&D

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Lo scenario nella regione

Per semplificare, si può dividere il Medio Oriente in due territori virtuali. La mezzaluna sunnita composta da Qatar, Turchia e Arabia Saudita è sostenuta fino alla presidenza Obama da Stati Uniti e Israele. La mezzaluna sciita, composta dall’Iran, dall’Iraq del premier sciita Haider al-Abadi, dalla Siria di Bashar al-Assad e dal partito libanese Hezbollah è sostenuta dalla Russia.

Elementi fuori dal coro sono Turchia, Egitto e Libia. Quest’ultima vive in un perenne stato di caos, anche per l’intervento militare di diversi paesi occidentali e arabi nel 2011. La presenza del sedicente Stato Islamico ha reso lo scenario ancora più complicato e ha evidenziato le divisioni nello schieramento del premier libico Serraj.

Un rapporto dell’International Crisis Group spiega che l’accordo di Skhirat, firmato a dicembre 2015 in Marocco per la pace in Libia, non è stato in grado di risolvere le lotte interne ma si è limitato a riconfigurarle.

In Egitto dopo tre anni di presidenza di al-Sisi, la situazione economica nel paese è diventata sempre più drammatica. L’opposizione è bloccata dagli arresti di massa. In carcere ci sono 60mila oppositori politici. Con l’arrivo della giunta militare in alcune zone, come nella penisola del Sinai, vivere in sicurezza è sempre più difficile e l’lsis prende sempre più terreno.

La Turchia, membro Nato, è il cuscinetto dell’Unione europea con il mondo islamico ed è quindi il paese più importante per il nostro continente. Costretta, per questioni di geopolitica, all’ambiguità, ha dovuto dialogare con tutti i suoi infuocati confini: la Siria sciita e quella sunnita; i terroristi controllati dall’Isis e Al-Qaeda; la Russia e le repubbliche filorusse; i gruppi curdi e armeni che rivendicano sovranità; e l’Unione europea e gli Stati Uniti, come elementi fondanti della Nato di cui fanno parte.

Per cercare di sopravvivere in questo ginepraio, ma anche nel tentativo di seguire le mire di potere del suo presidente Erdogan, la Turchia si è schierata contro il regime siriano di Bashar al-Assad. Ha finanziato e armato l’Esercito libero siriano (Els) considerato tra i meno radicali. Ma nel tentativo di combattere i curdi siriani ha anche favorito lo Stato islamico, permettendo il passaggio di armi e foreign fighters. 

I rapporti tra Turchia e Stato Islamico sunnita sono ora completamente cambiati. Da una reciproca tolleranza si è passati a un’aperta ostilità, come ha dimostrato l’attentato di capodanno.

Ma alla resa dei conti potrebbero essere anche le forze interne. L’elettorato del presidente Erdogan è stretto fra la maggioranza sunnita, che mal vede un coinvolgimento del governo in alleanze sciite, e i gruppi indipendentisti curdi sempre più forti nell’ottenere consenso internazionale. Per questo sarà determinante il referendum del 16 aprile 2017 in cui viene chiesto al popolo di scegliere se passare dalla democrazia parlamentare al presidenzialismo, che rafforzerebbe la deriva autoritaria. 

Il conflitto con il sedicente Stato Islamico

Nel frattempo l’Isis è sotto attacco in Siria, a Raqqa, dalla coalizione statunitense e curda, in collaborazione con le truppe russe e turche. Mentre in Iraq, a Mosul, sono attive le forze irachene con i peshmerga curdi e le milizie sciite e sunnite dell’esercito iracheno. Le forze che combattono insieme contro lo Stato Islamico sono tutt’altro che unite.

La tensione tra l’Iraq sciita e la Turchia sunnita per la diffidenza reciproca in un azione militare congiunta rischia di complicare e rallentare l’operazione. Senza contare l’assoluta incompatibilità fra l’esercito turco e le milizie curde, e fra le stesse milizie curde, quelle turche e irachene.

Ma anche se l’Isis cadrà militarmente, i presupposti alla sua esistenza non svaniranno facilmente. Dopo che le forze russe e quelle di Assad hanno preso il controllo di Aleppo, sconfiggendo i ribelli che fronteggiavano il dittatore siriano, si è pensato a una soluzione del conflitto. Evento ben lontano dall’accadere: i ribelli prevalentemente jihadisti e islamisti estremisti, che hanno perso l’offensiva di Aleppo, stanno dirigendosi a Damasco per colpirla in attentati suicidi. Sono 31 le persone morte nella capitale martedì 15 marzo nelle prime operazioni terroristiche delle forze jihadiste.

Anche dopo la conquista di Mosul ed eventualmente di Raqqa la situazione non sarà diversa. Se si vuole realizzare un processo di pace sarà necessario risolvere tutti gli elementi che hanno favorito l’attecchimento dell’Isis: estremismo religioso, lotta religiosa interna all’Islam, tutela dei diritti umani e soprattutto delle donne, violenze e soprusi perpetrati dai vari dittatori locali e dalle superpotenze arabe e internazionali. 

Inoltre, in Siria come in Iraq mancano le risorse e la capacità di ricostruire città, abitazioni, viabilità, acquedotti ed elettrodotti. Le amministrazioni continuano a subire le conseguenze della corruzione e della lotta interna fra funzionari sciiti e sunniti che frammentano le amministrazioni in gruppi difficilmente controllabili.

L’Isis resiste alla sconfitta perché non vengono risolti i presupposti su cui si è sviluppato e perché i principali eserciti sul campo, quali Stati Uniti, Russia e Turchia, non perseguono gli stessi obiettivi. Questi governi curano diverse alleanze con gruppi politico-militari di diversa estrazione ed in alcuni casi hanno obiettivi diametralmente opposti. Basti pensare alla questione curda, appoggiata dagli Stati Uniti ma osteggiata dalla Turchia. O alla guerra di religione fra le forze sciite e sunnite che in alcuni casi, come nella collaborazione degli eserciti turchi sunniti e iracheni sciiti, non può trovare un obiettivo univoco.

Tutto questo ritarda la soluzione e impedisce la sconfitta dello Stato islamico. Perché l’Iraq e la Siria diventino paesi stabili e più pacifici, saranno necessari per decenni ingenti investimenti e un radicale cambiamento culturale e religioso in accordo con tutta la comunità internazionale.

Sarà necessario un cambiamento nei rapporti nella politica estera, economica e religiosa. Se questo non avverrà il rischio di un conflitto senza fine rimane purtroppo concreto.

— LEGGI ANCHE: Otto mappe per capire il Medio Oriente

— LEGGI ANCHE: Tutte le tappe del conflitto siriano dal 2011 a oggi

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