Oltre 700 giorni di guerra: cronistoria, mese per mese, della guerra a Gaza
Dai kibbutz assaltati il 7 ottobre da Hamas alle bombe di Israele sulle tendopoli nella Striscia. Dai raid in Libano, Yemen e Siria al conflitto aperto con l’Iran. Con l’intervento diretto degli Usa. Ecco cos’è successo negli ultimi due anni
Gli attentati del 7 ottobre 2023 hanno riacceso un conflitto mai sopito: dopo il brutale attacco terroristico di Hamas e della Jihad Islamica si è assistito a una sproporzionata risposta di Israele a Gaza, che si è protratta per due anni. Ripercorriamoli insieme.
Da ottobre a dicembre 2023
Tutto cominciò quando, il 7 ottobre 2023, Hamas e la Jihad Islamica lanciarono un attacco in Israele, con migliaia di razzi e altrettanti miliziani armati contro i kibbutz del sud del Paese e il festival musicale di Re’im. L’assalto causò la morte di 1.195 persone e il sequestro di altre 251. All’attentato più grave della sua storia, Tel Aviv rispose proclamando lo stato di guerra e bombardando Gaza.
Il giorno successivo anche Hezbollah cominciò a lanciare missili dal Libano sul nord di Israele, in solidarietà con Hamas. Il 9 ottobre, l’allora ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant annunciò un «assedio totale» della Striscia, da lasciare senza «elettricità, cibo e carburante». Tanto che, a metà mese, la situazione umanitaria era già allarmante.
Il 10 ottobre, i primi 3 giornalisti furono uccisi in un attacco aereo israeliano a Gaza City. Quindi Israele ordinò la prima evacuazione del nord della Striscia, intimando a oltre un milione di civili, quasi metà della popolazione, di fuggire verso sud nel giro di 24 ore. Quattro giorni dopo, un’esplosione devastò l’ospedale Al-Ahli di Gaza City, rifugio di pazienti e sfollati. Il ministero della Salute di Gaza diede la colpa a un attacco aereo israeliano, mentre Tel Aviv negò ogni responsabilità. Ma quello fu solo il primo ospedale a essere colpito mentre il conflitto si estese.
Il 19 ottobre, la Marina Usa intercettò missili e droni lanciati dallo Yemen verso Israele dagli Houthi in solidarietà con Hamas. Due giorni dopo, i primi camion di aiuti entrarono nella Striscia dall’Egitto. Ma la situazione precipitò il 27 ottobre quando Israele lanciò un’offensiva terrestre nella Striscia.
Nel secondo mese di conflitto le forze armate israeliane (Idf) annunciarono una «nuova fase» bellica: interi quartieri nel nord di Gaza furono rasi al suolo e la Striscia sprofondò nella catastrofe. Più le Idf si spingevano in profondità nelle aree urbane più popolate, incontrando la resistenza dei miliziani di Hamas e della Jihad Islamica nascosti nei tunnel, più il bilancio delle vittime civili aumentava. A inizio novembre, le comunicazioni e i servizi Internet in tutta Gaza erano sempre più precari, isolandola dal mondo.
Il 15 del mese, le truppe israeliane assaltarono per la prima volta l’ospedale Al-Shifa, la più grande struttura sanitaria di Gaza, sostenendo che Hamas lo utilizzasse come centro di comando. Migliaia di pazienti, operatori sanitari e civili sfollati rimasero intrappolati all’interno della struttura durante l’operazione, suscitando l’indignazione internazionale. Nel giro di poche settimane però, quasi tutti gli ospedali nel nord della Striscia erano ormai impossibilitati a fornire servizi medici.
Ad aggravare la crisi arrivarono anche i primi attacchi agli operatori umanitari. Il 18 novembre, un convoglio di Medici Senza Frontiere (Msf) fu attaccato mentre cercava di evacuare Gaza City, provocando la morte di 2 cooperanti. Nel frattempo il conflitto continuava ad allargarsi: nel Mar Rosso gli Houthi assaltarono una nave cargo, prendendo in ostaggio 25 membri dell’equipaggio e minacciando la navigazione verso lo Stretto di Suez per fare pressione su Usa ed Europa.
La diplomazia però ottenne un primo risultato: il 21 novembre Qatar, Egitto e Usa negoziarono una tregua di 7 giorni, che consentì la liberazione di 105 ostaggi israeliani in cambio del rilascio di 240 palestinesi, nonché il temporaneo afflusso di aiuti a Gaza. Il cessate il fuoco però terminò il 1° dicembre, quando entrambe le parti tornarono a scontrarsi, accusandosi a vicenda di aver violato gli accordi.
Israele riprese le operazioni, spostando le truppe verso sud. Il 4 dicembre, le Idf lanciarono un attacco via terra a Khan Younis, ormai epicentro dei combattimenti. Da allora cominciarono a emergere segnalazioni di detenzioni di massa e abusi sui civili da parte di Tel Aviv. Accuse sempre negate dall’Idf che però pubblicava le foto di uomini denudati, bendati e in ginocchio prima di essere arrestati, prelevandoli anche dalle strutture sanitarie. A metà dicembre, i militari israeliani avevano ormai preso il controllo dell’ospedale di Al-Awda, costringendo il personale alla fuga e sottoponendo uomini e ragazzi a pesanti interrogatori. A fine anno, la situazione umanitaria aveva raggiunto livelli catastrofici: già allora l’Integrated Food Security & Nutrition Phase Classification (Ipc) riconosciuto dall’Onu segnalava che 2,2 milioni di abitanti della Striscia rischiavano la fame.
Da gennaio a giugno 2024
Il nuovo anno non portò sollievo alla popolazione: il 1° gennaio 2024 Israele annunciò un primo ritiro dal nord di Gaza ma poi i combattimenti ripresero. Intanto continuarono gli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso, spingendo Usa e Regno Unito a lanciare i primi raid sullo Yemen e l’Ue a schierare una propria missione navale.
Con il protrarsi del conflitto, la situazione umanitaria a Gaza peggiorò ancora. Tanto che il 26 gennaio, con una decisione storica, la Corte Internazionale di Giustizia de L’Aja ordinò per la prima volta a Israele di prevenire atti di genocidio. Ciononostante, diversi Paesi, tra cui gli Usa, sospesero i finanziamenti all’agenzia Onu per il soccorso ai palestinesi (Unrwa) sulla base di accuse mai provate da Israele circa suoi presunti legami con Hamas.
Intanto nella Striscia si pativa ovunque la fame. Il Wfp sospese le consegne di aiuti nel nord di Gaza il 20 febbraio per i ripetuti attacchi subiti dai convogli. Il 29 del mese le truppe israeliane aprirono il fuoco su alcuni civili in fila per il cibo, uccidendo 112 persone e ferendone oltre 750.
A marzo il bilancio delle vittime a Gaza aveva già superato i 30mila morti ma solo il 25 del mese, dopo 171 giorni di guerra, il Consiglio di Sicurezza Onu approvò la sua prima risoluzione per chiedere un cessate il fuoco. La violenza però continuava.
Il 1° aprile Israele colpì un convoglio di aiuti della World Central Kitchen, uccidendo 7 cooperanti. Lo stesso giorno il conflitto si allargò con il bombardamento israeliano di un complesso dell’ambasciata dell’Iran a Damasco, in Siria. Due settimane dopo, Teheran reagì lanciando centinaia di missili e droni contro Israele.
A maggio invece il grosso degli scontri si concentrava a Rafah, la città più meridionale della Striscia e ultimo rifugio per 1,4 milioni di sfollati, dove Israele lanciò un’altra invasione su vasta scala. Il 6 maggio intanto Hamas annunciò di aver accettato una proposta di tregua mediata da Usa e Paesi arabi, respinta da Tel Aviv. Il giorno dopo il valico di Rafah fu chiuso dall’arrivo dei carri armati israeliani. Così la situazione umanitaria continuò a peggiorare. Il 24 maggio la Corte de L’Aja ordinò a Israele di interrompere l’offensiva in città, avvertendo il rischio di danni irreparabili ai civili ma gli scontri continuarono. Un mese dopo, l’Ipc lanciò un altro allarme carestia, confermando ormai la fame sistemica nella Striscia.
Da luglio a dicembre 2024
La guerra però andava avanti. A luglio, Israele riprese i bombardamenti a Khan Younis e Rafah. Il 16 del mese, l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) denunciò di aver rilevato il virus della poliomielite a Gaza, segno del collasso dei sistemi igienico-sanitari. Il 19 luglio invece, un drone lanciato dallo Yemen dagli Houthi colpì Tel Aviv provocando una vittima e 10 feriti, così il giorno dopo l’Idf rispose con una serie di attacchi aerei contro le città portuale yemenita di Hodeidah. Uno scontro continuato nel corso dei mesi successivi con lanci di missili da parte del gruppo armato sciita contro lo Stato ebraico, che rispose con nuovi raid a settembre e dicembre 2024 e a luglio 2025 contro la capitale yemenita Sana’a e i porti e le raffinerie in mano agli Houthi, provocando centinaia di vittime.
Ad agosto 2024 intanto Israele annunciava di aver ucciso il leader militare di Hamas, Mohammed Deif, deceduto in un raid in cui, secondo il ministero della Salute della Striscia, morirono altre 90 persone. Allora Tel Aviv emise il suo 16esimo ordine di evacuazione rivolto alla popolazione, spingendo i residenti di Deir al-Balah e Khan Younis sempre più a sud.
Il mese successivo la guerra si volse però di nuovo al nord. L’Idf condusse una serie di attacchi in Libano, facendo esplodere centinaia di dispositivi di comunicazione di Hezbollah e uccidendo centinaia di persone. Anche il leader del gruppo, Hassan Nasrallah, morì in un raid aereo a Beirut il 28 settembre, con un atto che scosse l’intera regione. La fase “libanese” della guerra, con la contestuale invasione israeliana del sud del Paese, provocò oltre 4.000 morti e si concluse soltanto il 27 novembre con un accordo di tregua.
Intanto però era passato un anno dagli attentati in Israele e il 16 ottobre 2024 l’Idf aveva ucciso il leader di Hamas, Yahya Sinwar, mente degli attacchi nello Stato ebraico. Il 21 novembre poi la Corte Penale Internazionale emanò mandati di arresto per il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il suo ministro della Difesa Yoav Gallant, accusati di crimini di guerra e contro l’umanità. Il quadro internazionale però stava cambiando: negli Usa Donald Trump vinse di nuovo le presidenziali, intimando più volte ad Hamas di liberare gli ostaggi prima del suo insediamento.
Da gennaio a maggio 2025
Così il 15 gennaio 2025, dopo 15 mesi di conflitto, fu raggiunto un secondo cessate il fuoco mediato dagli Usa, che entrò in vigore proprio alla vigilia del ritorno di Trump alla Casa bianca. L’accordo prevedeva la liberazione degli ostaggi israeliani, che Hamas cominciò a rilasciare con cerimonie umilianti trasmesse in tutta la Striscia, e il parziale ritiro di Israele. La pace sembrava possibile ma poi anche questa tregua saltò. Entrambe le parti si accusavano a vicenda di aver violato gli accordi, mentre il flusso degli aiuti si bloccò di nuovo.
Così il 1° marzo scadde la prima fase del cessate il fuoco senza che i mediatori riuscissero a trovare un’altra intesa. Israele interruppe subito l’afflusso di aiuti e merci nella Striscia e il 18 marzo riprese i raid aerei, uccidendo, secondo il ministero della Salute di Gaza, più di 400 palestinesi in un solo giorno e portando il bilancio delle vittime del conflitto oltre i 50mila morti. Anche gli attacchi contro giornalisti e cooperanti continuarono, tanto che a fine mese l’Onu decise di ritirare un terzo del suo personale da Gaza dopo la morte di un operatore umanitario bulgaro in un raid di Israele.
Per la prima volta però il 26 marzo scoppiarono proteste pubbliche nella Striscia contro Hamas e a favore di una tregua con Israele. Ad aprile Gaza era infatti diventata quasi invivibile. L’Idf controllava il 30% del territorio, dove aveva istituito delle “zone cuscinetto”, mentre tutti i panifici sostenuti dal Wfp avevano chiuso per mancanza di carburante e farina e il nuovo ministro della Difesa israeliano Israel Katz annunciava il divieto di ingresso degli aiuti nella Striscia.
Il mese successivo Tel Aviv annunciò l’Operazione “Carri di Gedeone”, un piano per occupare permanentemente gran parte di Gaza e deportare la popolazione nel sud della Striscia. Intanto un altro rapporto dell’Ipc denunciò l’incremento della fame, così Tel Aviv, che ormai controllava il 77% della Striscia, aprì all’ingresso di convogli umanitari, promuovendo le attività della nuova Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), l’unica ong sostenuta da Israele e Usa per distribuire cibo ai palestinesi. Il conflitto però continuava ad allargarsi.
Da giugno a ottobre 2025
Tra il 13 e il 24 giugno, Israele e l’Iran tornarono a scontrarsi in quella che il presidente Trump definì la «guerra dei 12 giorni», con intensi attacchi aerei dello Stato ebraico contro la Repubblica islamica e lanci di missili e droni contro la città israeliane. Il conflitto, che provocò almeno 1.200 vittime, tra cui una ventina di israeliani e più di un migliaio di civili iraniani, ha compromesso le capacità atomiche di Teheran, che ha perso decine di comandanti delle Guardie rivoluzionarie e scienziati nucleari nei vari attacchi subiti contro le città e i siti militari e di ricerca. Inizialmente non coinvolti direttamente, dopo i raid missilistici iraniani contro le città e le infrastrutture israeliane, compresi gli impianti petroliferi di Haifa, gli Usa si unirono a Israele nella distruzione dei principali impianti nucleari iraniani a Fordow, Natanz e Isfahan, raid a cui Teheran rispose con il lancio di missili e droni contro la base aerea statunitense di al-Udeid in Qatar, prima di accettare un cessate il fuoco poi annunciato sui social da Trump.
A inizio luglio lo stesso presidente Usa annunciò un’altra proposta di tregua per Gaza, accettata da Israele ma respinta da Hamas. Nel frattempo però la Striscia veniva travolta dalla carestia. Il mese successivo infatti, con l’inasprirsi del blocco degli aiuti e le violenze nei pressi dei centri di distribuzione alimentare della Ghf, l’Ipc denunciò che oltre 500mila palestinesi rischiavano di morire di fame e che la carestia si stava diffondendo.
L’indignazione internazionale però raggiunse l’apice nel settembre 2025, quando una commissione indipendente Onu accusò formalmente Tel Aviv di genocidio a Gaza, un’accusa rilanciata anche da storici e associazioni israeliane. Al contempo, diversi Paesi, compresi Francia, Regno Unito, Australia e Canada, riconobbero lo Stato di Palestina mentre persino l’Ue approvava le prime sanzioni contro esponenti del governo israeliano.
A fine mese poi, il 29 settembre, Trump e Netanyahu annunciarono un piano in 20 punti per mettere fine al conflitto, una proposta accolta parzialmente il 3 ottobre anche da Hamas. Uno sviluppo che portò il presidente statunitense a ordinare a Israele di interrompere i bombardamenti sulla Striscia, dove l’Idf ha sospeso le operazioni, segnando la terza pausa prolungata dei combattimenti dall’inizio della guerra, che finora ha provocato più di 67mila morti, compresi oltre 540 operatori umanitari e 220 giornalisti.