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Home » Esteri

“Così Israele affama Gaza”: l’inchiesta del Guardian usa i dati del governo Netanyahu per accusare Tel Aviv

Immagine di copertina
Una madre culla il figlio malnutrito a Gaza City nel luglio del 2025. Credit: ZUMAPRESS.com / AGF

Negli ultimi mesi lo Stato ebraico ha consentito l’ingresso a Gaza di una media di sole 56mila tonnellate di cibo, garantendo in questo periodo meno di un quarto del fabbisogno alimentare minimo della popolazione

Israele ha provocato la carestia in corso nella Striscia di Gaza e a provarlo, secondo un’inchiesta pubblicata dal quotidiano britannico The Guardian, sarebbero gli stessi dati pubblicati dal governo Netanyahu, che controlla l’afflusso di cibo e aiuti umanitari e calcola da anni di quante calorie hanno bisogno i palestinesi per sopravvivere.

Il diavolo, come si suol dire, è nei numeri e la matematica, secondo il quotidiano londinese, è terribilmente semplice: la popolazione non può lasciare la Striscia; la guerra ha messo fine all’agricoltura, esaurito o distrutto le scorte alimentari e messo fuori uso mulini e forni; mentre Israele ha vietato la pesca. Quindi a Gaza il cibo deve per forza essere importato dall’esterno. Ma dall’inizio del conflitto Tel Aviv controlla tutti i valichi di frontiera e regola l’afflusso di beni nel territorio costiero palestinese. Non solo: il governo israeliano calcola da decenni di quante calorie hanno bisogno i palestinesi per poter gestire le spedizioni al fine di fare pressione su Hamas.

Sin dal 2006, secondo il Guardian, l’Autorità israeliana di coordinamento delle attività governative nei Territori occupati (COGAT), che controlla anche le spedizioni di aiuti a Gaza, stimò che i palestinesi necessitavano in media di un minimo di 2.279 calorie a persona al giorno, pari a 1 chilo e 836 grammi di cibo. Oggi però nella Striscia viene inviato circa la metà di questo fabbisogno: la razione minima è infatti scesa a meno di un chilogrammo al giorno a persona, visto che nel territorio costiero entrano, in media, ogni mese soltanto 62mila tonnellate di alimenti secchi o in scatola da distribuire a 2,1 milioni di abitanti. Ma negli ultimi mesi è andata anche peggio.

Dall’inizio dell’anno, secondo i dati del Cogat, Israele ha consentito l’ingresso a Gaza di una media di sole 56mila tonnellate di cibo, garantendo in questo periodo meno di un quarto del fabbisogno alimentare minimo della popolazione. Questo perché, tra marzo e aprile, la Striscia è stata sottoposta a un assedio totale da Tel Aviv, che non ha permesso alcun ingresso di beni e generi alimentari, dopo le consegne garantite dall’Onu durante la tregua stabilita tra gennaio e febbraio e poi violata dalle forze armate israeliane (Idf).

Le spedizioni sono riprese solo a metà maggio, quando il governo israeliano e gli Usa hanno cominciato ad appoggiare la Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), l’unica ong sostenuta da Israele e Usa per distribuire cibo nella Striscia, facendo affluire nel territorio poco più di 19mila tonnellate di cibo, un terzo del necessario. Una cifra salita poi tra le 37 e le 38mila tonnellate nei due mesi successivi, pari a circa il 60% del fabbisogno alimentare dei palestinesi. Questo però, secondo l’Onu, non ha evitato la carestia. Tanto che, secondo il ministero della Salute della Striscia, a Gaza sono morte di fame 579 persone negli 11 giorni trascorsi tra il 20 e il 31 luglio, più che in tutti i precedenti 21 mesi di conflitto.

Israele comunque nega che a Gaza sia in corso una carestia, accusando, senza fornire prove, Hamas di confiscare gli aiuti e l’Onu di non distribuire i carichi pronti al confine. Le operazioni della Ghf mostrerebbero invece, secondo Tel Aviv, che i palestinesi hanno accesso al cibo. Ma sono gli stessi dati pubblicati dal Cogat, secondo il Guardian, a smentire questa affermazione.

Un’analisi dei pacchi alimentari forniti a Gaza dall’ong registrata in Delaware, condotta per il quotidiano londinese dal Famine Review Committee, un gruppo indipendente di esperti che esamina i rapporti dell’Integrated Food Security Phase Classification (IPC) delle Nazioni Unite, mostra che il “piano di distribuzione” degli aiuti della fondazione “porterebbe alla carestia di massa, anche se fosse in grado di funzionare senza i livelli spaventosi di violenza che sono stati segnalati”. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani infatti, dal 27 maggio al 31 luglio, almeno 1.373 persone sono morte nella Striscia mentre cercavano di procurarsi da mangiare, di cui “859 uccise nelle vicinanze dei siti” della ong americana. “Anche se ogni sacco di farina delle Nazioni Unite fosse stato raccolto e distribuito e la Ghf avesse sviluppato sistemi sicuri per una distribuzione equa, la fame sarebbe stata inevitabile”, ha denunciato la corrispondente-capo per il Medio Oriente del Guardian, Emma Graham-Harrison. “I palestinesi non hanno abbastanza da mangiare”.

Ora, su pressione internazionale, Israele ha autorizzato la ripresa dei lanci di aiuti umanitari sulla Striscia per via aerea ma questo metodo si è già rivelato costoso, inefficace e pericoloso. Nei primi 21 mesi di guerra, secondo i dati del Cogat, 104 giorni di lanci aerei hanno assicurato a Gaza l’equivalente di soli quattro giorni di cibo, per un costo compreso, secondo l’ong giordana Jordan Hashemite Charity Organization, tra i 210mila e i 450mila dollari a lancio (rispetto ai 2.200 necessari per un camion). Nel 2024, inoltre, almeno 12 persone sono annegate nel tentativo di recuperare carichi di cibo finiti in mare e altre cinque sono morte schiacciate dai pallet precipitati dal cielo.

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