L’esperta del Gruppo di Lavoro Onu contro le Sparizioni Forzate Aua Baldé a TPI: “Le vittime registrate in Sudan non sono nemmeno la punta dell’iceberg”
“Ci segnalano detenzioni arbitrarie, casi di tratta di esseri umani, matrimoni forzati e forme di schiavitù sessuale: donne e bambini vengono presi di mira”. Aua Baldé, membro del Gruppo di Lavoro Onu contro le sparizioni forzate, rivela a TPI: “Le denunce non riflettono la realtà. Le famiglie temono rappresaglie e manca la consapevolezza del lavoro degli organi a difesa dei diritti umani. Ma nessuno conosce i dati esatti”
Professoressa Aua Baldé, ci può fornire dati certi dopo 2 anni e mezzo di guerra in Sudan?
«Le cifre che abbiamo, rese pubbliche dall’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani, parlano ad esempio di oltre 470 mila persone sfollate più volte dal maggio del 2024, soprattutto nell’area di El Fasher (in Nord Darfur, ndr). Più di sei milioni di bambini in tutto il Paese, il 25% dei quali di età inferiore ai cinque anni, sfollati o costretti a cercare rifugio nei Paesi vicini. Ma, come Gruppo di Lavoro Onu contro le sparizioni forzate, la situazione in Sudan ci preoccupa in modo specifico».
Perché?
«Abbiamo ricevuto numerose segnalazioni di violenze sessuali avvenute nelle diverse zone di conflitto, tra cui El Fasher, Gezira, Khartoum, ecc. Si tratta di un fenomeno ricorrente. Ci sono anche casi di tratta di esseri umani, alcuni segnalati dopo la conquista di El Fasher da parte delle Rapid Support Forces (Rsf). Donne e ragazze sono state sequestrate nelle aree sotto il loro controllo, molte non sono accompagnate, sono state separate dai figli e sono a rischio di violenza o sfruttamento sessuale. Ma la situazione è complessa».
Ci spieghi meglio.
«Il Sudan ha ratificato la Convenzione sulle sparizioni forzate, ciò significa che tali atti perpetrati da agenti statali rientrerebbero naturalmente nel mandato del Comitato sulle sparizioni forzate, un organismo delle Nazioni Unite diverso dal Gruppo di Lavoro, che esamina queste situazioni specifiche. Il nostro gruppo di cinque esperti invece è chiamato a documentare gli atti di sparizione forzata in tutto il mondo, in particolare nei Paesi che non hanno ancora ratificato la Convenzione. Tuttavia, nel caso del Sudan, ci troviamo di fronte a una seria sfida giuridica perché le Rsf sono un attore non-statale che mantiene il controllo su un’area non ben delimitata del Paese, da cui riceviamo sempre più spesso resoconti secondo cui queste forze stanno commettendo atti simili in maniera autonoma. Quando un attore non statale che ha il controllo di una parte di un territorio commette tali crimini, li consideriamo “atti che equivalgono a sparizioni forzate”. La situazione però è ancora in fase di evoluzione e stiamo cercando di ottenere più informazioni».
C’è un collegamento tra la pulizia etnica denunciata dopo la presa di El Fasher in Sudan e l’aumento delle sparizioni forzate?
«Abbiamo ricevuto delle segnalazioni ma affermarlo sarebbe prematuro. Servirebbe un numero significativo di casi, che non abbiamo».
Come mai?
«Le vittime non hanno accesso diretto alle agenzie e ad altri organismi Onu. Persino le organizzazioni della società civile che cercano di assisterle incontrano difficoltà a ottenere le informazioni».
Che segnalazioni ricevete?
«Abbiamo segnalazioni relative a detenzioni arbitrarie e matrimoni forzati di donne e ragazze a scopo di sfruttamento sessuale. In alcuni di questi casi, l’uso della forza contro le vittime avviene in contesti che indicano l’esistenza di forme di schiavitù sessuale. Donne e bambini vengono presi di mira in modo particolare».
Di quante persone parliamo?
«Il numero di casi registrati riguardanti la situazione in Sudan in materia di sparizioni forzate non riflette affatto la realtà sul campo. Nell’ambito del nostro mandato umanitario, documentiamo singoli casi di sparizione forzata, individualmente. Pensi che, da quando esiste il Gruppo di Lavoro, sono stati segnalati solo 394 casi in Sudan. Non è nemmeno la punta dell’iceberg. Ma la sfida che affrontiamo riguarda ciò che siamo in grado di documentare. Una delle maggiori difficoltà è accedere alle informazioni, perché dobbiamo soddisfare criteri specifici».
Ci fa un esempio?
«Uno dei requisiti è il consenso delle vittime. Se si segnala un caso di sparizione forzata, così come di un atto equivalente a una sparizione forzata, nell’ambito del nostro mandato umanitario dobbiamo richiedere il consenso della vittima ovvero dei familiari. Una volta comunicata la denuncia, il regime o l’attore non statale accusato saprà che queste famiglie hanno denunciato. Le vittime quindi temono rappresaglie perché gli organismi a difesa dei diritti umani non hanno accesso al territorio e non possono garantire la sicurezza di chi si trova sul campo. Ma è solo la prima sfida che dobbiamo superare».
Qual è l’altra?
«La mancanza di conoscenza o consapevolezza del lavoro degli organismi a difesa dei diritti umani. Svolgiamo numerose attività di sensibilizzazione rivolte alle organizzazioni della società civile in Sudan per migliorare la comunicazione e ottenere un quadro più accurato di ciò che sta accadendo sul campo».
Come possiamo capire la portata della crisi?
«Attraverso il contesto più ampio, ad esempio con i dati sugli sfollati».
Ci fa un altro esempio?
«A maggio abbiamo pubblicato un documento specifico sul Sudan. Ci sono state rivolte una serie di preoccupazioni riguardo il verificarsi sia atti di sparizione forzata che di atti equivalenti a sparizione forzata. Ciò significa che sia le forze regolari che le Rsf erano accusate di far sparire le persone. Tuttavia, dopo la caduta di El Fasher, le informazioni che abbiamo raccolto indicano che la situazione sul campo è cambiata. Le Rsf ora hanno un controllo più ampio su una parte del territorio e stanno commettendo atti equivalenti a sparizioni forzate per conto proprio e su larga scala. Sappiamo per certo che questo sta accadendo ma non disponiamo di dati esatti e perciò i nostri processi di documentazione non riflettono ancora il numero di sparizioni che si stanno verificando in questo momento».
Avete notato un collegamento tra sparizioni forzate e traffico di oro?
«Le nostre informazioni indicano che molti di questi atti sono spesso collegati. Tuttavia non disponiamo di documentazione specifica sul Sudan. Quest’anno il Gruppo di Lavoro ha prodotto un rapporto sulle sparizioni forzate nel contesto dello sfruttamento del territorio, delle risorse naturali e dell’ambiente con l’obiettivo di evidenziare le interconnessioni tra i due fenomeni. Abbiamo esempi da altri Paesi, ma non possiamo stabilire ufficialmente tale collegamento in Sudan, anche per le difficoltà di accesso. In passato abbiamo cercato di visitare il Paese ma non ci siamo riusciti. Nonostante le molteplici richieste, il governo non ha mai accettato».
Quali sono le prospettive della proposta di pace mediata dagli Usa?
«Senza affrontare le cause profonde di questi conflitti, non raggiungeremo mai una pace sostenibile. E se non si chiede conto ai responsabili delle atrocità commesse e non si rende giustizia alle vittime, allora tali tentativi risulteranno fragili e insostenibili nel lungo periodo. La pace deve andare di pari passo con processi di accertamento delle responsabilità delle violazioni dei diritti umani. Il popolo sudanese merita giustizia».
Eppure quella società civile che guidò la rivoluzione del 2019 oggi è perseguitata.
«La società civile rappresenta un pilastro fondamentale per ogni processo di pace. Non può essere ignorata. Le sue rivendicazioni devono essere prese in considerazione perché parlano a nome delle vittime».
La Corte Internazionale di Giustizia ha dovuto archiviare le accuse di complicità in genocidio contro gli Emirati Arabi. Gli attori esterni possono essere ritenuti responsabili di eventuali crimini di guerra?
«È un aspetto che mi preoccupa molto perché assistiamo a cambiamenti negli attori coinvolti e nella complessità del conflitto in Sudan, mentre la popolazione si ritrova in una situazione sempre più precaria. La molteplicità di violazioni dei diritti umani a cui assistiamo dovrebbe farci da monito».