Il direttore del programma di Emergency in Sudan, Matteo D’Alonzo, a TPI: “Si combatte di casa in casa, persino tra familiari. E anche con i droni”
“In 30 milioni hanno bisogno di assistenza e 12 milioni sono sfollati. La metà sono bambini. Perché dietro i numeri ci sono i singoli”. TPI ha raccolto la testimonianza dal campo dell'ong che continua a operare nonostante la guerra in corso: “Qui le persone vengono sradicate dalla propria terra. Non hanno scelta"
«Il Sudan è un Paese piegato dalla guerra con 30 milioni di persone in necessità di aiuto umanitario e 12 milioni di sfollati interni. Il 50 per cento di questi sono bambini». A raccontarlo direttamente da lì a TPI è Matteo D’Alonzo, direttore del programma di Emergency nel Paese, uno dei più grandi d’Africa dove da due anni e mezzo imperversa la guerra che – nel silenzio quasi generale – sta causando migliaia di civili uccisi, milioni di sfollati e rifugiati all’estero e indicibili atrocità perpetrate per motivi etnici in Darfur.
Lei è sul campo da diverso tempo. Qual è la situazione in Sudan?
«Adesso siamo a due anni e mezzo di guerra. È iniziata il 15 aprile del 2023. La situazione attuale, come riportano anche le Nazioni Unite, è di un Paese piegato dalla guerra con 30 milioni di persone in necessità di aiuto umanitario e 12 milioni di sfollati interni. Il 50 per cento di questi sono bambini. I morti stimati sono 150 mila. Stima molto difficile da fare in un contesto come quello del Sudan, ma questi sono i numeri che abbiamo».
Cos’è cambiato in questi due anni e mezzo di guerra?
«Dipende da zona a zona… La guerra si muove sulla parte centrale e ovest del Paese. Quello che noi abbiamo potuto osservare è che tra marzo e aprile a Khartoum c’è stata una netta differenza. Mi riferisco a quando la città è passata sotto il controllo dell’esercito regolare mentre prima era in mano alle Rapid Support Forces (Rsf). Si tratta di una guerra particolare che mischia un po’ una guerra sia di casa in casa (si vedono soldati in ciabatte e altri vestiti da militari) sia tecnologie come i droni che portano instabilità un po’ in tutto il Paese. Ci sono stati diversi attacchi di droni anche in cittadine che fino a poco tempo fa non erano mai state toccate dalla guerra. Anche a Khartoum, nonostante il fronte si sia spostato di qualche centinaio di chilometri, fino a due settimane fa sono arrivati dei droni con target molto precisi come centrali elettriche, l’aeroporto – che era pronto per essere riaperto – e alcune aree militari».
La proposta di accordo tra le parti mediata dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sta funzionando?
«Per adesso, almeno formalmente, pare ci sia stata un’approvazione da parte delle Rsf (Rapid Support Forces, ndr) però è anche vero che qualche giorno fa era stato dichiarato un cessate il fuoco di tre mesi ma poi il giorno dopo ci sono stati feroci scontri… Sul campo, sinceramente, non vediamo una differenza. Anche sui media non è riportata alcuna notizia ufficiale su una tregua. Ad oggi non c’è una situazione che possa portare ad una pace imminente».
Quali effetti ha avuto la guerra sul fronte e sulla popolazione civile?
«La popolazione sudanese è stanca. È una guerra di quartiere che ha visto anche combattere familiari tra di loro. Noi come operatori sanitari vediamo un aumento di epidemie, casi di malnutrizione che già in Sudan avevano una certa incidenza e ora, vista la situazione, ovviamente sono in aumento…».
Cos’è successo e cosa sta succedendo a El Fasher (Nord Darfur)? Si parla di eccidi indiscriminati e operazioni di pulizia etnica…
«El Fasher è una grande città che si trova nel Darfur ed era sotto il controllo dell’esercito regolare. Dopo la caduta di un mese fa sono iniziate ad arrivare notizie di grandi flussi di migranti verso est. Ad oggi non abbiamo notizie ufficiali da lì. Rsf qualche giorno fa ha dichiarato che permetteranno l’accesso ad organizzazioni internazionali ma ad oggi non abbiamo notizie di via libera ufficiali e concreti. Dalla città sono emersi tanti video, presenti anche su Instagram, dove si vedono tanti civili presi di mira in maniera indiscriminata e, a volte, quasi con piacere. Abbiamo tanti racconti di persone trucidate. Dare dei numeri però è difficilissimo…».
Qual è la situazione sugli altri fronti e nel resto del Paese?
«El Fasher si trova nella parte ovest del Sudan. In quelle zone ci sono diverse battaglie feroci. A volte durano un giorno, altre per diversi giorni finché una delle parti non considera presa la cittadina. Sembra quasi, mi permetta il termine, un “Risiko”: a volte una cittadina passa 2-3 volte di controllo nel giro di un mese. Per El Fasher invece è stato diverso: la città ha vissuto un vero e proprio assedio da tutti i lati che è durato circa 500 giorni. E i civili non avevano modo di scappare, di uscire dalla città».
Come opera Emergency negli ospedali in Sudan?
«Noi non abbiamo mai chiuso. Non abbiamo mai fermato l’attività al Salam Center. Anzi, durante la guerra siamo riusciti ad espandere la nostra attività qui a Khartoum aprendo un centro pediatrico: sia come clinica sia come reparto. Abbiamo aperto anche tre cliniche per la terapia anticoagulante dato che i pazienti cardiochirurgici hanno bisogno di essere seguiti tutta la vita. Poi abbiamo un centro pediatrico a Port Sudan, zona che è stata molto poco trattata dalla guerra. La nostra prossima, speriamo a breve, apertura sarà la riattivazione di un centro pediatrico a sud di Khartoum. Un centro storico che era aperto da 20 anni e poi con lo scoppio della guerra era stato chiuso. Speriamo di riaprirlo a giorni».
In che condizioni vivono i sudanesi sfollati? E i rifugiati scappati all’estero?
«Stime delle Nazioni Uniti danno 12 milioni di sfollati interni e 4 milioni all’estero. Per gli interni ci sono campi profughi più grandi, più piccoli. Ce ne sono diversi nel Darfur, nella zona nord. Le situazioni dipendono dalla gestione dei campi. Noi non ci occupiamo direttamente dei campi profughi. Possiamo riportare che a Port Sudan ci sono diversi campi profughi. All’inizio venivano usate le scuole che quindi sono rimaste chiuse per diverso tempo».
Qual è la situazione degli aiuti? Arrivano? Quali sono i tempi?
«Dipende molto dalle zone. A Port Sudan e Khartoum siamo legati alla burocrazia del Paese. In altre zone, come ad esempio a Nyala, la situazione è totalmente diversa. Un viaggio normale medio da Port Sudan a Nyala dura circa un mese… Senza contare quello che avviene prima: c’è un mese di nave, 1-2 mesi per lo sdoganamento… Poi i costi per il trasporto: lei pensi che per un truck da Port Sudan a Nyala servono 60 mila dollari. Poi ci sono i permessi, la burocrazia…».
L’Europa, e quindi anche l’Italia, stanno facendo qualcosa per risolvere la crisi?
«Su vari canali ufficiali, a parte la presenza delle Nazioni Unite, non c’è niente che fa presagire che l’Europa o l’Italia siano attivi per trovare una soluzione. È una cosa complessa. È un Paese che sembra un po’ fuori dall’orbita europea ma non dimentichiamoci che è uno dei Paesi più importanti per la rotta migratoria africana. Solo il Darfur è grande come la Spagna… Qui passano tanti migranti da tanti Paesi».
Le rotte migratorie sono ancora aperte?
«Difficilissimo dare una risposta. Pare che siano ancora attive anche perché dietro c’è un’economia clandestina. Probabilmente avranno risentito della guerra, ma forse avranno anche trovato il modo per passare».
Cosa possiamo fare noi da qui, dall’Italia, per darvi una mano?
«Sicuramente informarsi. Capire cosa sta succedendo. Non spegnere l’attenzione. Adesso l’attenzione mediatica è più importante ma per settimane e mesi era davvero difficile trovare notizie sul Sudan. Poi, ovviamente, qui è molto difficile sostenersi quindi aiutare Emergency con i mezzi che uno ha fa sempre molto piacere. Ricordatevi sempre che dietro ai numeri ci sono le persone. Dietro ai 30 milioni, ai 12 milioni e così via ci sono singole persone. Ci sono bambini, donne, uomini, famiglie che vogliono rimanere qui ma non hanno la possibilità di farlo. Persone che vengono sradicate dalla loro terra senza scelta. Qui non hanno scelta…».