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A che punto è la guerra al terrorismo lanciata da Bush?

Immagine di copertina
Un'autobomba esplode in Iraq nel 2005. (Credit: Ronald Shaw Jr., U.S. Army)

Dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 il presidente George W. Bush lanciò la guerra al terrorismo. Ecco dove si continua a combattere e quante vite umane è costato questo conflitto ancora in corso

A meno di un mese dall’11 settembre, l’allora presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, annunciò alla nazione l’inizio della “nuova guerra contro il terrorismo”, ma a diciassette anni di distanza a che punto è il conflitto contro il fondamentalismo jihadista sui principali fronti di combattimento: Medio Oriente, Asia centrale e Africa?

Il 7 ottobre 2001, i primi missili statunitensi cominciarono a piovere sulla capitale dell’Afghanistan, Kabul, portando alla caduta del regime dei talebani, che oggi controllano comunque diverse aree del paese e impongono la propria versione della legge islamica a gran parte della popolazione. Nel frattempo, sulle ali delle crisi e delle guerre regionali, la capacità di restare in vita di al-Qaeda e la nascita del sedicente Stato Islamico hanno permesso la diffusione del jihadismo soprattutto in Medio Oriente e Africa.

Come e dove è cambiato lo scenario della “guerra al terrorismo” dopo l’invasione dell’Iraq, l’aumento dell’influenza iraniana nel Grande Medio Oriente, il passaggio alla Casa Bianca del premio Nobel per la pace Barack Obama, le primavere arabe, la morte di Osama bin Laden, la nascita del sedicente Stato Islamico e l’elezione del presidente Donald Trump?

Secondo un rapporto del Watson Institute for International and Public Affairs della Brown University, dall’11 settembre 2001 almeno mezzo milione di persone sono state uccise tra Afghanistan, Iraq e Pakistan. Soltanto in Afghanistan, il numero di vittime ammonta ad almeno 38mila civili, che vanno ad aggiungersi ai 23mila morti in Pakistan.

Afghanistan e Pakistan

La guerra al terrorismo lanciata da Bush in Afghanistan nel 2001 si è inserita in un contesto geopolitico più ampio della risposta statunitense all’attentato dell’11 settembre 2001 da parte di al-Qaeda, quando il gruppo terroristico guidato da Osama bin Laden godeva di protezioni da parte del regime dei talebani e di complicità in Pakistan.

Il confine tra i due paesi asiatici si estende per 2.640 chilometri lungo la cosiddetta linea Durand, che dal XIX secolo delimita il confine tra l’Afghanistan e l’attuale Pakistan, parte allora dell’impero coloniale britannico. Tra i due lati della frontiera vivono realtà tribali omogenee dal punto vista religioso, linguistico, etnografico e sociale. In particolare la comunità Pashtun, da cui provengono la maggior parte dei miliziani talebani, è tagliata in due dal confine. Non è un caso che le aree del Pakistan più colpite dal terrorismo di matrice jihadista siano il Khyber Pakhtunkhwa, nota in precedenza come Provincia della Frontiera del Nord Ovest o “sarhad” in urdu, letteralmente “frontiera”, e la suddivisione delle Aree tribali ad amministrazione federale (FATA), dove la stragrande maggioranza della popolazione è proprio di origine pashtun.

Questa contiguità ha storicamente permesso ai servizi segreti pakistani di sfruttare i legami oltre la frontiera per costruire in Afghanistan una “profondità strategica” in previsione dello scoppio di un conflitto, sempre latente, con la vicina India. Il “Grande Gioco” – come lo definì nel 1829 l’ufficiale britannico Arthur Connolly – che aveva visto protagonista l’impero britannico e quello russo nel Diciannovesimo secolo, che nel Novecento fu sostituito dalla rivalità tra il blocco occidentale filo-statunitense, che appoggiava il Pakistan, e l’Unione Sovietica, cui Nuova Delhi ha sempre guardato con ammirazione, ha portato Washington a finanziare e armare Islamabad, che non ha lesinato aiuti ai gruppi, sempre più di ispirazione fondamentalista islamica, nel vicino Afghanistan, anche grazie all’influenza sul paese delle madrase di ispirazione salafita finanziate dai paesi del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, che fu il primo finanziatore del programma nucleare pakistano. Nel Ventunesimo secolo, il temporaneo tramonto dell’influenza di Mosca in Asia centro-meridionale, l’appoggio sempre più aperto degli Stati Uniti all’India e gli interessi economici cinesi in Pakistan, hanno portato a un cambio della prospettiva occidentale non solo nei confronti di Islamabad, ma anche di Kabul.

Dall’ottobre 2001, il susseguirsi di governi afghani incapaci di prendere il controllo della sicurezza nel paese e di rilanciare l’economia ha giustificato il mancato ritiro delle truppe occidentali, mentre sono stati spesi miliardi di dollari in Afghanistan senza riuscire a incidere sullo sviluppo e sul benessere della popolazione locale.

Secondo due rapporti del Servizio di ricerca del Congresso degli Stati Uniti e della Casa Bianca, dal 2001 al 2018 l’intervento statunitense in Afghanistan è costato 773 miliardi di dollari dedicati alle sole operazioni militari condotte nel paese, senza contare i 243 miliardi di aumento del budget del dipartimento della Difesa e i 54,2 miliardi di aumento del bilancio del dipartimento per i Veterani. In diciassette anni, il numero delle truppe statunitensi in Afghanistan ha raggiunto picchi di quasi 97mila soldati, dieci volte i quasi 9.700 schierati nel 2001. Lo scorso anno, l’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump decise di aumentare la presenza militare nel paese portando i soldati schierati a 14mila, senza però ottenere significativi progressi sul campo. In questo periodo, in Afghanistan, gli Stati Uniti hanno perso almeno 2.400 militari, mentre la coalizione internazionale ha perso in totale almeno 3.547 soldati.

Anche l’Italia ha inviato nel paese i propri militari, nel 2003 infatti le forze armate italiane furono le prime a presidiare alcuni dei settori più a rischio in Afghanistan, con l’invio in seguito di contingenti in aree come Khowst e Herat. Secondo il ministero della Difesa italiano, uno dei paesi della NATO più attivi a livello militare in Afghanistan, il contributo nazionale previsto nel paese dal 1 gennaio 2018 prevede ancora “un impiego massimo di 900 militari, 148 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei, suddivisi tra personale con sede a Kabul, e contingente militare italiano dislocato a Herat” nel contesto del Train Advise Assist Command West (TAAC-W). Nelle scorse settimane, il ministro della Difesa Elisabetta Trenta ha ribadito la volontà del governo di ridurre il contingente italiano che opera in Afghanistan nell’ambito della missione Nato Resolute Support, con il ritiro di almeno 100 dei 200 militari il cui ritorno a casa era già stato previsto dal precedente governo. Secondo il rapporto pubblicato quest’anno dall’Osservatorio sulle spese militari MIL€X, l’Italia ha speso 1,3 milioni di euro al giorno per la guerra in Afghanistan, con un costo totale di 6,5 miliardi di euro spesi a partire dal novembre 2001 per tre diverse operazioni (Enduring Freedom fino al 2006, ISAF fino 2014, Resolute Support dal 2015).

Il conflitto non ha però sortito gli effetti sperati, provocando intanto oltre 2,61 milioni di rifugiati, di cui 1,3 milioni si trova in Pakistan e 900mila in Iran, almeno 1,84 milioni di sfollati interni e oltre 330mila richiedenti asilo in altri paesi, in particolare in Europa. Secondo l’ispettorato generale degli Stati Uniti per la ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR), a luglio il governo del presidente Ashraf Ghani controllava meno del 55,5 per cento dei distretti afghani, il minimo da novembre 2015. Intanto, i talebani sono sempre più vicini alla conquista della provincia di Ghazni, la cui caduta potrebbe tagliare in due il paese, mettendo a serio rischio il controllo di Kabul sul resto dell’Afghanistan. Il sedicente Stato Islamico invece, che si contrappone al movimento legato ad al-Qaeda, è presente in ampie zone al confine con il Pakistan e in altre aree del paese. In questo contesto,sono iniziati questa settimana a Mosca i colloqui diretti tra i rappresentanti dei talebani e quelli della coalizione occidentale impegnata in Afghanistan, presagendo un futuro accordo tra il movimento armato jihadista e il governo di Kabul, mentre il terrorismo non è affatto diminuito nel paese.

Negli ultimi 10 anni, tra il 2007 e il 2017, gli attentati condotti in Afghanistan sono cresciuti da 1.122 a 1.171 all’anno, con picchi di 3.346 attacchi avvenuti nel 2010. Il numero di vittime è cresciuto dalle 1.952 registrate nel 2007 alle 4.672 dello scorso anno. Questi numeri non comprendono le perdite delle forze armate e di sicurezza del paese, i cui numeri sono stati secretati dal governo di Kabul per evitare un calo dei reclutamenti.

Il maggior effetto dell’intervento militare occidentale in Afghanistan è stato probabilmente il cambio del rapporto tra i talebani e il traffico di stupefacenti. Fino al 2001, il movimento armato jihadista ha sempre contrastato la produzione e l’esportazione di oppio, gomma da oppio ed eroina, gestita da reti criminali dedite al traffico di droga con contatti in Europa e Russia. In seguito all’arrivo dei militari occidentali, i talebani hanno cominciato a taglieggiare i contadini e poi a gestire direttamente il traffico di stupefacenti, mettendo così le mani su una delle maggiori fonti di guadagno criminale del pianeta. Secondo le Nazioni Unite, nel 2017, la produzione di papaveri da oppio è aumentata in Afghanistan dell’87 per cento, raggiungendo quattro volte quella del 2002. L’area occupata da queste coltivazioni è aumentata fino a raggiungere il record di 328mila ettari nel 2017, in aumento del 63 per cento rispetto ai 201mila del 2016. Nonostante gli Stati Uniti abbiano speso oltre 8 miliardi di dollari per combattere il traffico di stupefacenti in Afghanistan, dal 2001 il narcotraffico è cresciuto esponenzialmente in tutto il paese. Nel 2018, la Turchia, che si trova sulla rotta che porta l’eroina dall’Afghanistan in Europa, attraverso l’Iran prima e i Balcani poi, ha sequestrato quasi 14 tonnellate di questa sostanza stupefacente, in aumento del 31 per cento rispetto all’anno precedente. Secondo la Direzione centrale per i servizi antidroga (Dcsa), dopo un decennio di calo costante, sono tornate a crescere le morti per overdose in Italia. Nel 2017 il consumo di eroina è infatti aumentato del 9,7 per cento nel nostro paese. Il 20 ottobre ad esempio, la polizia ha fermato al porto di Genova un carico di 268 chilogrammi di eroina partito dall’Iran e proveniente dall’Afghanistan. Secondo la dogana iraniana, i sequestri di droga, non solo eroina, sono cresciuti in Iran dalle 18 tonnellate confiscate nel 2013 alle oltre 154 del 2017, con un aumento del 740 per cento.

Le nuove priorità statunitensi sembrano così concentrarsi sulla lotta al sedicente Stato Islamico, che a differenza dei talebani mira a imporre il cosiddetto califfato in tutti paesi a maggioranza musulmana, e a limitare l’influenza cinese nella regione. Ne è la prova l’eccezione alle sanzioni imposte all’Iran concessa la scorsa settimana dal segretario di Stato degli Stati Uniti Mike Pompeo alle società impegnate nello sviluppo del porto di Chabahar, un progetto sviluppato dall’India in Iran e che collegherà l’Afghanistan al Golfo persico. Chabahar si pone come alternativa diretta al progetto finanziato dalla Cina nel porto pakistano di Gwadar, parte del più ampio corridoio economico sino-pakistano (CPEC), un’iniziativa da 64 miliardi di dollari che mira a collegare l’ovest della Cina al mare Arabico.

Siria e Iraq

La guerra al terrorismo fu allargata nel 2003 all’Iraq dallo stesso presidente Bush, che giustificò il nuovo conflitto affermando che era destinato a neutralizzare le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, mai ritrovate, e a interrompere l’appoggio del dittatore del paese arabo ai gruppi terroristici, un legame mai del tutto provato. Quaranta giorni dopo l’inizio dell’operazione, Bush dichiarò che la missione in Iraq era compiuta, mentre a 15 anni dall’intervento, il paese non si è mai del tutto ripreso, la violenza continua a sconvolgere ampie zone dell’Iraq e il terrorismo di matrice jihadista è cresciuto in tutta l’area, allargandosi anche alla vicina Siria.

Il già citato rapporto del Watson Institute for International and Public Affairs della Brown University afferma che un numero di civili tra i 182mila e 204mila sono stati uccisi in Iraq dall’inizio del conflitto, che non è mai del tutto cessato. Secondo i dati della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Iraq (UNAMI), solo a ottobre, sono stati uccisi nel paese arabo almeno 69 civili, mentre altri 105 sono rimasti feriti in atti di terrorismo o a seguito di scontri armati. La caduta del regime ha determinato lo scoppio delle mai sopite divergenze tra le comunità etnico-religiose del paese, in particolare delle rivalità tra la comunità arabo-sciita, maggioritaria in termini numerici e stanziata nel sud ricco di petrolio, e quella arabo-sunnita, che ha da sempre espresso la maggior parte della classe dirigente del paese. La rivolta di quest’ultima comunità contro l’invasione statunitense portò alla proliferazione del terrorismo soprattutto nelle aree occidentali dell’Iraq. La decisione dell’amministrazione dell’occupazione, guidata allora da Paul Bremer, di sciogliere non solo il partito Baath ma anche quelle formazioni militari e paramilitari come la Guardia repubblicana in cui migliaia di soldati, per lo più arabo-sunniti, avevano servito per decenni, non fece altro che regalare truppe addestrate ed esperte alla rivolta prima e al terrorismo poi.

Nel 2004, la città di Fallujah fu teatro di cruenti scontri tra i ribelli e le forze di occupazione, soprattuto statunitensi. Queste formazioni, spesso finanziate da paesi del Golfo arabo, si avvicinarono sempre più all’ideologia di matrice jihadista. Proprio a Fallujah operava Abu Musab al-Zarqawi, il famigerato terrorista giordano legato ad al-Qaeda che per primo inaugurò la decapitazione degli ostaggi e la diffusione dei cruenti video su internet. Proprio dall’evoluzione dell’organizzazione di Zarqawi nacque nel 2014 il sedicente Stato Islamico, che colse allora l’occasione per attraversare il confine con la Siria, sconvolta dal 2011 da una guerra civile fomentata dagli interessi dei maggiori attori della regione, per costituire a cavallo dei due paesi arabi il cosiddetto Califfato guidato da Abu Bakr al-Baghdadi, il cui consenso raccolto tra larghe fasce della popolazione arabo-sunnita irachena ha trovato la propria giustificazione nella volontà di quella comunità di tagliare i propri legami con il governo di Baghdad, considerato espressione delle istanze della maggioranza sciita e ostile ai propri interessi. La scorsa settimana, l’Onu ha fatto sapere che nella sua ritirata dall’Iraq occidentale, riconquistato in questi ultimi quattro anni soprattutto grazie all’intervento in campo delle milizie sciite filo-iraniane delle Unità di mobilitazione popolare, l’Isis si è lasciato dietro oltre 200 fosse comuni, in cui giacciono i resti di oppositori, membri delle forze di sicurezza irachene e civili di altre confessioni religiose o non sufficientemente ligi ai principi propagandati dal gruppo terroristico.

Anche nel caso dell’Iraq, tralasciando l’influenza del conflitto nella vicina Siria, l’intervento statunitense e della cosiddetta coalizione di volenterosi comprendente il Regno Unito, non ha sortito l’effetto sperato né in termini di lotta al terrorismo né di contenimento dell’influenza iraniana nella regione. Nel 2003, gli Stati Uniti schierarono 150mila militari nel paese arabo, una cifra salita fino a 171mila soldati nel 2007, per poi procedere al ritiro della maggior parte del contingente nel 2011, quando si contavano non più di 45mila militari statunitensi in Iraq. Al momento però, complice l’insurrezione del sedicente Stato Islamico e la situazione in Siria, Washington schiera ancora 5.200 soldati in Iraq. Anche l’Italia ha dato e continua a dare il proprio contributo alla missione in Iraq, anche in termini di vittime. Il 12 novembre 2003 i militari italiani di base a Nassiriya, in Iraq, vennero colpiti da un grave attentato che causò la morte di 28 persone, tra cui dodici carabinieri, cinque militari e due civili italiani: un cooperante e il regista Stefano Rolla. Nel 2006 un nuovo attentato compiuto a Nassirya contro il contingente italiano da parte dell’Esercito islamico in Iraq uccise cinque persone, tra cui tre carabinieri, un paracadutista italiano e un militare rumeno, mentre un terzo attacco avvenuto sempre nel 2006 uccise il caporal maggiore scelto Alessandro Pibiri. I militari italiani, ritirati dal paese arabo nel 2006 alla fine della missione “Antica Babilonia”, sono tuttora presenti in Iraq nell’ambito della “Task Force Praesidium”, schierata a protezione dei lavori e del personale dell’azienda italiana Trevi che sta effettuando la messa in sicurezza della diga di Mosul.

L’intervento internazionale però non ha diminuito il terrorismo in terra irachena, anzi. Secondo un altro rapporto del Watson Institute for International and Public Affairs della Brown University, dal 2003 al 2007 il numero di attentati terroristici compiuti in Iraq è passato da 78 a 204, con oltre 13mila civili uccisi nel 2007. Questo numero è poi calato di oltre l’82 per cento tra il 2008 e il 2012 per tornare a crescere negli anni successivi, con quasi 10mila vittime di attentati terroristici registrate nel 2014 e nel 2016, un numero sceso a “soli” 4.269 morti registrati lo scorso anno.

Inoltre, la caduta del regime di Saddam Hussein ha permesso agli attori regionali di soffiare sul fuoco delle tensioni etniche e religiose, lasciando sempre più spazio nel paese e nella regione all’Iran e mettendo in crisi diverse nazioni dell’area, che hanno dovuto far fronte a un’emergenza profughi senza precedenti. L’ondata di violenza divampata solo a partire dal 2014 tra vari gruppi armati e le forze fedeli al governo di Baghdad ha provocato oltre 5 milioni di sfollati interni in Iraq, di cui circa 1,9 milioni ancora nei campi profughi. La guerra ha costretto almeno 360mila iracheni a rifugiarsi nei paesi vicini, mentre 270mila hanno fatto richiesta di asilo in Occidente. L’Iraq ha inoltre bisogno di 90 miliardi di dollari per la ricostruzione, nonostante il costo dell’intervento statunitense abbia superato dal 2003 la cifra di 1.700 miliardi di dollari, senza contare gli investimenti di Washington nel paese arabo. Secondo un rapporto pubblicato il 12 novembre dall’Agenzia per l’Ambiente delle Nazioni Unite, almeno 6 città irachene del nord ovest sono state completamente distrutte nel solo conflitto contro l’Isis. L’influenza politica iraniana in Iraq è stata poi dimostrata anche alle elezioni del 12 maggio, in cui le due formazioni più votate sono state quella guidata dal religioso sciita Moqtada al-Sadr, leader della coalizione al-Sayiroun, di cui fa parte anche il partito comunista, e l’alleanza Fatah, espressione delle Unità di mobilitazione popolare, le milizie filo-iraniane affiliate all’esercito iracheno. Queste due coalizioni concorrenti ma entrambe con legami con Teheran controllano rispettivamente 54 e 47 seggi al parlamento di Baghdad.

La guerra dichiarata al sedicente Stato Islamico ha poi costretto la coalizione internazionale a guida statunitense a intervenire anche in Siria. Qui, almeno 6,29 milioni di persone, non solo per l’intervento occidentale ma per la guerra civile in corso dal 2011, sono dovute fuggire nei paesi vicini o in Europa. In Siria risultano presenti almeno 2,62 milioni di sfollati interni. La situazione in Siria e in Iraq ha così coinvolto anche altri paesi della regione, come Turchia, Libano e Giordania. Le autorità di Ankara ospitano oltre 3,6 milioni di rifugiati, la maggior parte dei quali siriani e iracheni. Secondo l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), il Libano ospita invece non meno di 900mila rifugiati siriani, mentre la Giordania dà rifugio a 1,3 milioni di cittadini del vicino paese arabo, uno ogni 14 abitanti. Ankara è poi rimasta coinvolta anche nei conflitti in corso in Siria e in Iraq, con ben tre operazioni militari lanciate nei due vicini arabi, specialmente contro i gruppi armati curdi, il cui appoggio ricevuto dall’Occidente minaccia uno dei più antichi obiettivi della politica turca, quello di impedire la nascita di uno stato curdo indipendente all’interno o contiguo ai propri confini. Il deterioramento della situazione delle sicurezza nei due paesi arabi ha certamente favorito l’intervento e l’influenza iraniana, sia sui gruppi armati e politici locali che nei rapporti tra i governi.

Ad agosto, Teheran e Damasco, tradizionalmente alleate, hanno annunciato di aver concluso un accordo di cooperazione militare, mentre il governo siriano ha già firmato diverse intese con l’Iran per dare accesso al regime degli ayatollah al mercato delle telecomunicazioni del paese arabo. Damasco ha poi permesso a Teheran di sviluppare alcune miniere di fosfato nel paese arabo, anche se non è chiaro se gli ayatollah avranno diritti esclusivi o se dovranno condividerli con la Russia. Inoltre, l’Iran ha ottenuto oltre 12mila ettari di terreni in concessione nelle province di Homs e Tartous, che potrebbero essere utilizzati per la costruzione di terminal petroliferi e di gas. L’Iran potrebbe inoltre sviluppare l’agricoltura in Siria, dove molti terreni sono stati abbandonati dai rifugiati durante i sette anni di guerra. Secondo Matthew Brodsky, un analista del Medio Oriente del think-tank statunitense Security Studies Group, i “programmi di ripopolamento” del regime di Bashar al-Assad prevedono di assegnare alcune di queste terre ai membri delle milizie sciite filo-iraniane perché mantengano la propria presenza in Siria. Questi terreni potrebbero in seguito ospitare progetti edilizi sviluppati da compagnie iraniane.

L’intervento in Siria e la vicinanza alle maggiori formazioni politiche dell’Iraq, ha concesso così all’Iran di aumentare la propria influenza su entrambi i paesi arabi. Questo dividendo politico raccolto da Teheran va inserito nei costi sostenuti dall’Occidente per la lotta al terrorismo in Iraq e Siria, perché conseguente a quanto accaduto a Baghdad prima nel 2003 e a Damasco poi nel 2011. Un rapporto pubblicato il 9 ottobre da un gruppo di lavoro sull’Iran del dipartimento di Stato degli Stati Uniti rivela che dal 2012 a oggi, Teheran ha speso oltre 16 miliardi di dollari per finanziare milizie e governi alleati impegnati nelle guerre in Iraq, Siria, Libano, Palestina e Yemen. I fondi destinati alle formazioni siriane e irachene hanno sostenuto in massima parte gruppi nati solo dopo l’intervento occidentale in Iraq.

L’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump ha ribaltato la linea interlocutoria del suo predecessore Barack Obama nei confronti di Teheran, con cui Stati Uniti, Unione europea, Russia, Cina, Francia, Regno Unito e Germania avevano concluso nel 2015 un accordo sul programma nucleare. Il ritiro di Washington dal trattato e la re-imposizione di nuove sanzioni contro Teheran da parte di Trump ha inasprito il confronto in Medio Oriente con il regime degli ayatollah, con l’effetto di dividere la regione, dal punto di vista dell’amministrazione statunitense, in governi vicini e ostili a Teheran.

Alla luce di questo contesto, l’appoggio militare di Washington alle Forze democratiche siriane (SDF), le milizie curdo-arabe finanziate dall’Occidente per la lotta all’Isis, assume un carattere diverso da quello della mera lotta al terrorismo. Questa formazione controlla il 28% del territorio siriano, il che la rende la seconda forza militare nel paese arabo dopo il regime di Damasco, che controlla oltre il 60 per cento della Siria, soprattutto attraverso l’appoggio delle truppe russe e delle milizie filo-iraniane. A ottobre, il segretario alla Difesa statunitense James Mattis ha annunciato un aumento dei “consulenti” degli Stati Uniti in Siria. A fine settembre, l’inviato speciale degli Stati Uniti nel paese, James Jeffrey, aveva detto che le forze armate di Washington sarebbero rimaste in Siria fino a quando tutte le forze iraniane o finanziate da Teheran non si fossero ritirate. Negli scorsi mesi, lo stesso Mattis aveva annunciato che il ritiro delle forze di Washington dal paese sarebbe avvenuto solo dopo “ulteriori progressi diplomatici verso una pace negoziata dalle Nazioni Unite a Ginevra”, che deponesse il presidente Bashar al-Assad. A marzo invece, il presidente Donald Trump aveva detto che gli oltre 2.000 militari statunitensi presenti nel paese arabo sarebbero tornati a casa “molto presto”.

Africa occidentale e Sahel

L’atteggiamento statunitense nei confronti del terrorismo di matrice jihadista non è cambiato soltanto sullo scacchiere mediorientale. L’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump è infatti coinciso con un sempre maggiore impegno militare di Washington in Africa, in particolare nel Sahel. Nel 2017, almeno 343 attacchi terroristici sono stati segnalati in Africa, in cui sono state uccise oltre 2.600 persone. Nel continente operano diversi gruppi di matrice jihadista, dal Sahel, all’Africa centrale, fino al Mozambico. Negli ultimi anni l’Africa occidentale è stata l’area del pianeta che ha visto la maggiore crescita di truppe di paesi occidentali, grazie soprattutto all’aumento degli attentati terroristici e del traffico di esseri umani nel Sahel.

Nell’area del lago Ciad opera in particolare il gruppo terroristico Boko Haram, che dal 2009 ha provocato la morte di oltre 30mila persone e costretto più di 2,7 milioni di residenti tra Camerun, Ciad, Nigeria e Niger, ad abbandonare le proprie case. Nel 2016, il gruppo si è diviso in due fazioni, una guidata dal leader storico Abubakar Shekau, e l’altra, conosciuta come “Stato Islamico in Africa occidentale”, da Abu Musab al-Barnawi, che ha giurato fedeltà all’Isis.

Tra marzo e aprile 2012 invece, alcuni gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda avevano ottenuto il controllo del Mali settentrionale, prima che di essere scacciati dall’intervento militare internazionale a guida francese lanciato nel gennaio 2013 e tuttora in corso, denominato “operazione Barkhane”, che impiega almeno 4.000 soldati d’Oltralpe nel paese africano, dove sono presenti anche la missione di addestramento dell’Unione europea (EUTM), che schiera in Mali 600 militari di diversi paesi europei, e la missione di pace delle Nazioni Unite (MINUSMA), composta da oltre 13mila militari provenienti anche da Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Italia, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Romania, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti.

Inoltre, almeno 1.200 militari statunitensi assegnati alle operazioni speciali sono di stanza in Africa sui 7.300 sparsi per il mondo. A giugno, il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha deciso di diminuire del 50 per cento la presenza delle forze speciali nel continente, ma non nel Sahel. Secondo Radio France Internationale, alcuni funzionari statunitensi accusano l’amministrazione Trump di voler sminuire la portata del proprio impegno militare in Africa per non dover chiedere l’autorizzazione all’intervento militare da parte del Congresso. In particolare, il Pentagono ha fatto sapere di voler mantenere una significativa presenza in Niger, dov’è stata recentemente costruita la seconda base militare statunitense in Africa, che ospita soprattutto squadre di droni armati. In questo paese, il 4 ottobre 2017 hanno perso la vita 4 berretti verdi statunitensi, uccisi in un’imboscata condotta da 50 miliziani jihadisti nei pressi del villaggio di Tongo Tongo, vicino al confine con il Mali, in quello che è stato il più sanguinoso attentato condotto contro le forze statunitensi da quando il presidente Donald Trump è salito al potere.

Il Niger vede la presenza sul proprio suolo di truppe francesi, statunitensi, britanniche e tedesche. Proprio Berlino ha inaugurato domenica una nuova base militare a Niamey, che ospiterà 40 soldati, mentre il 17 gennaio, il parlamento italiano ha approvato il dispiegamento della missione “di supporto nella Repubblica del Niger”, che secondo il ministero della Difesa è “non combat ma di addestramento”. Questo intervento, finanziato solo fino a settembre, prevedeva lo schieramento di un contingente di 120 uomini nel primo semestre di quest’anno per poi raggiungere il numero massimo di 470 militari entro fine 2018, non impiegati però contemporaneamente ma a rotazione, con unità dispiegate anche nel porto di Cotonou, in Benin, e in Mauritania. La media annuale avrebbe dovuto essere di 250 soldati, una parte dei quali sarebbe stata dispiegata nel forte Madama, nel nord del paese africano, non lontano dal confine con la Libia, da dove passano migliaia di migranti diretti in Europa. A settembre, il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha confermato il lancio della missione, mai andata finora oltre alcune visite esplorative sul campo.

Se Boko Haram resta una minaccia per il bacino del lago Ciad, al confine tra Mali, Algeria e Niger operano invece principalmente due gruppi: il sedicente “Stato islamico nel Grande Sahara” (EIGS), che ha giurato fedeltà all’Isis e che è guidato da Abu Adnan Walid Sahraoui, un uomo originario del Sahara Occidentale, ma cresciuto in Algeria; e il “Gruppo per l’affermazione dell’islam e dei musulmani” (GSIM), noto in arabo come Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin, considerato il ramo ufficiale di al-Qaeda in Mali, guidato dal cittadino maliano di etnia touareg Iyad Ag Ghali. Alla fine dello scorso anno, queste formazioni hanno raggiunto un accordo che mira a contrastare l’azione delle truppe francesi, della forza anti-terrorismo del G-5 du Sahel, che riunisce gli eserciti di Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, e la missione MINUSMA, e prevede che i due gruppi conducano operazioni terroristiche congiunte, pur mantenendo ognuno la propria identità e struttura di comando. Ai due gruppi si starebbero unendo decine di combattenti provenienti da Libia e Siria, arrivati per unirsi ai ranghi delle formazioni già operative nel Sahel.

Un altro paese vittima del terrorismo di matrice jihadista è il Burkina Faso, la cui regione orientale, al confine con il Benin, il Niger e il Togo, è stata bersaglio di diversi attentati e omicidi negli ultimi mesi. Negli scorsi anni invece, la quasi totalità degli attacchi avveniva nella provincia di Soum, nel nord del paese africano, al confine con il Mali. Almeno 20 militari e altrettanti civili sono morti nell’est del paese africano a seguito di diversi attacchi condotti nella seconda metà dell’anno, mentre nel 2018 almeno 70 civili e 48 membri dei servizi di sicurezza sono stati uccisi in Burkina Faso da attentati jihadisti.

Il terrorismo jihadista è poi ancora presente anche in Somalia, in Africa orientale, dove il gruppo al-Shabaab, legato ad al-Qaeda, controlla ancora vaste porzioni di territorio nonostante l’intervento della missione militare dell’Unione africana (Amisom). Nel 2018, il Comando dell’esercito statunitense in Africa (AFRICOM) ha condotto una ventina di raid aerei nel paese, in cui sono rimasti uccisi in totale oltre 100 miliziani del gruppo terroristico. L’anno scorso, gli Stati Uniti hanno effettuato 35 attacchi aerei con droni armati in Somalia. Secondo il Bureau of Investigative Journalism, un’organizzazione che si occupa dei raid delle forze armate degli Stati Uniti in tutto il mondo, l’esercito statunitense ha ucciso oltre 700 cittadini somali e ne ha feriti almeno 60 dal 2007, quando ha cominciato le proprie operazioni nel paese africano.

Quante vittime ha fatto il terrorismo?

Nel 2018 sono state almeno oltre 8.350 le vittime del terrorismo in tutto il mondo, morte in 1.347 attentati. Secondo i dati del Jane’s Terrorism and Insurgency Center, lo scorso anno gli attacchi sono stati invece 22.487 e i morti 18.487, in calo del 33% rispetto al 2016 e in forte diminuzione rispetto alle quasi cinquantamila vittime (48.786) registrate nel 2014.

Secondo il portale Ourworldindata, che raccoglie i dati forniti dal Global Terrorism Database (GTD) dell’università del Maryland, aggiornati al 2016, i morti per terrorismo sono aumentati dai 7.743 del 2001, uccisi in 1.907 attentati compiuti in tutto il mondo, ai 34.676 di due anni fa, morti in 13.488 attacchi.

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