La rivolta mondiale della Generazione Z: quando i giovani riscoprono la politica in piazza
Non è solo questione di social o hashtag. Dal Sud globale alle metropoli del Nord esplode la protesta contro corruzione, precarietà e disuguaglianze. Così emerge una nuova grammatica della mobilitazione, che mette insieme rabbia e creatività, capacità di resilienza e senso di comunità
Nell’estate del 2025, quando il governo nepalese ha deciso di bloccare Facebook e altri social media, a Kathmandu si è aperto un fronte inatteso. Doveva essere un atto di controllo del dissenso digitale, si è trasformato invece nella miccia della più grande mobilitazione giovanile degli ultimi decenni. Migliaia di ragazzi e ragazze, cresciuti in un Paese dove il futuro sembra appannaggio di pochi, sono scesi in strada contro la corruzione, la disoccupazione e le disuguaglianze. Hanno aggirato i blocchi con VPN e applicazioni alternative, trasformando un divieto tecnologico in una rivendicazione politica più ampia, che parlava di libertà, diritti e giustizia sociale. Gli scontri con la polizia hanno lasciato almeno diciannove morti e centinaia di feriti: un bilancio drammatico, che ha segnato la distanza tra un governo incapace di ascoltare e una generazione connessa, determinata, pronta a pagare un prezzo altissimo pur di farsi sentire.
Quello che è accaduto in Nepal non è stato un episodio isolato. È soltanto uno dei tanti tasselli di una mappa globale che, da due anni a questa parte, si popola con impressionante regolarità di cortei, assemblee, flash mob, occupazioni universitarie e mobilitazioni di piazza. Dall’America Latina al Sud-est asiatico fino al Nord Africa, i giovani hanno deciso di uscire dall’angolo e di alzare la voce. Le loro rivendicazioni cambiano da Paese a Paese, ma il linguaggio è simile: giustizia sociale, dignità, lavoro, trasparenza, diritti civili. Al centro, sempre più chiaramente, c’è la consapevolezza di appartenere a una generazione esclusa dalla ricchezza, condannata alla precarietà e all’incertezza. Anche se avvenute a migliaia di chilometri di distanza, le proteste antigovernative hanno un denominatore comune: sono guidate dalla generazione dei nati tra il 1997 e il 2012 e rivendicano spesso cose simili tra loro — la fine della corruzione, migliori condizioni di vita, più diritti, e soprattutto una reale redistribuzione delle opportunità.
Un linguaggio nuovo
Il tratto distintivo di queste mobilitazioni è il modo in cui si organizzano e comunicano. Ciò che in passato richiedeva settimane di preparazione oggi prende forma in poche ore. Un episodio percepito come ingiusto, uno slogan diventato virale, un hashtag semplice e replicabile: è sufficiente questo perché una protesta locale si trasformi in movimento nazionale. La comunicazione è visiva, rapida, spesso ironica: un meme vale più di un comizio, un video di trenta secondi su TikTok spiega meglio di un editoriale le ragioni della rabbia — una rabbia che nasce da anni di esclusione e promesse mancate. La struttura è orizzontale, senza leader riconosciuti, distribuita tra gruppi WhatsApp, canali Telegram, dirette Instagram. Questa assenza di gerarchia rende più difficile reprimere i movimenti: non c’è un capo da arrestare o un partito da sciogliere. Ma solleva anche una domanda cruciale: come trasformare un’esplosione di piazza in una forza politica duratura, capace di incidere sulle istituzioni?
A Nairobi fu il fisco
Un primo assaggio di questa dinamica si è visto in Kenya. Nel giugno del 2024, il governo di William Ruto ha presentato una legge finanziaria che aumentava le tasse su beni e servizi essenziali, colpendo soprattutto i giovani e le fasce popolari già impoverite dall’inflazione. La reazione è stata immediata: studenti e giovani lavoratori sono scesi in strada, organizzati quasi interamente online, e in poche settimane la mobilitazione ha raggiunto l’apice con l’assalto al Parlamento di Nairobi. La repressione è stata durissima, con decine di morti e centinaia di feriti. La pressione, però, ha funzionato: il presidente è stato costretto a ritirare le misure più controverse. Per la prima volta la cosiddetta “Gen Z Revolution” ha piegato un governo. Eppure le cause strutturali — disoccupazione, salari bassi, corruzione, diseguaglianze sociali — sono rimaste irrisolte, e un anno dopo le proteste sono riesplose con la stessa forza. Il Kenya dimostra che la protesta orizzontale può conquistare vittorie immediate, ma rischia di tornare ciclicamente se i nodi di fondo — l’esclusione e la povertà — non vengono affrontati.
Buenos Aires: atenei in trincea
In Argentina, nello stesso anno, la battaglia si è giocata su un terreno diverso: quello dell’istruzione. Nell’aprile del 2024, centinaia di migliaia di studenti e docenti hanno invaso Buenos Aires e le principali città per opporsi ai tagli del presidente Javier Milei. È stata la più grande mobilitazione contro la sua agenda di austerità, e le piazze si sono trasformate in lezioni pubbliche, assemblee e occupazioni simboliche. La protesta non si è fermata e nel 2025 è tornata con forza, a dimostrazione che il finanziamento dell’università pubblica resta un tema identitario. Per i giovani argentini non si tratta solo di difendere un settore, ma di salvaguardare un modello di Paese in cui l’istruzione pubblica ha garantito per decenni mobilità sociale e ascensore economico. Oggi quella scala si è spezzata, e molti sentono di non avere più un posto nel futuro.
Come racconta a TPI Cata Escardó, studentessa argentina, «ci spinge soprattutto la consapevolezza delle differenze — dal femminismo alla questione ambientale — e la necessità di garantire un futuro migliore. In Argentina difendere l’università pubblica significa difendere un modello di Paese». Helios, studente di Architettura a Buenos Aires, aggiunge: «Negli ultimi mesi abbiamo visto professori costretti a lasciare il lavoro perché lo stipendio non basta più, metà degli ascensori non funziona, perfino le luci dei corridoi vengono spente. Le lezioni in strada e in Plaza de Mayo sono state il nostro modo di dire che l’università è un bene comune, e che non vogliamo diventare una generazione di esclusi».
Rabat: altro che stadi
Il Marocco sta vivendo in queste settimane un’ondata di proteste giovanili. A Rabat, Casablanca, Oujda e Agadir migliaia di ragazzi scendono in piazza contro la crisi dei servizi pubblici, soprattutto sanità e istruzione, messi a confronto con gli investimenti miliardari negli stadi e nelle infrastrutture dei Mondiali del 2030. La scintilla è stata la morte di otto donne in un ospedale di Agadir, diventata il simbolo di un sistema sanitario allo stremo. La mobilitazione, coordinata dalla rete “Gen Z 212”, denuncia le priorità di spesa del governo e una disoccupazione giovanile che continua a crescere. Gli slogan “libertà, dignità, giustizia sociale” richiamano la stagione delle primavere arabe, ma oggi risuonano come il grido di una generazione che si sente tradita dal patto sociale.
Gli studenti a Jakarta
Anche in Indonesia le piazze si sono accese più volte nel 2025. A febbraio, cortei studenteschi a Jakarta, Yogyakarta e Medan hanno denunciato i tagli al bilancio e la crescente influenza dei militari. Ad agosto, la rivelazione dei maxi-indennizzi mensili ai parlamentari, in un Paese dove i costi della vita sono alle stelle, ha fatto esplodere la rabbia. Migliaia di studenti hanno cercato di raggiungere il Parlamento e sono stati dispersi con gas lacrimogeni. Quelle manifestazioni non sono state un episodio isolato, ma parte di una tendenza crescente: i giovani indonesiani non tollerano più i privilegi della classe politica e chiedono trasparenza, riforme istituzionali e limiti al potere militare.
Il risveglio di Manila
A Manila e in altre città filippine, nel settembre del 2025, si sono svolte le più massicce manifestazioni anti-corruzione degli ultimi anni. Lo scandalo che ha fatto da detonatore riguardava i progetti di controllo delle inondazioni: appalti sospetti, opere incompiute e costi gonfiati. Il 21 settembre, migliaia di studenti e attivisti hanno marciato lungo EDSA e nel parco Rizal, con il corteo battezzato “Baha sa Luneta”, evocando la memoria storica della rivoluzione popolare. I manifestanti invocano un “cambiamento radicale”, responsabilità e trasparenza. Il governo ha promesso inchieste e riforme, ma molti giovani restano scettici: temono che la corruzione continui a essere trattata come emergenza episodica, senza affrontarne le radici. La loro protesta nasce da un sentimento più profondo: la percezione di vivere in una società dove pochi prosperano mentre la maggioranza arranca tra inflazione, precarietà e assenza di prospettive.
L’acqua di Antananarivo
In Madagascar le proteste giovanili sono esplose nell’autunno del 2025. A Antananarivo e in altre città migliaia di ragazzi chiedono acqua, elettricità e dignità. La crisi dei servizi idrici ed energetici era nota da mesi, ma quando i giovani hanno occupato le piazze la protesta è diventata nazionale.
Il presidente Rajoelina ha sciolto il governo nel tentativo di calmare le piazze, ma la mobilitazione non si è fermata. Coprifuoco, gas lacrimogeni e arresti non hanno spento le rivendicazioni, che ormai comprendono la richiesta di rinnovamento della classe politica e nuove elezioni. Qui la rabbia nasce dalla vita quotidiana: intere famiglie senza luce o acqua per giorni, giovani costretti a emigrare o a sopravvivere di lavori informali. È la povertà strutturale, più che l’ideologia, a portare in strada la nuova generazione.
Rabbia e pensioni a Lima
In Perù, da settembre 2025, il fermento giovanile si è espresso con proteste diffuse nelle principali città, a partire da Lima. La riforma pensionistica approvata dal governo di Dina Boluarte, che imponeva l’iscrizione obbligatoria a un fondo anche agli under 25, ha acceso la miccia in un contesto segnato da precarietà e lavoro informale. Le manifestazioni, durate settimane, si sono allargate a rivendicazioni più ampie: contro la corruzione, la violenza, l’instabilità politica. Alcuni leader giovanili hanno adottato simboli della cultura pop, come il teschio col cappello di paglia preso da un manga, per rafforzare l’identità del movimento. Per molti ragazzi peruviani, non si tratta solo di una legge iniqua, ma del rifiuto di uno Stato percepito come distante e inaffidabile — un sistema che garantisce pensioni e privilegi ai pochi, mentre nega futuro ai molti.
Oltre lo stereotipo dei “like”
Non bisogna cadere nello stereotipo di un movimento effimero o guidato soltanto da emozioni. La competenza digitale della Generazione Z non è soltanto uno strumento organizzativo, ma è diventata uno spazio politico in sé. Le reti sociali non si limitano a convocare manifestazioni, ma producono memoria collettiva, costruiscono archivi di video e testimonianze, diffondono guide legali, raccolgono fondi per i feriti e le famiglie. È un’attività politica quotidiana che nasce da una condizione condivisa: quella di essere una generazione che ha meno di quanto avevano i propri genitori, e che non accetta più di essere lasciata indietro. Il vero nodo resta la rappresentanza. Finché le proteste restano liquide, senza tradursi in forme di mediazione stabile, rischiano di ripetersi senza sbocchi. Eppure la forza di questa generazione è evidente. A Nairobi hanno costretto un presidente a cambiare rotta, a Buenos Aires hanno portato centinaia di migliaia di persone in strada, a Rabat stanno facendo vacillare la narrazione dei grandi eventi come soluzione a ogni problema, a Kathmandu hanno trasformato un blackout dei social in un boomerang per il potere. Quello che emerge è una nuova grammatica della mobilitazione, che mette insieme rabbia e creatività, capacità di resilienza e un forte senso di comunità. In ogni latitudine i giovani partono da rivendicazioni concrete — il prezzo del pane, le tasse universitarie, la sanità pubblica, l’acqua — ma finiscono per aprire domande più radicali: perché pochi hanno tutto e molti non hanno nulla? Quale futuro, quale modello di società, quale ruolo dello Stato? Non a caso, come dice la studentessa argentina Cata Escardó, «non abbiamo prospettiva di futuro: il pianeta sta morendo, il capitalismo esaspera le disuguaglianze ed è sempre più difficile trovare un lavoro dignitoso. Nessuno sa darci risposte».
Eppure dentro questo pessimismo si intravede una certezza: la Generazione Z non accetta più che diritti fondamentali vengano messi in discussione. Forse proprio qui sta la vera novità: non tanto nella capacità di far tremare governi o di imporre un hashtag, ma nella definizione di un confine etico condiviso, che attraversa culture e continenti. Una linea rossa tracciata dai giovani, gli eredi senza eredità, che ricordano agli adulti e ai politici che esistono diritti che non possono essere barattati con il bilancio statale o sacrificati sull’altare della crescita. È questo, oggi, il messaggio globale della Generazione Z.