L’età della grande paralisi globale: ecco perché nessuno può sfidare il duopolio di Usa e Cina
Economie ingolfate, guerre ingestibili, cali di popolazione e rivoluzioni tecnologiche a metà. Nessuna potenza emergente riesce a competere con Washington e Pechino che, a colpi di incentivi e coercizioni, stringono la morsa sul resto del mondo. Così tutti gli altri, Europa compresa, non possono far altro che adeguarsi (e schierarsi). Eppure cresce la conflittualità
Un paradosso affligge l’attuale situazione politica mondiale. Per la prima volta in almeno tre secoli, nessuna potenza emergente pare davvero capace di sovvertire gli equilibri internazionali. Eppure questa mancanza di concorrenza non porta stabilità. Al contrario, la competizione bipolare tra le ultime superpotenze rimaste, Stati Uniti e Cina, si fa sempre più aspra mentre il resto del mondo, Europa in testa, non può far altro che adeguarsi. Una configurazione inedita che inaugura una nuova era di paralisi dei rapporti globali in un contesto di crescente disordine mondiale.
Motori inceppati
Scorrendo le notizie dall’estero, la politica internazionale sembra tutt’altro che paralizzata ma i numeri non mentono. Il politologo statunitense Michael Beckley l’ha chiamato «ordine stagnante» e ha spiegato il perché su Foreign Affairs. Oltre 250 anni fa, la Rivoluzione industriale liberò l’umanità dalla trappola malthusiana: fino ad allora, ogni incremento di ricchezza veniva divorato dalla crescita demografica. Ma dalla metà del Settecento in poi, ricchezza, popolazione e potenza militare crebbero insieme, alimentandosi a vicenda e permettendo a una manciata di Stati di accumulare potere e trasformarsi progressivamente in potenze prima economiche e poi coloniali. Tre fattori rendevano possibile tutto questo: tecnologie che moltiplicavano la produttività, popolazioni in crescita che fornivano lavoratori e soldati, e la possibilità concreta di conquistare territori. Ma oggi questi tre motori si sono inceppati.
Per ora la rivoluzione digitale con smartphone e intelligenza artificiale ha cambiato poco più del nostro stile di vita. Dal primo volo a Kitty Hawk allo sbarco sulla Luna passarono appena 66 anni ma da allora auto e aerei si muovono ancora a velocità novecentesche. I combustibili fossili forniscono oltre l’80% dell’approvvigionamento globale, malgrado i miliardi investiti e i progressi raggiunti dalle fonti rinnovabili. L’IA è formidabile nel digitale ma non può gestire un reparto ospedaliero né la cucina di un ristorante. D’altronde, secondo l’ultimo sondaggio globale di McKinsey nel settore, quasi l’80% delle aziende che utilizzano l’intelligenza artificiale generativa non ha ancora registrato alcun vantaggio in termini di profitti. I veri colli di bottiglia dell’economia infatti restano fisici e sociali e lì le macchine arrancano.
Gli effetti del collasso demografico sono persino peggiori. Quasi due terzi dell’umanità vive in Paesi dove non nascono abbastanza bambini per rimpiazzare i deceduti. Le grandi economie industrializzate perdono centinaia di migliaia di abitanti ogni anno. Persino la Cina, nei prossimi 25 anni, avrà 240 milioni di lavoratori in meno, più di tutta la forza lavoro dell’Unione europea, “guadagnando” 178 milioni di pensionati. Nel 2050 ogni anziano cinese sarà “mantenuto” solo da due lavoratori, nel 2000 erano dieci. Il Giappone ne perderà 18 milioni nello stesso periodo, la Russia 11, Italia e Brasile 10 ciascuno e la Germania 8. Per due secoli le potenze emergenti hanno cavalcato un’onda demografica in crescita, oggi invece contano i nuovi pensionati. Non era mai successo prima.
Anche le conquiste territoriali si sono fatte impraticabili e non solo per mancanza di truppe. La decolonizzazione ha moltiplicato il numero di Stati da gestire (da meno di cinquanta del 1900 ai quasi 200 di oggi) e la diffusione delle tecnologie ha reso le occupazioni prolungate un incubo. Nell’ultimo secolo oltre 160 interventi militari su suolo straniero si sono trasformati in guerre di logoramento con insurrezioni locali e milioni di vittime. Fucili economici, mortai e lanciagranate bastano per trasformare qualsiasi villaggio o giungla in una trappola mortale e persino gruppi paramilitari, come le Rsf in Sudan o gli Houthi in Yemen, hanno ormai accesso a droni tanto sofisticati da sconfiggere eserciti dotati di armamenti pesanti e possono bloccare rotte fondamentali. Gli ordigni atomici poi hanno elevato il prezzo della guerra contro le potenze nucleari a livelli da fine del mondo. Inoltre il valore aggiunto delle risorse acquisite con la conquista di nuovo territorio potrebbe non giustificare i costi dell’intervento: miniere, porti e campi agricoli non possono competere con beni immateriali quali brevetti, software e marchi, che costituiscono il 90% del valore delle grandi aziende dei settori industriali strategici. D’altra parte non serve schierare i carri armati per saccheggiare un algoritmo.
Illusione multipolare
Questo non vuol dire che la conflittualità si attenuerà. Al contrario, la militarizzazione figlia del declino di potenza potrebbe spingere alcuni di questi Paesi a riconquistare il terreno perduto per mantenere il proprio status nel novero dei grandi o anche solo dei pesi medi del mondo. È già successo con la Russia in Ucraina e, in misura minore, tra Thailandia e Cambogia ma potrebbe ripetersi ancora. Per molti potrebbe apparire preferibile accaparrarsi nuove risorse e far risorgere vecchie pulsioni imperialistiche piuttosto che ammettere un destino da amministratori del tramonto.
All’inizio degli anni 2000, lo scrittore statunitense Fareed Zakaria profetizzava la «ascesa degli altri» in un «mondo post-americano». D’altronde mentre gli Usa erano impegnati in due delle tre guerre più lunghe della loro storia e dovevano fare i conti con la peggior crisi economica dai tempi della Grande Depressione, nel primo decennio del nuovo millennio i Pil di Cina e Russia misurati in dollari quadruplicarono, quelli di Brasile e India raddoppiarono e anche la Germania cresceva. Dieci anni dopo però quella tendenza si invertì: Brasile e Giappone persero metà del potere d’acquisto rispetto agli Usa; Canada, Francia, Italia e Russia un terzo; Germania e Regno Unito un quarto; mentre solo Cina e India continuavano a crescere. Poi arrivò la pandemia di Covid-19 e allora Pechino, Tokyo, Berlino, Parigi, Londra, Roma e Mosca videro crollare i propri indici di crescita, solo New Delhi resiste ancora.
Ma i più poveri non se la passano bene. Molti Paesi godono infatti dei benefici sanitari della modernità quali aspettative di vita più lunghe e mortalità infantile ridotta ma non riescono ad industrializzarsi davvero, anche perché la manifattura è sempre più automatizzata. Così i ritardatari restano incastrati in produzioni a basso valore, finendo al più per assemblare prodotti o esportare materie prime, se non per raccogliere le briciole dell’esternalizzazione dei servizi digitali. Basti pensare che quasi 3,3 miliardi di persone vivono in Paesi dove gli interessi sul debito superano gli investimenti in sanità e istruzione; l’Africa subsahariana ha ancora solo l’11,5% della propria forza lavoro impiegata nell’industria, praticamente come 30 anni fa; e un terzo degli Stati africani è coinvolto in conflitti attivi. Non a caso negli ultimi 10 anni il Pil complessivo di Africa, America Latina, Asia occidentale e meridionale e Sud-est asiatico è sceso da quasi il 90% al 70% del Pil degli Usa.
Oggi potenze come India, Russia, Turchia, Messico, Germania, Israele, Brasile, Sudafrica e Giappone hanno grande rilevanza per i rispettivi contesti regionali ma non superano la “soglia critica” che potrebbe metterle in competizione con Washington e Pechino. Anche in questo caso i calcoli li ha fatti la professoressa statunitense Jennifer M. Lind del Dartmouth College su Foreign Affairs, descrivendo “Il Miraggio Multipolare”. Assumendo come parametri di successo il rapporto tra il Pil “locale” e quello dello Stato-leader (gli Usa oggi, l’Impero britannico nel XIX secolo) e un indice composito che moltiplica il Pil per il Pil pro capite e applicandoli a un elenco di grandi potenze a partire dal 1820, Lind ha “scoperto” che nessun Paese ha un potenziale paragonabile a Washington e Pechino. Così il mondo si è cristallizzato in una forma bipolare: da una parte gli Usa e dall’altra la Cina e nessun altro capace di sfidarne il dominio mentre entrambe, a colpi di incentivi o coercizioni, cercano di allontanare gli altri dal proprio rivale. Esemplari sono le trattative con la Russia sull’Ucraina, l’aiuto di Cina e India a Mosca per aggirare le sanzioni e le tensioni tra Usa e Venezuela.
Confronto bipolare
Sebbene sia tornata di moda la “trappola di Tucidide” con il paragone tra la Cina considerata un’Atene in ascesa e gli Stati Uniti una Sparta minacciata, i dati raccontano un’altra storia. A confronto con la Guerra fredda, oggi la Repubblica popolare è ben più potente di quanto non fosse l’Unione sovietica al suo apice, eppure fa molta meno paura perché non propone il proprio sistema come modello da seguire.
Al massimo l’Urss raggiunse il 44% del Pil statunitense, oggi quello di Pechino rappresenta il 130% dell’equivalente americano. Mosca tenne in scacco Washington per tre decenni, minacciandone l’egemonia europea e reprimendo rivoluzioni nell’Est del continente, gestendo reti di spionaggio planetarie, armando insurrezioni anti-capitalistiche in mezzo mondo e arrivando più volte sull’orlo della guerra nucleare ma alla fine implose economicamente e politicamente, spendendo in armi quanto gli Usa fino al 1970. La Cina investe molto meno nel militare ma produce un terzo dei beni mondiali, sforna più navi, auto elettriche, pannelli solari, chip e farmaci di tutti gli altri Paesi messi insieme. Hub industriali come Shenzhen e Hefei possono passare da un prototipo alla produzione di massa nel giro di giorni mentre il Paese può inondare i mercati per strangolare i concorrenti (come con i pannelli solari) e produrre o estrarre beni strategici, dai droni alle terre rare, più velocemente di chiunque. Ma non è tutto oro quello che luccica.
Dal 2008 Pechino ha creato 30mila miliardi di dollari di nuovi crediti bancari e molto di questo denaro è finito in appartamenti invenduti, fabbriche in perdita e prestiti inesigibili. La crisi immobiliare ha messo a rischio 18mila miliardi di risparmi cinesi dal 2020 e i prezzi sono in calo da nove trimestri di fila. Malgrado la Repubblica popolare sia stata capace di far uscire oltre 800 milioni di persone dalla povertà estrema, solo un terzo della popolazione (mezzo miliardo di cinesi) appartiene alla classe media. La stessa percentuale di lavoratori ha finito le scuole superiori, il livello più basso tra i Paesi a medio reddito. Quando Corea del Sud e Taiwan raggiunsero l’attuale ricchezza pro-capite di Pechino, il 70% della loro forza lavoro possedeva almeno un diploma, una base istruita che permise di re-impiegare milioni di persone dalle fabbriche tessili a quelle di semiconduttori. In Cina invece i giovani interrompono gli studi proprio mentre spariscono quei lavori che un tempo assorbivano la manodopera poco qualificata.
Ma anche gli Usa hanno i loro guai: il debito pubblico e privato totale è enorme, pari a circa il 250% del Pil nel 2024 ed è destinato ad aumentare per la spesa militare e i tagli alle tasse. Nei prossimi 25 anni, pur aumentando di circa 8 milioni di adulti la forza lavoro, Washington dovrà mantenere altri 24 milioni di pensionati in più (+37,8% rispetto a oggi). Con tutti i loro problemi però (debito pubblico, disfunzioni democratiche, disuguaglianze crescenti), gli Usa mantengono ancora una serie di vantaggi: la produttività continua a crescere; sono indipendenti dal punto di vista energetico, godendo di prezzi inferiori ai rivali; il dollaro domina ancora le riserve, il sistema bancario e il mercato valutario internazionale; le Big tech americane incassano oltre metà dei profitti globali del settore (quelle cinesi appena il 6%) e il mercato dei consumi supera Cina ed Eurozona messe assieme. Insomma uno scontro tra giganti in cui quell’Europa che Trump vuole a rischio cancellazione entro 20 anni gioca al massimo il ruolo di spettatore o peggio di ostaggio.
Europa prigioniera
Quando i negoziatori statunitensi convocarono l’ultima volta le controparti dell’Unione europea per discutere dei dazi imposti dal presidente Donald Trump, come mi ha spiegato un funzionario comunitario ancora in servizio, non vi fu alcuna discussione: 15%, prendere o lasciare. Bruxelles prese. Il medesimo scenario è avvenuto in sede Nato, con la sola eccezione della Spagna, quando Washington ha preteso un aumento della spesa militare dei singoli Stati membri al 5% del Pil. Nessun confronto, nessuna resistenza. Ma una resa dovuta alla cronica divisione interna e ai nuovi alleati di estrema destra di Trump in Europa, dove la principale potenza militare, il Regno Unito, ha scelto di uscire dall’Ue ormai dieci anni fa (e ancora si interroga, malgrado i dati incontrovertibili, se abbia fatto male o malissimo) e la locomotiva industriale del continente, la Germania, è rimasta paralizzata dal taglio di ogni legame con il gas russo a buon mercato.
I leader europei preferiscono continuare a ingoiare il rospo, provando a comprare la benevolenza atlantica a suon di miliardi, di armi e di strali contro la Cina pur di farsi proteggere dalla Russia. Una linea che durerà solo finché il boccone da mandare giù non finirà per strozzarglisi in gola. Il meccanismo, come spiegato più volte da un’esperta come Nathalie Tocci, è perverso: l’estrema destra mina la coesione europea impedendo iniziative comuni, così i Governi, impossibilitati ad agire insieme, si piegano alle richieste Usa, una sottomissione che rafforza ulteriormente le critiche nazionaliste sull’incapacità dell’Ue.
Il caso dei dazi è emblematico. Pur controllando uno dei mercati più grandi del mondo e gestendo direttamente la politica commerciale, l’Ue non è riuscita a dialogare da pari con la Casa bianca a causa delle divisioni interne. Alla fine singole aziende come Volkswagen, BMW e Stellantis, per citare solo il settore auto, hanno condotto trattative in parallelo con Trump mentre Bruxelles ha dovuto accettare tariffe doganali più alte persino del Regno Unito, un’umiliazione bella e buona.
Ma anche il riarmo potrebbe trasformarsi in un cavallo di Troia. Le centinaia di miliardi già mobilitate e gli ulteriori fondi promessi rischiano di obbligare i Governi a rifarsi su sanità, istruzione e pensioni, fornendo un’altra freccia all’arco dell’estrema destra contro i partiti tradizionali sempre più in difficoltà. Un problema che paradossalmente dovrebbe affliggere anche una premier considerata vicina a Trump come Giorgia Meloni e che invece non pare doversene preoccupare grazie all’incapacità degli avversari all’opposizione. Ma la distanza politica dalla Casa bianca è un falso problema, visto che il nostro come gli altri governi d’Europa non sembrano poter giocare altro ruolo che quello dei comprimari. D’altra parte, come scrisse il politologo Barry Posen, in un ordine bipolare «le periferie scompaiono».