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Home » Economia

Il futuro dello smart working in Italia oltre la pandemia: un’indagine (pro e contro)

Immagine di copertina
Foto di Junjira Konsang da Pixabay

L’emergenza Covid-19 ha richiesto che le compagnie adottassero il lavoro da remoto, quando possible, accelerando repentinamente il percorso verso una maggiore flessibilità lavorativa timidamente iniziato negli anni precedenti la pandemia. Dopo oltre un anno di quello che in Italia viene spesso chiamato smart working (anche se per gli anglosassoni è working from home, abbreviato WfH), e con l’avanzare della campagna vaccinale, molte aziende stanno pianificando il ritorno in ufficio. La maggior parte delle compagnie, sia in Italia che all’estero, si stanno orientando verso un modello ibrido, con alcuni giorni lavorativi trascorsi a casa e altri in sede; un sistema che tiene in considerazione le preferenze dei dipendenti, ma che deve essere studiato con attenzione per evitare di acuire alcune delle diseguaglianze esistenti nel mondo del lavoro e nella nostra società.

I dati del lavoro da remoto nel 2020

Nel 2019 solo l’1,6 per cento dei lavoratori dipendenti lavorava saltuariamente da casa, secondo i dati raccolti dall’Istat e pubblicati nel rapporto “Il mercato del lavoro nel 2020”. Nel 2020, in piena prima ondata di Covid-19, questa percentuale è cresciuta esponenzialmente, arrivando al 18,6 per cento. Meno marcato, ma pur sempre significativo, è stato l’incremento per gli autonomi, molti dei quali lavoravano da casa già nel 2019, come si vede nel grafico in basso.

Queste stime però considerano tutti i lavoratori, e quindi includono anche chi deve necessariamente recarsi in sede per svolgere la propria professione. Se guardiamo solo agli occupati che potrebbero potenzialmente lavorare a distanza (poco più di un terzo di tutti i lavoratori, secondo l’Istat, ovvero 8,2 milioni di persone) vediamo che a metà 2019 solo il 12 per cento di essi aveva effettivamente lavorato da casa almeno una volta in quattro settimane, contro il 42 per cento di metà 2020.

Fonte: Istat

L’effetto del lavoro da remoto sulla vita personale di ciascuno di noi è estremamente soggettivo, ed influenzato dal nostro stile lavorativo, dalla casa in cui ci troviamo e dalle persone con cui viviamo, così come dalla lunghezza e costo del percorso fino all’ufficio e moltissimi altri fattori. In media, però, l’esperimento del lavoro da casa e la flessibilità che esso comporta hanno piacevolmente sorpreso i lavoratori dipendenti: in un sondaggio condotto su 30mila lavoratori statunitensi, l’86 per cento degli intervistati ha dichiarato che la produttività del lavoro remoto è stata uguale o superiore alle aspettative. Lo studio ha anche rilevato che più i dipendenti e i manager si sono dichiarati soddisfatti della produttività durante la pandemia, più è alto il numero di giorni di lavoro da casa che dicono di desiderare (per i dipendenti) o sono disposti a concedere (per i manager) in seguito all’emergenza santaria.

Anche in Italia il lavoro remoto “forzato” è stato ben recepito, come illustrato dai risultati del sondaggio “Future of Work”, condotto dall’Osservatorio Imprese Lavoro di Inaz. Il 78 per cento delle aziende contattate valuta l’esperienza come positiva, ma indica anche la necessità di regolare il lavoro a distanza, una volta superata l’emergenza; la maggior parte delle aziende ha anche riscontrato un aumento di motivazione e senso di responsabilità da parte dei dipendenti.

Fonte: Osservatorio Imprese Lavoro 

Ritorno in ufficio? Le preferenze dei lavoratori, e i piani delle aziende

Due terzi dei dipendenti (il 67 per cento) vorrebbero continuare a lavorare da casa perlomeno due giorni a settimana, e quasi un terzo (il 31 per cento) sarebbe pronto a dire addio all’ufficio e abbracciare il lavoro remoto a tempo pieno: sono i risultati di un sondaggio di 30mila lavoratori statunitensi, condotto da ricercatori delle università di Stanford e Chicago. Risultati simili sono stati pubblicati anche per un campione di quasi 5mila lavoratori nel Regno Unito, come mostrato nella figura di seguito.

Fonte: Why Working From Home Will Stick e VoxEU 

Per accomodare le preferenze dei dipendenti, e anche alla luce del fatto che la produttività non ha risentito della chiusura degli uffici, alcune compagnie multinazionali – soprattutto del settore tecnologico – hanno annunciato che chi lavora per loro potrà farlo indistintamente da casa o dall’ufficio (o da qualsiasi altra parte), per tutto il tempo che vuole.

È questo il caso di Twitter e Spotify, mentre Microsoft e Apple adotteranno un modello ibrido, con alcuni giorni in ufficio e altri a casa – o presenza fissa in sede per chi lo desidera. Altre compagnie invece permetteranno di recarsi in ufficio a settimane alterne: così i lavoratori potranno sfruttare i prezzi più vantaggiosi degli abbonamenti settimanali, rispetto alle corse singole dei mezzi di trasporto.

Le varianti di questo modello ibrido casa-ufficio sono insomma moltissime, per non dire infinite, e ogni azienda potrebbe definire in modo diverso la percentuale di tempo richiesto in ufficio, o il massimo di giorni consecutivi che si possono trascorrere lavorando da casa, rendendo questa strategia più o meno flessibile. In ogni caso, si tratta di una rivoluzione profonda del mondo del lavoro, che sarebbe stata impensabile nel 2019. Ed è una rivoluzione che coinvolge anche l’Italia, dove solo una percentuale minoritaria di compagnie (il 13 per cento) prevede di tornare alla presenza fissa in ufficio, e una percentuale ancora inferiore adotterà il lavoro da casa a tempo pieno (il 6 per cento), secondo il rapporto “Future of Work”. Tutte le altre si stanno orientando verso il modello ibrido, in linea con le preferenze dei lavoratori.

Fonte: Osservatorio Imprese Lavoro

Le sfide del modello ibrido

I vantaggi del lavoro remoto sono molteplici, e l’adozione del modello ibrido da parte delle aziende potrebbe aumentare in modo significativo la qualità della vita dei lavoratori. Tuttavia, per far sì che questo sistema funzioni, bisogna essere consapevoli delle sue difficoltà e possibili conseguenze – non solo per le aziende e i lavoratori, ma anche per il resto della società.

La sfida più semplice da gestire è, forse, quella logistica. Per evitare di comprare o affittare enormi uffici riempiti solo a metà, le aziende potrebbero risparmiare adottando un sistema di “hot desking”, ossia postazioni mobili: invece di avere una scrivania assegnata, i dipendenti prenotano il loro posto ogni volta che decidono di recarsi in ufficio (come succede già in molti posti). Questo sistema può pero funzionare solo se ben organizzato, per evitare che si vada in ufficio solo per scoprire che non ci sono scrivanie libere, e potrebbe prevedere delle eccezioni per chi non lavora quasi mai da casa. Piccole accortezze possono poi rendere più agevole il tragitto casa-lavoro, come aggiungere degli armadietti dove lasciare i propri oggetti personali.

Una seconda sfida, più complessa, è quella manageriale: il modello ibrido implica che ogni giorno una parte del personale si trovi in ufficio, e un’altra a casa. Non solo quindi non ci libereremo delle videochiamate, ma i manager dovranno imparare a gestire un team dove un gruppo di persone si trova insieme in ufficio, e un altro gruppo sparpagliato nelle proprie abitazioni. È probabile che la presenza in ufficio venga richiesta per riunioni o eventi specifici, ma la sfida rimane per la gestione delle attività quotidiane. Per risolvere questo potenziale problema, alcune compagnie hanno suggerito di stabilire giorni specifici della settimana in cui tutti lavoreranno in sede, ma questo comporterebbe uffici completamente pieni o (quasi) completamente vuoti a giorni alterni, che non sembra sensato dal punto di vista economico.

Gender pay gap e diseguaglianza sociale: le sfide più importanti

Con il modello ibrido c’è anche il rischio di discriminare inconsciamente chi lavora più spesso a distanza, che potrebbe essere ingiustamente percepito da alcuni manager (e colleghi) come meno coinvolto e meno produttivo rispetto a chi si reca in ufficio più spesso. Una preoccupazione già espressa da alcuni dipendenti, e che sembra fondata: prima della pandemia infatti alcune ricerche hanno riscontrato un tasso di promozione inferiore per chi lavorava da casa. Questo elemento è complicato dal fatto che secondo diversi sondaggi le donne, in particolare con figli, sono più inclini a lavorare da casa – il rischio evidente del modello ibrido è quindi quello di allargare il divario di retribuzione tra generi.

Inoltre, le professioni che si possono svolgere da casa tendenzialmente richiedono un grado di istruzione superiore e garantiscono salari più alti. La diseguaglianza tra questo gruppo e il resto dei lavoratori rischia di acuirsi con l’adozione del lavoro a distanza, sia in termini culturali e di stile di vita che economici. Ad esempio, chi può lavorare da casa risparmia tempo, salute e denaro sul tragitto verso l’ufficio, mentre i lavoratori essenziali devono per forza recarsi in sede. E così anche l’esperienza (di solito non piacevole) del pendolarismo potrebbe smettere di essere condivisa tra i due gruppi. La stessa diseguaglianza vale per le imprese: mentre le compagnie risparmiano su affitto e bollette, i bar e ristoranti che gravitano intorno agli uffici potrebbero stentare a riaprire, o comunque a raggiungere gli stessi introiti pre-pandemia.

Leggi anche: 1. Smart-working e telelavoro: quali le differenze e come possono tutelarsi lavoratori e aziende? /2. Smart working frontiera del futuro? Forse, ma a danno di migliaia di aziende (e di lavoratori) /3. Smart working: i rischi di lavorare da casa e come evitarli

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