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Home » Economia

Miniera Italia: così l’economia circolare può ridurre la nostra dipendenza dall’estero per le materie prime critiche

Immagine di copertina
Credit: Luigi Narici / AGF

Dall’aerospazio alle auto elettriche avremo sempre più bisogno delle terre rare e di altri materiali per uso strategico, che oggi siamo costretti a importare. Eppure ogni anno gettiamo un tesoro di rifiuti elettronici. Ma sfruttando il riciclo e il Piano Mattei potremmo risparmiare miliardi di euro

Litio, cobalto, germanio e ancora neodimio, lantanio e altre terre rare. Le materie prime critiche sono ormai indispensabili per batterie, dispositivi elettromedicali, automotive, fotovoltaico, satelliti, magneti e altri settori strategici della transizione verde e digitale, dell’aerospazio e della difesa. Nessuno può farne a meno ma l’Italia e l’Europa sono costrette a importarle, un’altra dipendenza da cui dovremo liberarci se vogliamo continuare a competere nel mondo della “Trumponomics”.

Rilevanza e fragilità sistemica
L’importanza di questi materiali per la nostra economia e autonomia strategica, fotografata dallo studio “La geopolitica delle Materie Prime Critiche” presentato a novembre da Iren a Ecomondo e realizzato da TEHA Group, emerge dai numeri. Queste risorse abilitano in Europa circa 3.900 miliardi di euro di produzione industriale, equivalenti al 22% del Pil dell’Ue. Ma, tra le principali economie, l’Italia è la più esposta: il 31% del Pil nazionale, pari a 675 miliardi di euro, dipende da tecnologie e processi produttivi basati su materie prime critiche. Un problema non solo di competitività ma di sicurezza nell’attuale quadro internazionale caratterizzato da una crescente domanda e da filiere concentrate nelle mani di pochi grandi player.
La domanda globale di questi materiali è cresciuta dell’11% tra il 2021 e il 2024 e potrebbe aumentare di un ulteriore 34% entro il 2030, a cui potrebbe aggiungersi un altro +10% dovuto alla corsa allo sviluppo dell’IA e dei data center. Intanto, tra il 2020 e il 2024, la quota di mercato dei primi tre Paesi raffinatori di litio, rame, nickel, terre rare, cobalto e grafite è salita dall’82% all’86%, accrescendo la dipendenza europea.
Un problema acuito dalla vulnerabilità delle nostre filiere. Basti ricordare che l’Ue importa 4,7 miliardi di euro di titanio e 1,4 miliardi di terre rare e che la Cina controlla oltre il 90% della capacità mondiale di raffinazione di queste ultime. Un blocco delle forniture di tali minerali metterebbe a rischio fino a 700 miliardi di euro di produzione industriale in Europa e fino a 88 in Italia. Ma il quadro è destinato a complicarsi.
D’altronde nel 2024 la Cina ha investito oltre 13 miliardi di euro in materie prime critiche, oltre cinque volte gli investimenti diretti esteri del 2005, mentre l’Ue è ferma a 5,6 miliardi. Pechino scommette anche sull’economia circolare: pur detenendo oltre l’80% della capacità globale, entro il 2030 quadruplicherà il riciclo delle batterie. Dal canto loro, sebbene ancora dipendenti dall’estero, gli Usa di Trump puntano su politiche protezionistiche e investimenti diretti nelle imprese nazionali di estrazione e raffinazione, oltre che su accordi bilaterali con i principali Paesi produttori. E l’Europa?

Politiche pubbliche
Con il Critical Raw Materials Act del marzo dell’anno scorso, l’Ue ha fissato gli obiettivi per il 2030: estrarre almeno il 10% del proprio fabbisogno, raffinarne il 40%, coprire il 25% tramite riciclo e ridurre sotto il 65% la dipendenza da singoli Paesi. Solo a marzo però si è passati ai fatti quando la Commissione Ue ha riconosciuto 47 progetti strategici per rafforzare le catene di fornitura di questi minerali, che però non basteranno. Queste iniziative infatti, secondo il rapporto TEHA-Iren, coprono in media solo il 35% degli obiettivi di estrazione, il 24% di riciclo e il 12% di processing. Insomma, la posta in gioco è alta ma siamo in ritardo.
Nel 2024 l’Italia ha acquistato materie prime grezze e semilavorati dall’estero per 36,5 miliardi di euro, in crescita del 51% rispetto al 2014, mentre alcune materie prime critiche strategiche per il nostro fabbisogno industriale registravano aumenti vertiginosi nei volumi importati (cobalto +313%, barite +100%, berillio +84,5%). Qualcosa però sembra muoversi.
A luglio il Governo ha varato il nuovo Programma Nazionale di Esplorazione Mineraria, previsto dall’apposito Decreto legge approvato nell’agosto 2024 per convertire i target europei in Italia, affidandolo a Ispra attraverso il Servizio Geologico d’Italia. Un’iniziativa che si articola in 14 progetti distribuiti su tutto il territorio nazionale. Ma l’esplorazione non è l’unica strada percorribile. «Le maggiori opportunità future si concentrano su due leve prioritarie e sinergiche», spiegò a novembre alla presentazione del rapporto il presidente di Iren, Luca Dal Fabbro. «La prima è il rafforzamento delle partnership internazionali, seguendo l’esempio di Cina e Stati Uniti, per garantire l’approvvigionamento di materie prime vergini e sviluppare relazioni strategiche attraverso il Piano Mattei, orientato alla cooperazione industriale con i Paesi africani». La seconda, aggiunse, «è l’investimento nell’economia circolare dei RAEE».

Riciclo e “urban mining”
I numeri sono chiari: l’anno scorso l’Italia ha raccolto correttamente appena il 29,6% dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche immessi sul mercato. Un dato inferiore di 7 punti percentuali rispetto alla media europea e di ben 35 punti sotto il target comunitario del 65%. Il paradosso è stridente: tra il 2019 e il 2024 i volumi di RAEE immessi sul mercato sono cresciuti del 55%, ma il tasso di raccolta si è ridotto di circa un quarto. Significa che mentre buttiamo via sempre più smartphone, computer e elettrodomestici, la nostra capacità di riciclo e “urban mining” è peggiorata. Scontiamo infatti un ritardo strutturale nella fase più redditizia della filiera: degli oltre mille impianti accreditati per il trattamento dei RAEE, solo 45 (il 4,1%) sono operativi, mentre gli iter autorizzativi per i nuovi vanno dai 5 ai 7 anni. Alcuni segnali positivi però ci sono: Iren ha avviato nel 2024 l’impianto di Terranova Bracciolini (Arezzo) per il trattamento delle schede elettroniche; Semia Green ha attivato a Siena un impianto per il riciclo di 130mila pannelli fotovoltaici all’anno; mentre il progetto Portovesme MPC Hub, operativo dal 2029, consentirà il recupero fino al 95% di litio, cobalto, nickel e rame. Ma servirà un salto di scala.
Anche perché la proposta lanciata a luglio dalla Commissione Ue di un contributo di due euro per ogni chilo di differenza tra il tasso di raccolta nazionale e l’obiettivo del 65% ci costerebbe infatti circa 2,6 miliardi di euro da versare ogni anno a Bruxelles. Al contrario questi potrebbero diventare la chiave per una svolta industriale: se investiti nella filiera nazionale del riciclo, permetterebbero di coprire, a regime, fino al 66% del fabbisogno italiano di materie prime critiche e di valorizzare circa 1,7 miliardi di euro all’anno di materiali preziosi contenuti nei RAEE. Lo studio TEHA-Iren traccia anche una roadmap: 560 milioni di euro per potenziare il sistema di raccolta e la logistica, 720 milioni per nuovi impianti di trattamento, 1,3 miliardi per sussidiare la domanda di materie prime seconde e renderle competitive rispetto alle materie prime vergini importate. Ma c’è un’altra leva strategica che l’Italia potrebbe attivare: il Piano Mattei.
Ad oggi il Nord Africa genera il 42% dei RAEE di tutto il continente, eppure il piano di cooperazione del Governo non include progettualità nell’ambito dell’economia circolare dei rifiuti elettronici. Il coinvolgimento delle imprese italiane nel riciclo di questi materiali, secondo il rapporto, potrebbe farci recuperare fino a 2,5 miliardi di euro di materie prime critiche: circa 48mila tonnellate di rame, oltre 12mila di nickel, quasi 7mila di zinco e flussi più contenuti di cobalto, antimonio, argento, oro e platino. Consentirebbe anche un risparmio annuo di 5,1 milioni di tonnellate di CO₂, pari a quelle emesse ogni anno da  2,5 milioni di auto in Italia, che si tradurrebbe in un beneficio sociale stimato in circa 855 milioni di euro annui.
Insomma, anche in un quadro globale complicato, l’Italia può giocare le proprie carte: economia circolare, partnership strategiche, specializzazione della filiera. La scelta è tra rinunciare ogni anno a miliardi di ricchezze buttate via, oppure investirli per costruire un pezzo di autonomia industriale e ridurre la dipendenza dall’estero, anche con la cooperazione internazionale. La seconda opzione, oltre a essere più intelligente, conviene.

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