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    Lockdown totale a marzo, la rabbia dei commercianti del Sud: “Il Governo ci ha condannati a morte, chi pagherà il conto?”

    Aldo Cursano, vicario nazionale della Fipe, l'associazione dei ristoratori e dei gestori di bar aderenti alla Confcommercio, commenta a TPI le notizie emerse grazie alla pubblicazione degli atti del Comitato tecnico scientifico (Cts) posti alla base dei Dpcm per il contrasto all’emergenza Coronavirus

    Di Lara Tomasetta
    Pubblicato il 7 Ago. 2020 alle 14:41

    “É facile per una persona che vuole stare a posto con la coscienza far stare tutti a casa, ma il costo socio-economico? Il conto chi lo paga? Lo paga chi butta all’aria anni di lavoro e di progetti di vita perché qualcuno a livello cautelativo per una, due-tre regioni ha chiuso tutta l’Italia”. Aldo Cursano, vicario nazionale della Fipe, l’associazione dei ristoratori e dei gestori di bar aderenti alla Confcommercio, commenta a TPI le notizie emerse grazie alla pubblicazione degli atti del Comitato tecnico scientifico (Cts) posti alla base dei Dpcm per il contrasto all’emergenza Coronavirus.

    Con l’atto datato 7 marzo 2020, il Comitato tecnico scientifico proponeva al governo di “adottare due livelli di misure di contenimento: uno nei territori in cui si è osservata maggiore diffusione del virus, l’altro sul territorio nazionale”. Due giorni dopo, però, il presidente del Consiglio Conte con il Dpcm del 9 marzo diede il via al lockdown estendendo le stesse misure a tutto il territorio nazionale senza distinzioni e senza citare a giustificazione del provvedimento alcun atto del Comitato tecnico scientifico. Il bassissimo numero di contagi al Sud rendeva tutt’altro che necessario un lockdown totale, e ora le associazioni di categoria sono pronte a chiedere i danni allo Stato per le macroscopiche perdite subite.

    “Hanno messo in ginocchio un tessuto imprenditoriale già fragile. Il nostro modello è incentrato sul lavoro delle aziende piccole e familiari, uno straordinario patrimonio, legato allo stile italiano, che fanno dell’accoglienza e del contatto umano un tratto distintivo. Il nostro modello identitario si fonda sulla relazione umana. Questo aspetto è però fragilissimo dal punto di vista economico, non ha coperture di patrimonio”, afferma Cursano.

    “Avendo di fatto impedito non solo di lavorare, ma anche una possibilità di ripartenza, dovuta a fattori psicologici, possiamo dire di essere in terapia intensiva. Serviva lo Stato per non restare nella mani degli speculatori e dei delinquenti che in questi contesti fanno il loro core business. Ci vuole uno Stato, ci vuole la presenza della comunità per proteggere il patrimonio umano-imprenditoriale-commerciale che è l’anima del nostro Paese. C’è il rischio che un domani quando ci sarà la ripartenza, questa avverrà senza le nostre imprese”.

    Si stima che il fermo generale dell’Italia deciso dal governo intorno al 10 marzo, quando l’infezione da Covid-19 praticamente riguardava solo alcune aree del Nord, sia costato alle imprese del centro-sud circa 100 miliardi di euro. È una cifra corretta?

    È una cifra enorme e corretta, ma non c’è solo l’aspetto economico, c’è un enorme danno sociale, un danno di dispersione e di perdita di competenze e professionalità che stanno svanendo. I nostri centri storici stanno pagano un prezzo altissimo: si oscilla da un 10 a un 20% del fatturato pre Covid; quindi perdite dell’80-90%. Un’impresa che si fonda su una prospettiva di sostenibilità nel momento in cui perde l’80% è morta, non è stato colto che a rischio c’è un intero modello produttivo e distributivo del nostro Paese. Noi occupiamo 1.200.000 persone, l’80% sono a casa in cassa integrazione, vanno riportate a lavoro, ai cittadini vanno dati incentivi importanti per tornare a spendere. Bisogna accompagnare il consumo, se non si crea valore non se ne esce, noi non vogliamo essere assistiti, vogliamo lavorare. Ci sono dei segnali, ma non intravedo una strategia vera di ripartenza del sistema economico. Servono scelte shock. Così si muore, non possiamo assistere alla fine del nostro progetto di vita da testimoni impotenti.

    A marzo una decisione così drastica, nonostante le raccomandazioni del Cts fossero più caute, cosa è accaduto?

    É facile per una persona che vuole stare a posto con la coscienza far stare tutti a casa, ma il costo socio-economico? Il conto chi lo paga? Lo paga chi butta all’aria anni di lavoro e di progetti di vita perché qualcuno a livello cautelativo per una, due-tre regioni ha chiuso tutta l’Italia. Ci sono migliaia di imprese già morte, altre che moriranno se non facciamo qualcosa, ma è stato messo in ginocchio il nostro sistema identitario che distingue ogni comune, ogni grande e piccola città. C’è stato egoismo nel voler chiudere tutto, ma non si fa così: si entra nel merito, si valuta, si circoscrive, si cerca di difendere il patrimonio produttivo-distributivo. Questo vuol dire non volersi assumere delle responsabilità. Cerchiamo di intervenire, di stare attenti. Adesso con chi ce la prendiamo? Con chi ha la responsabilità politica di rispondere al Paese.

    Si cercherà di rivalersi?

    Essere condannati a morte senza difendersi e senza pagarne il conto è una cosa che fa male. Quando dipende da causa a noi imputabile ci assumiamo le nostre responsabilità. Ma in questo caso, noi siamo stati condannati a morte con forme e situazioni che probabilmente sarebbero potute essere gestite con maggiore cautela e buon senso. Ritengo che sicuramente, personalmente e come rappresentante, difenderemo fino in fondo la reputazione del nostro mondo che sta morendo per scelte sbagliate.

    L’inchiesta di TPI sulla mancata chiusura della Val Seriana per punti:

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