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Home » Economia

Confindustria, sindacati, partiti: ecco chi rema contro il salario minimo legale

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Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, diceva nel Settecento che nella vita ci sono solo due certezze: «Una è la morte, l’altra sono le tasse da pagare». Tre secoli dopo, il teorema è ancora attuale, ma negli ultimi trent’anni in Italia sembra essersi aggiunta una terza voce all’elenco delle inesorabili realtà: i salari bassi e stagnanti. Il nostro è l’unico Paese europeo dell’area Ocse in cui tra il 1990 e il 2020 le buste paga in media sono diminuite, anziché aumentare. Il grafico nella pagina a lato parla da solo: mentre gli stipendi sono cresciuti del 276% in Lituania, dell’85% in Irlanda, del 33% in Germania, da noi sono calati del 2,9%. Un dato impressionante. Sempre nell’area Ocse, su trentacinque Paesi solamente in undici oggi la retribuzione media annuale è più bassa che in Italia: davanti a noi ci sono non soltanto le nazioni più industrializzate, ma anche Slovenia e Spagna. C’è poco da stupirsi, allora, se nell’Unione europea siamo al quarto posto per percentuale di “working poor”, ossia persone che versano in stato di povertà nonostante abbiano un lavoro (spesso precario o part-time). Nell’era della gig economy – quella del lavoro a chiamata, dai rider alle partite Iva sfruttate – secondo la Fondazione Giuseppe Di Vittorio, 5 milioni di italiani guadagnano meno di 10 euro lordi all’ora; e per il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, 2 milioni di loro vengono pagati la miseria di 6 euro all’ora (sempre lordi).Ma ora veniamo al punto. Fra la crisi energetica, quella alimentare e il boom dei prezzi delle materie prime, l’Istat stima per il 2022 un tasso d’inflazione acquisita del 5,2% in Italia, mentre le retribuzioni contrattuali medie dovrebbero aumentare appena dello 0,8%: significa che i lavoratori vanno incontro quest’anno a una perdita netta del potere d’acquisto del 4,4%. Ecco dunque che nelle ultime settimane è timidamente riaffiorato nel dibattito pubblico il tema del salario minimo legale, una proposta ciclicamente annunciata dalla politica e puntualmente mai realizzata.

Eterna promessa

Se ne parlava già nel 2018, nel famoso contratto di governo fra Movimento 5 Stelle e Lega: «Si ritiene necessaria l’introduzione di una legge sul salario minimo orario», c’era scritto nel capitolo dedicato al Lavoro. E anche l’anno successivo, quando dal gialloverde si passò al giallorosso, il programma di governo stilato dai Cinque Stelle con Pd e LeU si proponeva – al punto 4 – di «individuare  una  retribuzione  giusta  (cosiddetto  “salario minimo”) garantendo le  tutele  massime a beneficio dei lavoratori». In entrambi i casi, per motivi diversi, non se n’è poi fatto nulla.

Nel 2021, però, la svolta sembrava vicina: in una prima bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza era prevista anche «l’introduzione del salario minimo legale per i lavoratori non coperti dalla contrattazione». Peccato che nella versione definitiva del documento – come denunciato dal leader di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni – la misura sia stata misteriosamente cancellata nel silenzio generale.

Lo scorso autunno, quando il Pnrr era ormai chiuso e blindato, sono tornati a parlare di salario minimo sia Giuseppe Conte, capo del M5S, sia Enrico Letta, segretario del Pd. Ma ancora una volta, dopo un paio di settimane segnate da qualche sporadico lancio d’agenzia, il dibattito è stato rapidamente silenziato, sepolto da altri temi, ritenuti all’evidenza più urgenti dalla classe politica.

C’è chi dice no

Nell’Unione europea ventuno Stati su ventisette hanno fissato un salario minimo legale: oltre all’Italia, ne sono sprovvisti Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia. In questi Paesi, come nel nostro, la definizione dei parametri retributivi è lasciata in toto alla contrattazione collettiva dei sindacati. Già, i sindacati. Anche se a qualcuno può sembrare paradossale, tra coloro che in questi anni si sono duramente opposti all’introduzione di un salario minimo legale ci sono proprio le organizzazioni dei lavoratori. Il motivo, in realtà, è presto detto: i sindacati temono che la fissazione per legge di una retribuzione minima indebolisca il ruolo della contrattazione collettiva e finisca per livellare verso il basso gli stipendi.

Per la verità, nei mesi scorsi il segretario generale della Cgil Maurizio Landini ha per la prima volta concesso un’apertura, ma a una condizione: «Ok al salario minimo, purché sia collegato a una legge sulla rappresentanza». Il riferimento è a quella norma, attesa da decenni, che dovrebbe dare finalmente attuazione all’articolo 39 della Costituzione che prevede la registrazione dei sindacati: in mancanza di una legge, oggi qualsiasi associazione di lavoratori, anche la meno rappresentativa e più spregiudicata, ha il potere di firmare un contratto collettivo, con il risultato che si sono moltiplicati negli anni gli accordi “pirata” al ribasso, soprattutto in alcuni settori come la logistica. L’idea di Landini, in altre parole, è quella di dire sì a una legge sul salario minimo solo a patto di estendere a tutti i lavoratori le garanzie della contrattazione collettiva.

Radicalmente contraria è invece Confindustria: «I rincari su materie prime ed energia hanno già ridotto i margini per le imprese: impensabile che si possano aumentare i salari», ha dichiarato di recente il presidente Carlo Bonomi, secondo cui «bisogna agire semmai alleggerendo il cuneo fiscale sui contributi». L’associazione degli industriali ha definito «ricatto» la proposta di vincolare gli aiuti per le aziende a un aumento degli stipendi: proposta avanzata il mese scorso dal ministro del Lavoro Andrea Orlando e presto finita nel dimenticatoio dopo il niet di Viale dell’Astronomia.

La via italiana

Secondo il ministro, una legge sul salario minimo sarà possibile solo quando – e se – si troverà un accordo fra le parti sociali. Orlando punta a una formula che rafforzi il potere di contrattazione collettiva dei sindacati più rappresentativi: la paga-base, in altri termini, non sarebbe fissata dal Parlamento ma si ricaverebbe dai singoli contratti collettivi nazionali; la chiamano «via italiana al salario minimo».

«Dobbiamo trovare delle soluzioni di prospettiva e a medio termine: una legge sulla rappresentanza e l’introduzione del salario minimo, perché in questi ultimi 5 anni sono raddoppiati i contratti depositati al Cnel», dice il ministro a TPI. «Vediamo se ci sono i numeri per andare nella direzione del salario minimo in Parlamento, ma proviamo a seguire anche altre strade. Ho avanzato una proposta due mesi fa anche a Confindustria, senza ricevere risposta: usiamo i contratti comparativamente maggiormente rappresentativi, l’indicazione salariale contenuta in quei contratti, come salario minimo di quei comparti. Vorrei che qualcuno mi spiegasse perché si firma un contratto ma si ritiene che non vada bene per altri lavoratori che operano in quello stesso settore».

In questa direzione va anche l’Unione europea, dove – sulla spinta della presidenza di turno francese – è in via di emanazione una direttiva sui “salari minimi equi” che mira proprio a potenziare il ruolo della contrattazione collettiva nei Paesi in cui essa copre meno dell’80% dei lavoratori.

Nella Commissione Lavoro del Senato, intanto, giacciono ben quattro disegni di legge sul tema, tutti presentati tra il 2018 e il 2019 ma ancora fermi alla fase della discussione: uno è targato M5S, due (molto diversi tra loro) sono a firma Pd e uno proviene da LeU. Il ddl depositato dalla pentastellata Nunzia Catalfo (ministra del Lavoro durante il Governo Conte 2) fissa il salario minimo a 9 euro lordi l’ora. Quello del senatore dem Mauro Laus prevede una soglia minima di 9 euro netti, mentre il collega di partito Tommaso Nannicini (responsabile economico del Pd ai tempi della leadership renziana) propone di affidare la determinazione della cifra a un apposito comitato da istituire presso il Cnel (lo stesso Cnel che proprio Renzi voleva abolire). Nemmeno Nicola Laforgia, del Gruppo Misto-LeU, stabilisce la cifra esatta: a determinare la soglia minima retributiva – secondo il suo ddl – dovrebbero essere invece, settore per settore, i singoli contratti collettivi firmati dai sindacati più rappresentativi (come nel piano del ministro Orlando).

A favore del salario minimo legale si è più volte espresso il presidente dell’Inps Tridico, secondo cui 9 euro lordi l’ora (pari a circa 1.000 euro netti al mese) sarebbe una buona garanzia di base per i lavoratori. «La necessità di un salario minimo è prima di tutto per evitare un dumping salariale che reca danni non solo ai lavoratori e all’economia ma anche alla stessa produttività delle imprese e al sindacato», dice il presidente dell’Inps a TPI. «I timori di spinta al “nero” e all’indebolimento delle relazioni sindacali sono smentiti da risultati positivi consolidati in Paesi come Francia, Germania, Belgio o Spagna. In Germania in particolare, la posizione dei sindacati, che inizialmente si opponevano, si è anzi rafforzata e ampliata dopo l’introduzione del salario minimo».

Se la proposta è un cavallo di battaglia storico del Movimento 5 Stelle, nel Partito democratico il salario minimo sembra non scaldare altrettanto i cuori. Lo dimostrano le due contraddittorie proposte di legge Pd di cui sopra. E lo hanno espressamente confermato, nel settembre scorso, Nicola Oddati e Marco Furfaro, della direzione nazionale del partito: «Quando nei mesi scorsi abbiamo proposto pubblicamente una campagna sull’introduzione del salario minimo – hanno rivelato – non pochi, anche nel Pd, ci hanno criticato». Del resto, i dem sono stati al governo per dieci degli ultimi undici anni e non si ricordano battaglie politiche per far salire gli stipendi (a eccezione del bonus da 80 euro del Governo Renzi, che però era limitato a una platea ristretta di lavoratori dipendenti). «Fino ad oggi abbiamo parlato con quelli che ce la fanno», ha ammesso lo stesso segretario Letta. «Ora dobbiamo rovesciare il tavolo e diventare coloro che danno voce a chi fatica».

“Colpa del Rdc”

Nelle ultime settimane il leader del Pd è tornato alla carica, annunciando azioni concrete per tutelare il potere d’acquisto dei lavoratori, anche attraverso il salario minimo. Parole che peraltro avevamo già sentito in autunno, ma alle quali erano poi seguiti mesi di silenzio quasi totale sul punto.

Chi invece è rigorosamente contrario alla misura è il centrodestra, che almeno su questo tema è compatto: da Fratelli d’Italia alla Lega, fino a Forza Italia, il salario minimo viene visto come un’odiosa imposizione dello Stato, che farebbe bene semmai – come suggerisce Confindustria – ad abbassare le tasse sul lavoro pagate dalle imprese. Il che complica – forse irrimediabilmente – la strada per un intervento in materia da parte del governo. E così, mentre in Spagna l’esecutivo di centrosinistra limita la possibilità di fare contratti precari e alza il salario minimo, da noi tengono banco le lamentele degli imprenditori – come Flavio Briatore – che sostengono di avere difficoltà a reperire manodopera perché «i giovani non hanno voglia di fare sacrifici» e «preferiscono stare sul divano con il reddito di cittadinanza». Malumori simili si erano registrati lo scorso anno anche negli Stati Uniti. Ma in quel caso il presidente Joe Biden aveva risposto agli imprenditori con un elementare suggerimento: «Se non trovate lavoratori, offrite loro stipendi più alti».

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