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Viaggio nelle scuole occupate, dove gli studenti salgono in cattedra: “Ora spieghiamo noi”

Immagine di copertina
Credit: Francesco Fotia - AGF

Obsoleti, frontali, nozionistici: dal Mamiani al Montessori, i liceali romani contestano i metodi di insegnamento. E i continui tagli di fondi alla scuola pubblica. TPI ha raccolto le voci della protesta: “Ecco perché sogniamo un’istruzione diversa”. Il reportage sul nuovo numero del settimanale di The Post Internazionale, in edicola da venerdì 18 novembre

Sono le 18 di martedì pomeriggio, a Roma le strade del quartiere Prati sono buie, ma all’interno del liceo Mamiani c’è fermento: un gruppo di studenti presidia il cancello che dalla strada conduce all’ampio cortile di ingresso, tra parcheggi di biciclette e un tavolo da ping pong. La scuola è occupata da una settimana. Alcuni ragazzi giocano a racchette, altri vanno a casa riposare. «Sono otto giorni che siamo qui», dicono due studentesse mentre lasciano l’edificio. «Piove, piove!», urla un altro ai compagni. Dal cielo non scende una goccia, ma nel gergo del collettivo studentesco significa che sta arrivando la polizia. «Tranquilli», dice Giulio, «passano ma non dicono niente». Effettivamente l’auto affianca il cancello con le sirene blu accese senza fermarsi. Dopo diverse interlocuzioni con le forze dell’ordine gli studenti hanno ottenuto il via libera a restare all’interno della scuola giorno e notte portando avanti le proprie attività fino al 18 novembre, giorno della mobilitazione nazionale. «Quando la preside ha saputo che volevamo occupare per 10 giorni consecutivi ovviamente ci sono stati momenti di tensione, ma adesso è tutto tranquillo», prosegue. Frequenta il terzo liceo classico e fa parte del collettivo autonomo della scuola, a cui ha aderito dal primo anno con convinzione. Pur non abitando nella zona, infatti, ha scelto il Mamiani per la sua tradizione politica: nel 1968 fu tra le prime scuole ad essere occupate in Italia, la prima ad ottenere il diritto di assemblea. Da allora alcune rivendicazioni sono rimaste le stesse: un sistema meno rigido e autoritario, la possibilità di confrontarsi tra studenti. Ma a fare la differenza nell’autunno del 2022 sono gli strascichi di due anni di pandemia, la fragilità degli alunni rispetto alle richieste dei docenti e di un sistema di valutazione che ritengono disumano, l’alternanza scuola lavoro obbligatoria introdotta dalla riforma della “Buona scuola” del 2015 e l’insediamento di un governo di centrodestra.

S&D
L’origine delle proteste

«Il pensiero di occupare ha iniziato a crescere all’interno delle realtà politiche studentesche romane e nazionali dopo il 25 settembre, abbiamo visto il risultato delle elezioni e ci siamo spaventati», dice Giulio a TPI. Porta una felpa nera, un cappello di lana e un paio di occhiali da vista spessi. Mastica il linguaggio della politica, ha un tono di voce basso ed esprime in modo chiaro e pacato i suoi pensieri. A spaventare il collettivo del Mamiani e delle altre scuole che hanno deciso di occupare le proprie classi tra fine ottobre e inizio novembre non è stata solo la formazione di una giunta di centrodestra, ma il timore che il governo guidato da Fratelli d’Italia proseguisse nella stessa direzione dei precedenti. «Negli ultimi 20 anni sia il centrodestra che il centrosinistra hanno promosso le stesse identiche politiche, che si riflettono anche sul mondo della scuola, con continui tagli di fondi pubblici che dovrebbero essere destinati a noi», afferma Giulio. Le riforme che cita appartengono a tre esecutivi di colore politico diverso. «La riforma Gelmini è quella del governo Berlusconi – ricorda lo studente – la seconda è la buona scuola di Renzi. Poi c’è stato il governo Draghi, che ha detto di voler diminuire dell’1,5 per cento il Pil da destinare alla scuola nei prossimi tre anni, per investire sulle armi».

Ma alle ragioni di natura politica e istituzionale si aggiungono quelle più strettamente connesse al sistema educativo, che sempre più sembra esasperare gli studenti. Dal Mamiani al Montessori, passando per il liceo Tasso, il fil rouge che tiene insieme gli adolescenti della Capitale è la critica verso i metodi di insegnamento adottati in classe, che ritengono obsoleti, frontali, nozionistici, nonché un ostacolo al vero apprendimento. «Il problema principale di questa scuola è il costante bisogno di valutazione: non si finiscono i programmi perché si passa più tempo a interrogare e a fare i compiti che a costruire un vero percorso di studi che formi il bagaglio culturale dello studente. Credo che in tutta Italia siano pochissime le classi che riescono a terminare un programma di almeno una materia, perché bisogna procedere con le verifiche in classe», aggiunge. È appassionato di storia e filosofia e dopo la scuola vorrebbe continuare a occuparsi di politica, ma all’interno di movimenti e non di partiti, perché non si riconosce in nessuno di quelli esistenti, e non vorrebbe nemmeno fondarne uno. Il disagio creato dall’attuale modello scolastico, secondo Giulio, non sta tanto nel peso dello studio quanto nella sensazione di stare in classe solo ed esclusivamente per essere valutato. Una scuola «che non prepara culturalmente, perché quello che impari non lo devi imparare per te stesso o per il tuo futuro, ma perché la settimana dopo avrai il compito e l’interrogazione, con una pressione psicologica troppo forte nei ragazzi più fragili», conclude. Una scuola in cui il preside viene denominato “dirigente scolastico” e in cui è stata introdotta la figura del “Direttore dei servizi generali e amministrativi”, per i ragazzi si rifà al modello di un’azienda, in cui i professori non sono altro che semplici impiegati, e gli studenti ingranaggi di una macchina.

Un modello alternativo

L’occupazione diventa per questo la possibilità di immaginare un modello educativo diverso, una didattica alternativa, imparare quello che si desidera e vivere la scuola che si sogna. Durante i corsi in programma al Mamiani si parla di attualità e lotta politica insieme ai membri del movimento No Tav e ai rappresentanti del collettivo di fabbrica Gkn di Firenze. La sera si proiettano film e documentari, come quello sul conflitto israelo palestinese di Saverio Costanzo, “Private”, con il regista invitato a presentarlo.

Al liceo Montessori, nel quartiere pinciano di Roma, meno avvezzo all’attivismo e alla lotta politica, l’occupazione è iniziata il 14 novembre. È la seconda consecutiva in due anni. Gli studenti ne sono entusiasti perché nel 2021 il collettivo – che si era sciolto con la pandemia – contava solo cinque o sei persone volenterose, mentre quest’anno a prenderne parte sono almeno in 30. «Magari non è tantissimo, ma abbiamo iniziato con l’obiettivo di dare voce ai ragazzi, creare uno spazio per confrontarsi, e lo abbiamo raggiunto», dice uno degli studenti del quarto anno. Sulle pareti dell’edificio, poco distante da villa Borghese, si alternano testi di canzoni dei Coldplay (“Viva la vida”) e più tradizionali citazioni classiche: “Panta rei (tutto scorre)”, recita la scritta in greco all’interno di una delle classi. All’ingresso le ragazze del servizio d’ordine mostrano i fogli con l’elenco degli alunni, con gli orari d’entrata e di uscita. «Vogliamo tenere tutto in ordine», dicono. I nomi sono centinaia. Alle loro spalle un banchetto per la colazione ospita pacchi di biscotti e cornetti appena sfornati. Da una delle aule esce Emanuele, studente di economia ambientale di 27 anni e membro dei Fridays for Future, che ha animato uno dei primi corsi organizzati al liceo, parlando di comunità energetiche. Andrea, uno dei leader del collettivo, ne è rimasto colpito, perché ha scoperto una realtà che non conosceva prima. «Abbiamo scoperto che in Spagna e in Germania queste comunità hanno un consenso altissimo, da poche decine di persone sono riuscite ad arrivare a 100mila: riescono a coniugare uno stile di vita non eccessivamente restrittivo con un consumo energetico ridotto, investendo sulle rinnovabili, e questo ha un impatto molto alto nella vita politica del Paese. La lezione ci ha aperto un sacco di idee e dato spunti nuovi», dice a TPI. Per lui, che ama la musica e l’arte ma non ha idea di cosa fare con il diploma, occupare vuol dire recuperare spazi di collettività altrimenti preclusi, soprattutto in una scuola divisa in due plessi dove, dopo la pandemia, anche la ricreazione è stata annullata.

«Dopo il Covid facevamo cinque minuti di pausa ogni ora, che però spesso non venivano rispettati perché quando suona la campanella magari il prof. sta ancora spiegando, e hai giusto il tempo di andare in bagno», racconta. Per questo i giorni di occupazione sono preziosi: si conoscono i compagni e si stringe amicizia, un altro concetto a cui, secondo gli studenti, la scuola non attribuisce abbastanza valore. «Stare con gli amici viene visto solo come un premio dopo lo studio: quando hai finito i compiti vai giocare ai videogiochi. L’amicizia a scuola non è vista come un’esperienza di vita essenziale per la crescita della persona, ma solo la possibilità di svagarsi in modo superficiale. Invece essere amici vuol dire crescere insieme, confrontarsi, sbagliare insieme. Essere compagni di scuola vuol dire avere obiettivi comuni, aiutarsi a vicenda. Durante l’occupazione c’è tanta solidarietà tra studenti, un’altra cosa a cui la scuola non ti abitua. Invece è bellissima», afferma soddisfatto.

Roma, liceo classico Torquato Tasso. Credits: Marta Vigneri
I ragazzi del Tasso

A pochi passi dal Mamiani va avanti un’altra occupazione, quella del Tasso, liceo storico della capitale considerato d’elite perché frequentato dalla buona borghesia cittadina, dove il programma dei corsi autogestiti sembra quello di un festival di politica o giornalismo di prim’ordine. Scrittori, conduttori televisivi, politici e attivisti, da Alessandro Zan a Michela Murgia, dal premio strega Edoardo Albinati a Riccardo Noury di Amnesty International, si alternano in un programma serrato, che conta dodici ospiti per una platea di almeno 350 studenti. La scuola, frequentata da circa mille alunni, è blindata. All’esterno campeggiano due grandi striscioni. “Scuola, spazi, socialità, ci riprendiamo tutto”, recita uno dei due. Fuori dalla porta d’ingresso principale una lunga lettera elenca i motivi dell’occupazione. «È tempo che il nostro Paese si avvii verso una radicale rivoluzione culturale. Gli ultimi tre decenni mostrano i sintomi di una società destinata a un declino sempre più rapido», si legge nella lettera del “Collettivo politico Tasso”. Tra i punti del manifesto la necessità di difendere la Giustizia dalle ingerenze della politica, una fiscalità progressiva, normative per contrastare l’evasione fiscale, un sistema sanitario da accentrare amministrativamente e rafforzare con la medicina territoriale, un’Unione europea più democratica e competitiva e la promessa di combattere un sistema che potrebbe inghiottire gli studenti, garantendo loro di realizzare le proprie aspirazioni “grazia al sostegno delle famiglie”, ma dimenticandosi degli ultimi.

I ragazzi del Tasso sanno bene di essere privilegiati, ma in virtù di questo – spiegano ancora nel comunicato – sono intenzionati a battersi per tutti. «Siamo un liceo del centro di Roma, siamo figli di famiglie agiate, ma questo non va a intaccare il senso della nostra protesta, anche perché il modello fa schifo anche anche a noi, e la battaglia la facciamo uniti come movimento studentesco cittadino», spiega uno di loro a TPI. Frequenta l’ultimo anno, non ha particolari aspirazioni per il futuro, ma vuole “essere libero”. Proprio la consapevolezza di frequentare un liceo elitario è stata per molti compagni, racconta, fonte di disagio e stress, per il comportamento dei docenti in classe ma anche per le pretese dei genitori. «Io sono più tranquillo e ho un rapporto più distaccato con la scuola, ma ho visto persone devastate. Si ha paura dei professori, che invece dovrebbero essere dalla parte degli studenti e aiutare chi è in difficoltà, e dei genitori, che mettono troppa pressione», sottolinea. Indossa una felpa nera con una scritta verde elettrico in stile anni Ottanta e racconta che l’occupazione dell’anno scorso gli ha cambiato la vita. Per questo non accetta le critiche dei detrattori, secondo cui le occupazioni autunnali servono solo a evitare le lezioni e non portano a un effettivo cambiamento, perché è convinto che le attività decise dagli studenti formeranno cittadini migliori. «Ci credono nullafacenti, pensano che vogliamo occupare per non fare niente, ma inviterei queste persone a vedere come gestiamo le cose. Vedo ragazzi presi che si impegnano ogni giorno, non solo durante l’occupazione, ma in generale all’interno delle attività extra scolastiche organizzate dal collettivo. Rispettano l’impegno preso anche se hanno otto materie da studiare per il giorno dopo. L’occupazione è parte di un percorso – conclude – quando usciremo da scuola saremo più coscienti politicamente: questi ragazzi porteranno questo cambiamento nella loro vita, all’interno della società».

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