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Home » Cronaca

Tutte le balle che circolano sui vaccini

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Nell’ultima puntata di “Parole chiare in medicina”, avevamo risposto a diverse obiezioni che vengono spesso sollevate dal fronte cosiddetto No-vax contro i vaccini anti Sars-Cov-2, cercando di far capire al lettore quanto esse siano inconsistenti. 

Dopo la pubblicazione di quell’articolo, in pochi giorni tante persone sia sul web che nella vita reale, non tutti necessariamente contrarie al vaccino ma magari solo spaventate, mi hanno posto numerosi altri interrogativi che giudico molto interessanti e a cui proverò oggi a dare risposta, nella speranza di eliminare quei dubbi residui che ancora scoraggiano molte persone a prenotare il vaccino. Vediamoli uno per uno.

1) “Ammesso pure che sia vero che il vaccino riduce il rischio di morte e ospedalizzazione, non ci sono prove scientifiche che il vaccino riduca la trasmissione dell’infezione agli altri, quindi  il vaccinarsi o meno è una scelta personale, che riguarda il singolo e non la comunità: pertanto, devo poter essere libero di vaccinarmi o no; e se sono giovane e per il Covid rischio poco, non posso essere costretto a  vaccinarmi per entrare al ristorante o al cinema”. Cominciamo col dire che anche fosse vero – e, come vedremo, non lo è assolutamente – che i vaccini riducono solo il rischio di ospedalizzazione e morte ma non la trasmissione dell’infezione, questo non renderebbe automaticamente sbagliato attuare politiche per incoraggiare la vaccinazione anche tra i giovani, perché pure se sei giovane, un certo rischio, per quanto basso, che se becchi la malattia finisci in ospedale o in Terapia Intensiva (o peggio al cimitero) esiste: se non ci credete, andate a vedere cosa è successo in un Paese con età media molto più bassa della nostra come il Brasile al picco della pandemia: le terapie intensive erano piene di persone giovani o al più di mezz’età (40-50 anni) attaccati al ventilatore.

E se voi uomini e donne con meno di 60 anni finite in ospedale o addirittura in Terapia Intensiva perché non vi siete vaccinati, al di là del fatto che i costi delle cure poi ve li paghiamo anche noi vaccinati (il che  sarebbe tutto sommato un problema minore), il punto è che, in questo modo, togliete posti letto ad altre persone che hanno altre malattie rispetto alle quali non ci sono vaccini a disposizione per proteggersi; quindi, al di là dell’efficacia dei vaccini rispetto alla trasmissione dell’infezione, non è vero che non vaccinandovi rischiate di far male solo a voi stessi: rischiate di farlo indirettamente anche agli altri, sottraendo posti letto e risorse per garantire cure adeguate a chi ne ha bisogno e che si è ammalato senza colpa alcuna. Senza contare poi che, ad esempio, non mi pare che il casco o le cinture di sicurezza proteggano gli altri da noi, evidentemente proteggono solo noi stessi: eppure non mi risultano grandi manifestazioni di piazza contro il casco o le cinture di sicurezza quando il legislatore li ha resi obbligatori. Questo dimostra quanto sia strumentale questa obiezione.

Ma, al di là di tutto questo (che, a mio parere, già basta e avanza!), l’argomento fondamentale rispetto a questa contestazione è: non è assolutamente vero che i vaccini non riducano la trasmissione dell’infezione. Questa bufala nasce da un grande equivoco che probabilmente risale a quando, qualche mese fa, noi medici e scienziati avevamo detto che dai grandi trial era emersa oltre ogni ragionevole dubbio l’efficacia dei vaccini rispetto all’infezione sintomatica, ma non c’erano dati su quanto essi fossero efficaci nel ridurre l’infezione asintomatica e, di conseguenza, la trasmissione del virus nella comunità. Quello che dicevamo allora era assolutamente corretto: il fatto è che da allora si sono accumulati tantissimi dati che dimostrano oggi in maniera inequivocabile lo straordinario impatto positivo dei vaccini non solo a proteggere le persone dall’ospedale e dal cimitero, ma anche dall’infezione asintomatica. Nella precedente puntata della rubrica avevamo già portato un dato solidissimo a favore di ciò, ovvero l’abbassamento impressionante dell’età media dei contagi da quando i vaccini sono entrati in azione. Di fatto, accade che in proporzione oggi si infettano di più (sia in forma sintomatica che asintomatica) i giovani rispetto agli anziani, in quanto la copertura vaccinale tra i giovani è più bassa. Qualcuno ha obiettato: “questo dato non mi basta, perché c’è sempre un certo grado di imprecisione nel tracciare i contagi, voglio sapere se ci sono studi scientifici controllati che dimostrano quanto dici”.  La risposta, signori, è sì. Ce ne sono diversi di studi a riguardo: l’ultimo, bellissimo, è uscito la settimana scorsa sulla più importante rivista di medicina al mondo, il New England Journal of Medicine.

In questo studio prospettico condotto negli Stati Uniti tra dicembre 2020 e aprile 2021, sono stati reclutate 3.975 persone, principalmente tra il personale sanitario e mediamente giovani (nel 72 per cento dei casi, avevano un’età tra i 18 e 49 anni): al termine dello studio, 3179 risultavano essere almeno parzialmente vaccinate (ovvero avevano ricevuto almeno una dose o del vaccino Pfizer o di Moderna da almeno 14 giorni) e, di queste, 2686 avevano completato il ciclo vaccinale (ovvero avevano ricevuto entrambe le dosi o di Pfizer o di Moderna da almeno 14 giorni); i restanti risultavano essere non vaccinati. Tutte le persone coinvolte nello studio una volta a settimana sono state sottoposte a test molecolare per la ricerca di SARS COV 2 indipendentemente dalla presenza o meno di qualsivoglia sintomo: l’obiettivo primario dello studio era confrontare il tasso di infezione (sia sintomatica che asintomatica) tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati.

Alla fine dello studio, è stata documentata l’infezione da SARS COV 2 in 204 persone, di cui 5 vaccinate a ciclo completo, 11 vaccinate con dose singola e ben 156 non vaccinate. In definitiva, in questo studio l’efficacia dei vaccini a mRNA in termini di protezione dall’infezione (considerando sia l’infezione sintomatica che quella asintomatica) è risultata essere del 91 per cento con la vaccinazione completa (due dosi da almeno 14 giorni) e dell’81 per cento con la vaccinazione parziale (singola dose da almeno 14 giorni). Non solo. Questo studio ha anche prodotto l’ennesima conferma che i vaccinati le rare volte che si infettano si ammalano in modo molto meno grave dei non vaccinati: nello specifico, tra i vaccinati positivi a SARS COV 2, gli scienziati hanno rilevato da un lato una riduzione del 58 per cento del rischio di sviluppare sintomi febbrili, e dall’altro una durata di malattia significativamente più breve rispetto agli infetti non vaccinati (mediamente, i vaccinati positivi andavano incontro a sei giorni in meno di malattia sintomatica e restavano 2 giorni in meno a letto malati).

Infine, last but not least, tra i vaccinati positivi all’infezione, la carica virale è risultata essere mediamente del 40 per cento inferiore rispetto agli infetti non vaccinati. E poiché, con ogni probabilità, la carica virale è uno dei fattori che più determina la contagiosità del singolo infetto, se ne ricava che, a parità di altre condizioni (in primis, numero di contatti interpersonali), il vaccinato che si infetta è molto meno contagioso dell’infetto non vaccinato. Da notare che questo studio è in sostanziale accordo con lo studio SIREN condotto nel Regno Unito e pubblicato su un’altra importantissima rivista di medicina, Lancet, a maggio 2021, che ha documentato un’efficacia del vaccino Pfizer nel ridurre il tasso di infezione (sia sintomatica che asintomatica) del 70 per cento a partire da 21 giorni dopo la prima dose e dell’85 per cento a partire da 7 giorni dopo la seconda dose.

Anche il risultato dello studio del New England secondo cui i vaccinati quando si infettano presentano una carica virale significativamente minore rispetto ai non   vaccinati positivi al virus non è un dato nuovo, ma era già  noto da tempo, essendo stata pubblicata a marzo 2021 una ricerca su Nature Medine, in cui era stata individuata una carica virale tra 2.8 e 4.5 volte più bassa nei vaccinati infetti rispetto agli infetti non vaccinati. A tutto ciò si aggiunge poi uno studio israeliano che ha mostrato che il secondary attack rate (qui inteso come il numero di infettati in rapporto ai contatti stretti totali di un singolo infetto) è significativamente minore tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati.  Detto in altri termini: se si infetta un vaccinato, a parità di contatti, determinerà meno casi di nuova infezione rispetto a un non vaccinato. Per cui, se ti infetti da non vaccinato, hai maggiore probabilità di spargere l’infezione e di far crescere l’epidemia rispetto a se ti infetti da vaccinato.

Di fronte a questa enorme mole di dati, qualcuno potrebbe obbiettare che tutti gli studi fin qui citati sono stati condotti prima dell’esplosione della variante delta e che magari quello che era vero allora non è più vero adesso. Anche qui, signori, con ogni probabilità vi sbagliate. Anche se è verosimile che la diffusione della variante delta abbia ridotto parzialmente l’efficacia dei vaccini rispetto alla capacità di bloccare la catena di trasmissione del contagio, dai primi dati a disposizione questa efficacia resta comunque ottima. Ciò è suggerito da uno studio preliminare, ancora non pubblicato poiché in fase di peer review (cioè da revisione da parte degli esperti)ma già a disposizione della comunità scientifica, che documenta che, almeno nel contesto inglese, i vaccini (compresa Astra Zeneca) in termini globali a ciclo vaccinale completo hanno un’efficacia di circa il 70% nel ridurre l’infezione da variante delta (contando sia l’infezione sintomatica che asintomatica).

Insomma, ricapitolando, ad oggi sappiamo che: 

  • i vaccini (tutti i vaccini) riducono drasticamente (fino al 90-95 per cento) il rischio di  morte e di ospedalizzazione; 
  • anche tra i giovani, quando un vaccinato si infetta, si ammala di regola in modo molto meno grave rispetto a un non vaccinato (ovvero, anche tra due giovani che beccano la malattia in una forma che non richiede l’ospedalizzazione, il vaccinato avrà  meno sintomi e guarirà significativamente prima); 
  • quando si infetta, un vaccinato in media presenta una carica virale minore rispetto a un non vaccinato e quindi tendenzialmente risulta meno contagioso; 
  •  da gennaio ad oggi, si sono accumulati numerosi dati, ormai ampiamente consolidati, circa la straordinaria efficacia del vaccino nel ridurre non solo morte e ospedalizzazione ma anche l’infezione asintomatica e la trasmissione del contagio. Con preciso riferimento alla variante delta, su questo specifico aspetto, rispetto alla forma asintomatica di malattia abbiamo effettivamente ad oggi meno dati che per le altre varianti, ma quelli preliminari a disposizione sembrano comunque molto rassicuranti. Se qualcuno pensa poi che il motivo per cui abbiamo oggi meno dati sull’efficacia dei vaccini rispetto all’infezione asintomatica da variante delta rispetto alle altre varianti sia legato al fatto che gli scienziati hanno qualcosa da nascondere, la risposta è “no, non è così”.  Semplicemente, la variante delta è comparsa da poco e, quando è apparsa, la prima preoccupazione dei ricercatori, così come avviene sempre e come è avvenuto anche in occasione degli studi sperimentali dell’estate-autunno 2020 sull’efficacia dei vaccini rispetto alla forma di SARS COV 2 allora dominante, è stata quella di andare a vedere anzitutto se i vaccini avessero efficacia rispetto alla malattia sintomatica prodotta da questa nuova variante, la delta appunto. E questo per l’ovvia ragione che la malattia sintomatica fa più paura di quella asintomatica.  Ebbene, dagli studi condotti è emerso che, a ciclo vaccinale completo, l’efficacia dei vaccini resta straordinaria anche rispetto alle infezioni sintomatiche da variante delta. Solo dopo gli scienziati hanno cominciato a misurare anche la protezione offerta dai vaccini dall’infezione asintomatica prodotta da delta e tra non molto su questo specifico aspetto avremo molto più dati pubblicati di quanti ne abbiamo oggi e potremmo allora essere più precisi; in ogni caso, possiamo già dire che, se il buon giorno si vede dal mattino, sembra che possiamo stare più che tranquilli: anche se probabilmente in misura inferiore rispetto al ceppo originario, tutto lascia infatti ritenere che, anche rispetto all’infezione asintomatica e alla trasmissione del contagio da variante delta, i vaccini, a ciclo completo, continuino a fare egregiamente il loro lavoro.

La conclusione logica di tutto questo discorso allora non può che essere una e una soltanto: non vaccinarsi, oltre ad essere un atto stupido e masochista (tipo non mettere il casco sul motorino o la cintura di sicurezza in auto), è un atto sommamente egoista e irresponsabile verso gli altri esseri umani, in particolare verso quei pochi che per cause di forza maggiore non possono vaccinarsi e verso quei pochi sfortunati che non sono protetti dal vaccino.

2) “Non si conoscono gli effetti a lungo termine del vaccino: sono giovane, rischio poco per il COVID, perché mi dovrei far iniettare una sostanza che magari in futuro mi produrrà danni seri? Allora, quando qualcuno fa questa obiezione, vi suggerisco di rispondere così: “ogni volta che un farmaco di qualunque tipo viene approvato non si conoscono gli effetti a lungo termine perché i trial durano al massimo qualche anno; se fosse necessario aspettare decenni per l’autorizzazione di un farmaco, oggi useremmo ancora le medicine che si usavano al tempo della seconda guerra mondiale”. E quando parlo di medicine, non faccio necessariamente riferimento a farmaci salva vita: anche semplicemente un nuovo antidolorifico per cui nei trial è emerso un rapporto efficacia/sicurezza favorevole viene autorizzato dalle agenzie regolatorie senza aspettare decenni; e quando viene approvato, i medici lo iniziano subito a prescrivere e i pazienti ad assumere senza dire: chissà se hanno escluso gli effetti a lungo termine. 

Con specifico riguardo ai vaccini poi, dobbiamo ricordare, solo a titolo d’esempio, che anche quando il vaccino contro la poliomelite è stato messo a punto e somministrato per la prima volta nessuno ne conosceva gli effetti a distanza di decenni. Eppure la gente si è vaccinata senza problemi e oggi, almeno alle nostre latitudini, grazie al vaccino la poliomelite praticamente non esiste più. Non solo. Se incontrate qualcuno che dice “il problema è la tecnologia dei vaccini a mRNA che nessuno conosce e potenzialmente potrebbe dare effetti avversi a lungo termine sul nostro genoma”, la risposta più appropriata, se vogliamo essere fini, è: “stai dicendo una corbelleria”.

E questo per svariate ragioni: a) i farmaci ad mRNA non si integrano nel nostro genoma: dopo che l’mRNA è stato tradotto in proteine dalle cellula, dopo pochi minuti viene degradato completamente dalla cellula stessa e non ne rimane più traccia; b) non è vero che la tecnologia dei farmaci ad mRNA sia nata coi vaccini per SARS COV 2, ma è studiata da oltre 10 anni ed è stata sperimentata sia rispetto a malattie infettive (tra cui l’HIV e l’influenza) sia rispetto a vari tipi di tumore (come un tumore del cervello chiamato glioblastoma o un tumore della pelle chiamato melanoma). Ebbene, a distanza di oltre 10 anni dalle prime sperimentazioni, in nessun caso sono emersi particolari effetti avversi sulle persone a cui questi farmaci sono stati somministrati.

Quindi, non c’è ad oggi nessun motivo valido di temere particolari effetti avversi a lungo termine dei vaccini contro il COVID, compresi quelli ad mRNA. Infine, a chi è in allarme per i rischi a lungo termine dei vaccini, faccio notare una cosa: non conosciamo, è vero, con certezza gli effetti a lungo termine dei vaccini contro il COVID, ma se è per questo non conosciamo neanche gli effetti a lungo termine della malattia COVID-19. Dai primi dati sappiamo però che in un’alta percentuale di casi, anche dopo la dichiarazione di guarigione dall’infezione, i pazienti continuano ad accusare sintomi spesso estremamente fastidiosi, e se ciò come sempre riguarda di più gli anziani, neanche i giovani ne sono completamente esenti. Tra questi sintomi rientra una gravissima astenia, cioè un’estrema stanchezza che rende difficile fare le cose di tutti i giorni, ma anche sintomi neurologici come disturbi della memoria e dell’attenzione. Si tratta della cosiddetta “long- COVID syndrome” su cui solo adesso cominciamo a capire qualcosa.

Quello che intendo dire, insomma, è che non ha un senso al mondo non vaccinarsi per evitare il rischio a lungo termine di effetti avversi estremamente improbabili dei vaccini, sapendo che ciò implica il rischio concreto nel breve termine di prendersi il COVID, malattia per inciso, i cui affetti avversi a lungo termine che pure non conosciamo, a differenza di quelli del vaccino, paiono oggi tutt’altro che improbabili, almeno in una certa percentuale dei casi. Insomma, per farla breve ed estremizzando un po’: non fare il vaccino oggi per il rischio di effetti avversi a lungo termine del vaccino esponendosi al rischio concreto del COVID è un po’ come non mettersi il casco per evitare il rischio di improbabilissimi effetti avversi a lungo termine del casco rischiando di beccarsi così quelli a breve e lungo termine dell’incidente stradale. Del resto, perdonatemi: chi ha mai escluso gli effetti avversi a lungo termine del casco?!

3) “Ho sentito dire che esistono protocolli di cura a domicilio estremamente efficaci in grado di cancellare il COVID in 24-48 ore, e che se venissero usati renderebbero inutili i vaccini”. Ecco qui tocchiamo l’apice: quali sarebbero questi protocolli di cura così efficaci? Dove sono stati pubblicati? Quali sono gli studi che li hanno messi a punto? Quali sarebbero i farmaci in questione? Qui cala il mistero più totale. Signori miei, la verità è una sola: se i farmaci ci fossero, noi medici saremmo i primi ad essere contenti della possibilità di somministrarli ai nostri pazienti. Così come siamo stati contenti quando, grazie ai farmaci, è stato possibile eradicare l’epatite C, malattia per cui non abbiamo un vaccino, ma che grazie a medicine potentissime possiamo oggi guarire in quasi il 100 per cento dei casi. Se per il COVID ci fossero farmaci della medesima efficacia vi garantisco che li somministreremmo. Del resto, in base a quella logica assurda, l’epatite C decidiamo di guarirla e il COVID no? E’ evidentemente che stiamo parlando del nulla. Con questo non voglio dire che per il COVID non abbiamo nessun farmaco, ce ne abbiamo diversi, ed è vero che i protocolli di cura da quando l’epidemia è esplosa sono migliorati, ma vi garantisco che nessuno tra i farmaci a disposizione è risolutivo (delle cure farmacologiche possibili per il COVID parleremo poi nel dettaglio in uno dei prossimi articoli di questa rubrica). Per cui, mentre la ricerca va avanti anche sul fronte dei farmaci, affidiamoci alle armi che abbiamo oggi a disposizione e che sappiamo essere estremamente efficaci: vaccini, distanziamento sociale e tracciamento.

*** Questo articolo fa parte della rubrica di TPI “Parole chiare in medicina” tenuta dal medico neurologo dell’INRCA (Istituto Nazionale di Ricovero e Cura dell’Anziano) Leonardo Biscetti. Apparentemente sul Covid gli scienziati dicono tutto e il contrario di tutto. Vi faremo capire che la scienza non è un’opinione. Vi spiegheremo i dati e gli studi più recenti sulla pandemia. E non solo.

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