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“Ecco come si vive sotto sequestro”: leggete queste testimonianze prima di giudicare Silvia Romano

Immagine di copertina
Illustrazione: Emanuele Fucecchi

Violenze, sporcizia e silenzi infiniti: cosa significa davvero essere rapiti e vivere sotto sequestro

Il sequestro di persona è un evento traumatico che spesso i sequestrati, in seguito alla liberazione, hanno pudore di raccontare. O che al contrario raccontano in maniera intima e personale, dimostrando però che non esiste un unico vissuto o le stesse conseguenze psicologiche, ma modi molto soggettivi di elaborare il trauma. Non sappiamo, ad esempio, se Silvia Romano sia davvero stata trattata bene come trapelato, non sappiamo se la conversione sia stata obbligo o conforto, non sappiamo se dorme la notte, quale e quanti strascichi l’esperienza le abbia lasciato e le lascerà.

La storia dei sequestri racconta vicende molto diverse e una parte più esigua coinvolge le donne perché da sempre, non solo in Italia, nei sequestri a scopo di estorsione i rapitori prediligono vittime maschili. Perché sono più forti, fisicamente, più resistenti alle privazioni, e dunque solo nel nostro paese dal 1965 al 1997 ci sono stati 700 casi di sequestro e l’80 per cento dei rapiti erano uomini.

Silvia Romano avrebbe detto “Sono stata forte, ho resistito”, e ad analizzare le testimonianze di chi ha vissuto una situazione estrema e drammatica come la sua, le vittime trovano appigli per la sopravvivenza in elementi e ragioni diverse. Uno studio molto approfondito condotto dalla Clinica Psichiatrica del Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche dell’Università di Padova si è basato su interviste a 24 ex sequestrati che hanno chiesto di rimanere anonimi. Lo stesso studio suddivide l’aspetto traumatico in varie fasi. Quella iniziale, il momento della cattura, è probabilmente la più traumatica, perché nella vittima prevalgono sensazioni di panico e di paura, oltre che talvolta di vera e propria fatica fisica.

Silvia Romano ha raccontato di aver camminato giorni dopo un tratto in moto e i momenti successivi alla cattura sono solitamente i più spaventosi e talvolta rocamboleschi. Uno degli intervistati dagli psicologi che hanno condotto lo studio citato ha affermato: “Ho provato una grande paura, panico, è stato come trovarmi davanti alla mia morte; ho sentito il sangue raggelarsi nelle vene, ho perso il controllo degli sfinteri”.

Altri, già provati psicologicamente, hanno raccontato di aver camminato anche 11 ore di seguito in località impervie (soprattutto per i sequestri in Aspromonte e Barbagia) e di aver creduto di morire lì, per la tensione e la fatica. Il viaggio di Carlo Celadon, sequestrato nel 1988 in Veneto e chiuso nel bagagliaio di un auto, durò 17 ore. Dovette urinarsi addosso. Uno dei problemi raccontati con più disagio dai sequestrati è quello che riguarda l’igiene personale. Molti non hanno potuto lavarsi per mesi e addirittura anni, altri potevano lavarsi solo il viso e le mani. “Dovevo chiedere il permesso per ogni cosa e dovevo espletare le mie necessità fisiologiche davanti al loro”, ha raccontato un ex sequestrato.

Per le donne poi i problemi igienici sono aggravati dal ciclo mestruale. Barbara Schild, sequestrata nel 1980 con la figlia Daphne, raccontò che uno dei carcerieri, quello da lei soprannominato “il Vivandiere” perché si occupava di cucinare i pasti, una volta tornò con una busta contenente degli assorbenti delle donne. Era uno dei ricordi più vivi, perché in quelle condizioni, senza potersi lavare e cambiare di abiti, le mestruazioni rappresentano un ulteriore trauma. Per fortuna, se così si può dire, spesso il trauma della prigionia causa nelle donne l’amenorrea, il blocco del ciclo, almeno per i primi tempi.

Sempre Carlo Celadon, la vittima del sequestro più lungo della storia (831 giorni in mano alla ‘ndrangheta, nell’Aspromonte), raccontò che nella buca in cui l’avevano incatenato spesso rimaneva nell’acqua per giorni, entravano topi e serpenti e i sequestratori gli avevano dato un bastone per difendersi. Un altro tema importante poi è quello del passare del tempo, che per i sequestrati è vissuto con angoscia per via dell’immobilità, della frequenta assenza di giornali o interlocutori, per alcuni addirittura per l’assenza di luce perché bendati per lunghi periodi.

Una vittima, come descritto dallo studio sui 24 ex sequestrati, raccontò di aver avuto sintomi dissociativi. Aveva bisogno di riprodurre con la mente situazioni confortanti, familiari, per non perdere la testa: “A volte mi capitava di concentrarmi a tal punto che riuscivo a sentire e a vedere le cose come se fossero reali, sentivo gli odori, la caduta del cucchiaio nella mia cucina; poiché non potevo lavarmi immaginavo di farmi la doccia, riuscivo persino a sentire l’acqua e l’odore del bagnoschiuma”.

Cesare Casella, 743 giorni di prigionia, racconta che faceva stretching e null’altro, a parte qualche partita a carte talvolta con i suoi carcerieri. Carlo Celadon contava fino a 25.000. Il rapporto tra carcerieri e rapiti è oggetto degli studi più approfonditi e anche senza sfociare nella famosa “sindrome di Stoccolma”, spesso è un legame forte, talvolta di difficile lettura dall’esterno.

Se Celadon racconta di aver subito violenze anche fisiche (“Sono stato picchiato due volte: una perché piangevo, l’altra perché pregavo. È entrato uno di loro e mi ha detto: ‘Ti uccido come un cane se ti sento piangere un’altra volta”), molti dei rapiti restituiscono un ritratto umano dei loro sequestratori. Non solo Silvia Romano, per intenderci. Fabrizio De Andrè descrisse i suoi rapitori così: “Ho perdonato loro perché, potendoci fare del male, hanno scelto di trattarci bene. Hanno fatto di tutto perché Dori ed io soffrissimo il meno possibile. Ricordo che uno di loro una sera aveva bevuto un po’ di grappa di troppo e si lasciò andare fino a dire che non godeva certo della nostra situazione”.

Alessandra Sgarella, rapita nel 1997 e rimasta 9 mesi sotto sequestro, non dimenticò la mozzarella congelata che aveva ricevuto come pasto per festeggiare il Natale, una sorta di appiglio psicologico in cui forse riuscì a intravedere uno straccio di umanità. Ricordò anche che i rapitori le chiedevano spesso se avesse caldo o freddo. Per i rapitori queste “premure” sono semplicemente funzionali al preservare integro l’ostaggio per avere il riscatto, ma dai sequestrati vengono spesso interpretate come forme di attenzione.

“La situazione era così pesante che ad un certo punto sono scattati dei meccanismi interni per sopravvivere. Durante la prigionia si rimuove ogni forma di critica, cadono i ruoli, non li vedi come banditi, ma come persone. Io avevo dato ad ognuno di loro un nomignolo e con alcuni si era creato un rapporto confidenziale e sereno. Uno di loro era incaricato di parlare con me per smorzare la mia solitudine (io stavo dentro una cella)… gli unici stimoli vengono da loro… per sopravvivere non riesci a creare una rottura totale… si crea un legame anche molto forte”, ha raccontato uno degli intervistati nello studio citato.

È probabile che Silvia Romano abbia trovato nella lettura del Corano non solo la fede, ma anche o soprattutto una motivazione. Un appiglio per la sopravvivenza psicologica in una situazione di solitudine e angoscia. E che questa conversione abbia anche rappresentato un collante con i suoi carceriere necessario a mostrarle la realtà in modo meno spaventoso. Dopo la liberazione, le persone che hanno vissuto un lungo periodo di carcerazione soffrono quasi sempre di disturbo post-traumatico da stress, sebbene tale disturbo possa presentare delle caratteristiche molto diverse da persona a persona.

“Non volevo più vedere nessuno della mia famiglia. I rapitori mi avevano convinto che più nessuno si preoccupava di me, che tutti mi avevano abbandonato. Mi sveglio alle sei del mattino. Dormo poco e male, mi giro continuamente, non sono più abituato al letto”, dichiarò Celadon quando tornò a casa dopo 831 giorni di prigionia. Anche altri ex sequestrati hanno faticato a dormire nel proprio letto, altri non riuscivano a dormire in casa da soli, alcuni per un lungo periodo hanno preferito dormire sul pavimento altrimenti non riuscivano a prendere sonno. Molti ex sequestrati hanno conservato paura e angoscia nel sentire suoni che udivano durante la prigionia.

Secondo lo studio dell’università di Padova, “le vittime di sequestro di persona vivono, in molti casi, circondati da oggetti, odori, rumori che riportano la memoria al sequestro, da luoghi che ricordano la loro prigionia. La campagna, l’odore del cisto, il pane con il formaggio, l’abbaiare lontano dei cani, i pastori vestiti con l’abito tradizionale, sono fonti di richiami improvvisi e di ricordi dolorosi”.

Un ex-sequestrato in Sudan, che aveva vissuto sotto minaccia di essere fucilato, tre anni dopo essere tornato a casa sentiva “ l’odore caratteristico della terra bruciata provocato dai fuochi che i sequestratori accendevano per scaldare il tè”. Alcuni ex sequestrati invece sviluppano una sorta di dipendenza dal silenzio e dalla solitudine, per cui faticano a reinserirsi nella vita sociale o semplicemente in ambienti rumorosi. Qualcuno ha addirittura dichiarato di “rimpiangere ogni tanto la “tranquillità” e il silenzio dei momenti trascorsi in prigionia”. Un’altra ha affermato: “Appena liberato mi dava fastidio il chiasso e qualsiasi rumore, allora andavo alla ricerca di “quel” silenzio e di quell’isolamento; all’inizio mi dava fastidio qualsiasi rumore e mi mettevo i tappi nelle orecchie”.

Cesare Casella, in una vecchia intervista dichiarò: “Dopo sei mesi dalla mia liberazione andai a vivere da solo, non ero più abituato a vivere con gli altri”. Insomma, chiunque pensa di riuscire a interpretare cosa ci sia dietro al sorriso di Silvia Romano sa poco di lei e nulla di quello che significa un sequestro di persona.

Leggi anche: 1. Non scambiamo per libertà una scelta avvenuta in prigionia (di S. Mentana) / 2. Quella tunica verde di Silvia: dovevamo proteggerla e invece abbiamo lasciato che fosse un regalo per i terroristi di Al Shabaab (di M. Vigneri)

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