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Home » Cronaca

L’Italia non è un paese per donne e vi spieghiamo il perché

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Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Da pochi giorni è stato pubblicato dall’Istat il rapporto Bes 2020, che si occupa di misurare il benessere equo sostenibile del nostro Paese attraverso 12 domini. Uno di questi riguarda il “lavoro e la conciliazione dei tempi di vita”, infatti, secondo l’Istituto Nazionale di Statistica, “possedere un lavoro dignitoso, adeguatamente remunerato, sicuro e rispondente alle competenze, è un aspetto che contribuisce in modo decisivo al benessere delle persone. La mancanza di una occupazione di qualità ha un impatto negativo sul livello di benessere, così come lo ha una distribuzione poco equa degli impegni lavorativi, che impedisce di conciliare tempi di lavoro e tempi di vita familiare e sociale”.

S&D

Purtroppo, il nostro Paese non se la passa benissimo da questo punto di vista e la pandemia da Covid-19 non ha sicuramente aiutato. L’Italia non è un paese per giovani, ma non è nemmeno un paese per donne. Le donne italiane sono prime per carico di lavoro familiare e agli ultimi posti per tassi di occupazione, nel 2019 il tasso di occupazione femminile si attestava intorno al 50,1% (contro una media europea del 62,3%) ma con la pandemia il tasso è scivolato al 48,6%, ben 19 punti percentuali in meno rispetto al tasso occupazionale maschile.

Sui 444 mila posti di lavoro persi nel 2020, 312 mila appartenevano a donne. Nel solo mese di dicembre, rispetto al mese precedente, l’Istat segnala che su 101 mila occupati in meno 99 mila sono donne. Il tasso di disoccupazione femminile a dicembre dell’anno scorso è salito al 10% mentre quello di inattività si attesta attorno al 46%. La recessione ha chiaramente confermato e addirittura peggiorato alcuni trend sull’occupazione femminile, inasprendo una situazione già difficile per quanto riguarda il lavoro di cura non retribuito e un welfare pressoché inesistente.

Durante l’emergenza sanitaria sono aumentate di molto le problematiche legate alla conciliazione lavoro e tempi di vita. Nelle circostanze in cui è stato possibile lavorare da casa si è aggiunta la necessità di affiancare i figli durante la Dad, magari, proprio durante il telelavoro. Questo ha inciso soprattutto sulle donne che hanno sempre mantenuto un carico di lavoro di cura maggiore rispetto agli uomini. La situazione appena descritta, seppur complessa, è stata comunque la “migliore possibile” perché quando invece non è stato possibile lavorare da casa oltre all’assenza dei servizi formali sono venuti meno anche quelli informali, come, ad esempio, la possibilità di farsi aiutare dai nonni, con molteplici difficoltà nella gestione familiare.

Ad oggi, dopo un anno, la situazione non è cambiata, le scuole chiudono e i genitori si trovano nella stessa situazione di prima, se non peggiore. Mentre l’anno scorso a fermarsi è stato l’intero Paese, oggi ci troviamo nel contesto che vede le scuole chiuse mentre molti genitori devono andare a lavoro in presenza. Insomma, la situazione si complica. Nelle zone rosse resteranno chiusi anche asili nido e scuole dell’infanzia, secondo i dati oltre 9 studenti su 10 resteranno a casa.

Le ultime misure prevedono congedi parentali retroattivi dal 1° gennaio 2021, retribuiti al 50% per chi ha figli minori di 14 anni, mentre per chi ha figli dai 14 ai 16 anni questi congedi non saranno retribuiti. Forze dell’ordine, operatori sanitari e lavoratori autonomi, in alternativa al congedo parentale, avranno diritto al bonus baby sitter da 100 euro a settimana (chi lavora 8 ore al giorno di un bonus da 100 euro a settimana se ne fa molto poco, forse si paga una giornata). Per i dipendenti privati il bonus baby sitter non è previsto, la famiglia si troverà a dover scegliere tra il telelavoro (chiamiamolo con il nome corretto, lo smartworking è altro) o il congedo.

La Banca Mondiale ci dice che, come risultato della chiusura delle scuole, gli individui nei paesi ad alto reddito potrebbero sperimentare un divario di guadagno di 21.158 dollari pro capite causando un calo del PIL fino al 9%. Chiudere le scuole è un costo sociale e ha implicazioni sia sulla vita degli studenti sia su quella delle madri. Cercare di conciliare il lavoro e i tempi di vita è un obiettivo fondamentale per il benessere di tutti, non solo delle donne, ma il nostro Paese fatica a trovare un equilibrio sotto questo punto di vista.

Le donne lavoratrici con figli piccoli erano in difficoltà già prima della pandemia, ora che il contesto è peggiorato, la loro condizione è ancora più complessa. Secondo i dati Istat, se prendiamo in considerazione le donne tra i 25 e i 49 anni nel secondo trimestre 2020, in Italia vediamo che il tasso di occupazione “passa dal 71,9% per le donne senza figli al 53,4% per quelle che ne hanno almeno uno di età inferiore ai 6 anni”.

Nel Mezzogiorno lavora il 34,1% delle donne con figli piccoli, contro il 60,8% del Centro e il 64,3% del Nord. Il 27% delle donne lascia il lavoro dopo il primo figlio e il 21% delle donne italiane in età lavorativa dichiara di non cercare attivamente un’occupazione o di non essere pronta a farlo perché impegnata nel lavoro di cura non pagato e questo continua a non essere supportato né socialmente né tanto meno economicamente. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) sulle donne ricade il 74% del lavoro di cura non pagato, che occupa le donne per circa 5 ore al giorno rispetto a 1 ora e 48 minuti degli uomini.

Il lavoro di cura non è incluso nel calcolo del PIL e questo è un chiaro segnale di come l’economia non consideri una parte fondamentale del lavoro che le donne svolgono tutti i giorni. Esattamente come se non esistesse, come se il Paese non ne avesse bisogno. L’Italia non è un paese per donne, tanto meno per madri lavoratrici. Ora, se il part time poteva rappresentare una soluzione organizzativa al problema del conciliare lavoro retribuito e lavoro di cura, allo stesso tempo è un problema in termini di minore retribuzione, di pensione, prospettive di carriera e quindi di indipendenza economica per la donna.

In Italia il divario tra lavoratori e lavoratrici in termini di part time è ampio: il 7,9% contro il 31,8%. Di quest’ultimo dato, come già evidenziato, dobbiamo tenere conto che nella maggior parte dei casi non è una scelta, ma una necessità. Da questo punto di vista, il part time conferma benissimo lo schema patriarcale su cui si regge la nostra società: l’uomo resta il maggior percettore di reddito, con la migliore probabilità di avanzamento di carriera; la donna continua ad essere l’anello debole della catena dal punto di vista lavorativo, colei che deve dedicare un cospicuo numero di ore al lavoro di cura, andando a sacrificare il lavoro retribuito, penalizzando così la propria carriera.

Non sorprende dunque che per le donne il rischio di finire in situazioni di indigenza sia maggiore rispetto agli uomini. Non sorprende nemmeno il fatto che tante donne siano completamente dipendenti economicamente dagli uomini e continuino ad accettare situazioni da cui si sottrarrebbero volentieri se ne avessero la possibilità. In Italia c’è anche un altro problema di cui dovremmo occuparci seriamente, che peraltro rispecchia le difficili condizioni di cui già abbiamo parlato: la bassa natalità.

Sono 420.084 i nati nel 2019, 20 mila in meno rispetto al 2018, a diminuire sono soprattutto i figli nati da genitori entrambi italiani. Il numero medio di figli per donna continua a scendere: 1,27 figli per donna, sensibilmente inferiore alla soglia che garantirebbe il ricambio generazionale (circa 2,1 figli). Ad oggi la spesa pubblica per asili nido è pari solo al 0,08% del Pil, siamo uno dei Paesi europei che spende meno per l’offerta di questi servizi.

La scelta di investire sui nido avrebbe molteplici effetti positivi: in primo luogo si tratterebbe di un investimento nella lotta alle disuguaglianze, le primissime esperienze di un bambino sono alla base di ogni apprendimento, aumentano il capitale cognitivo e producono effetti positivi su risultati scolastici e abilità comportamentali. In secondo luogo incrementerebbe la parità di genere e la condivisione dei carichi familiari.

In Italia siamo molto lontani dall’obiettivo europeo che prevedeva di avere, per i bambini nella fascia d’età 0-3 anni, una copertura del 33% di posti nido, 1 bambino su 3. Nell’anno 2018-19 la copertura dei posti è stata del 25,5% con un Sud che supera di poco il 10%. L’accesso ai servizi per la primissima infanzia è influenzato dalla bassa capillarità di queste strutture sul territorio nazionale, ma è doveroso considerare anche il fattore socio-economico: secondo l’Istat il reddito netto annuo delle famiglie che usufruiscono del nido è mediamente più alto di quello delle famiglie che non ne usufruiscono.

Dal rapporto Bes emerge anche che sono le famiglie più istruite ad accedere più di frequente ai servizi educativi. Questo dato, purtroppo, conferma come la disuguaglianza socio economica si trasformi facilmente in disuguaglianza di opportunità, andando a penalizzare quei genitori e quei bambini che più ne avrebbero bisogno. Cosa ci aspettiamo, quindi, dalle donne? Stupirci della bassa natalità sembra quasi ridicolo. Per superare i divari di genere e far fronte all’invecchiamento della popolazione è necessario investire in strumenti di supporto alla conciliazione. Non è un caso il fatto che nei territori dove sono presenti asili nido ci sia anche una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro.

Una maggiore diffusione dei servizi per la prima infanzia permette alle donne di lavorare di più e incentivare il lavoro femminile significa spingere il motore della crescita economica, quella di cui abbiamo bisogno in questo momento. Senza questi investimenti le donne continueranno a dover scegliere se lavorare o occuparsi dei figli, oppure, scelta ancora più rischiosa in un momento di crisi demografica come quello che stiamo vivendo, se fare figli o meno.

In un Paese come il nostro, dove non ci sono strumenti a supporto della natalità e della famiglia, come asili nido o tempo pieno, quando risulta necessario occuparsi dei figli (la pandemia ne è un chiaro esempio), la scelta economicamente più logica sarà quella di sacrificare lo stipendio più basso all’interno della coppia. E, nella stragrande maggioranza dei casi, sarà la donna a doversi sacrificare. Lo stesso Presidente del Consiglio Mario Draghi, nel suo discorso per la fiducia al Senato, ha sottolineato come il nostro Paese presenti “uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo. Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi”.

Sottolineando l’intenzione da parte del governo di lavorare per consentire “alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro.” Al centro del progetto per far ripartire il Paese sembra vi sia quindi la rimozione di tutte le cause alla radice del gender pay gap. Concentrandoci su questo indicatore, il Gender pay gap, cioè il divario retributivo di genere, possiamo notare come la media europea sia pari al 14% mentre il nostro paese si trova ben al di sotto (4,7%). Sembra un dato positivo, ma in realtà dobbiamo tener conto di ciò che questo indicatore non considera e che, per la peculiarità del nostro sistema, è invece importante calcolare.

Il gender pay gap prende in esame solo il salario medio senza includere fattori determinanti come, ad esempio, la media degli stipendi orari, la media mensile delle ore o il tasso di occupazione. Come detto in precedenza il tasso di occupazione femminile è inferiore rispetto a quello maschile, così come sono inferiori le ore effettive lavorate dalle donne (contratti part-time). Se consideriamo il Gender Overall Earnings Gap, che a differenza del Gender pay gap, tiene conto di aspetti prima trascurati, la situazione fotografata appare più allarmante. Mentre la media europea si attesta intorno al 36,7%, quella italiana invece sale al 43%, uno dei dati più elevati in Europa.

La situazione retributiva femminile è sicuramente peggiore di quella maschile, ma anche in questo caso, se definiamo la disparità salariale come “la differenza tra la retribuzione di uomini e donne, basata sulla differenza media della retribuzione lorda oraria – al lordo di tassazione e contribuzione per il lavoratore/lavoratrice” non possiamo considerare il dato così com’è. Dal punto di vista lavorativo e da quello della produttività, uomini e donne sono diversi, e questo incide chiaramente sulle metriche salariali. Raffinando ancora il dato, secondo Eurostat la discriminazione effettiva si assesta intorno al 12%.

Sono anni che sentiamo la politica trattare queste tematiche, la situazione però continua ad essere la stessa e i passi avanti sono ancora troppo pochi e troppo lenti. Perpetrare queste logiche danneggia sì le donne ma non è un problema che riguarda solo loro perché queste politiche hanno ricadute sull’intera società e sull’intera economia. Gli esperti ci dicono che gli investimenti nelle infrastrutture per il settore della cura comporterebbero un’importante riduzione del gender gap, non a caso il 2% del PIL investito in questo settore produrrebbe più reddito rispetto alla stessa cifra investita nelle costruzioni.

Uno studio dell’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE) stima che “Il PIL pro capite aumenta con il miglioramento dell’uguaglianza di genere. I risultati mostrano che nell’UE si registrerà unaumento fino al 2%nel medio termine (2030) efino al 10%nel lungo termine (2050). Ciò equivale ad un possibile aumento di 1,95-3,15 trilioni di euro del PIL generale pro capite entro il 2050”.

Ora, la domanda sorge spontanea: perché il nostro Paese continua a non prendere in considerazione le donne come motore per la crescita economica? Sarà davvero possibile utilizzare una parte del Recovery per attuare politiche che abbiano la dichiarata finalità di spianare i divari esistenti? Sicuramente con le nuove misure restrittive per contenere la pandemia, la scuola in DAD e i nuovi lockdown diffusi, ci viene quantomeno da dire che è necessario agire in tempi stretti, e se il vero obiettivo del Recovery Fund è ricostruire, per farlo non è più possibile escludere le donne dalla ripartenza.

Leggi anche: Donne del PD, ora basta: sfondiamo le porte che altrimenti resteranno chiuse (di Monica Cirinnà)

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