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Home » Esteri

Perché Arabia Saudita e Qatar vogliono i porti del Corno d’Africa?

Immagine di copertina

Le ambizioni di Turchia, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita si scontrano nel Corno d'Africa, dove una vera e propria "guerra degli approdi" coinvolge i paesi dell'area centro orientale del continente per il controllo di una delle maggiori vie marittime del mondo e per le risorse dell'entroterra.

L’area del Corno d’Africa è interessata da anni da una guerra commerciale tra i paesi del Golfo persico e non solo, che gestiscono diversi porti sulla costa che si estende a nord dalla Somalia, attraverso Gibuti, Eritrea e Sudan, in direzione del canale di Suez. Qui, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita da una parte e Turchia e Qatar dall’altra si contendono il controllo dei maggiori approdi, sia per motivi commerciali che militari. La sfida vede su fronti opposti il maggior esportatore di petrolio al mondo contro il paese con le più grandi riserve di gas naturale del pianeta.

Queste dispute coinvolgono tutti i paesi dell’area centro orientale africana: Sudan, Etiopia, Eritrea, Somalia e Gibuti, oltre all’autoproclamata repubblica del Somaliland e al territorio autonomo somalo del Puntland. La gestione dei maggiori approdi dell’area restituirebbe ai paesi coinvolti il controllo di una delle maggiori vie marittime al mondo, lo stretto di Bab el-Mandeb, che collega il mar Rosso all’Oceano indiano e al mar Arabico.

Una via commerciale fondamentale: lo stretto di Bab el-Mandeb

Detto anche “Porta delle lacrime” questo collo di bottiglia del commercio internazionale confina a nordest con lo Yemen e a sudovest con Eritrea e Gibuti. Lo stretto è diviso in due canali dall’Isola di Perim. Le navi più grandi utilizzano il canale occidentale più largo, che nel suo punto più stretto misura 25 chilometri ed è profondo 310 metri, mentre le altre si servono del corso d’acqua più piccolo che si snoda lungo la costa yemenita, largo poco più di 3 chilometri.

EIA, Spedizioni petrolio dati 2016
Nella foto: Lo stretto di Bab el-Mandeb è un punto di transito inevitabile per le navi mercantili che trasportano petrolio in direzione del canale di Suez (mappa della US Energy Information Administration elaborata sulla base dei dati del 2016)

Secondo il dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, nel 2016, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, 4,8 milioni di barili al giorno di petrolio greggio e condensati sono passati attraverso questo stretto, di cui circa 2,8 milioni diretti a nord verso l’Europa, e altri 2 milioni nella direzione opposta. Il controllo di questa via d’acqua è fondamentale per gli scambi tra Mediterraneo e Asia, così come per il commercio petrolifero dal Medio Oriente verso Europa e Nord America. Le navi mercantili che dal Golfo Persico sono dirette in Europa potrebbero infatti evitare il Bab el-Mandeb circumnavigando l’Africa, ma questo aumenterebbe le distanze, i tempi e quindi i costi di spedizione. Ad esempio, il viaggio tra l’emirato di Fujairah, all’uscita dal Golfo Persico, negli Emirati Arabi Uniti, e Rotterdam, nei Paesi Bassi, il maggior porto merci d’Europa, aumenterebbe di 4.800 miglia nautiche, pari al 78 per cento del percorso, mentre quello fino ad Augusta, sede del polo petrolchimico siracusano, in Sicilia, sarebbe quasi tre volte più lungo, fino a 10.860 miglia nautiche. Le maggiori distanze aumenterebbero i costi di spedizione e di carburante, limitando gli scambi. Il viaggio tra il maggior terminal petrolifero saudita sul mar Rosso, il porto di Yanbu, e Augusta, dura oggi poco più di 4 giorni contro i 30 che richiederebbe la circumnavigazione dell’Africa.

Le dispute in Medio Oriente investono l’Africa orientale

Le rivalità nella vicina penisola araba stanno provocando gravi conseguenze nel Corno d’Africa e non solo. Queste dispute si sono intensificate a giugno 2017, quando l’Arabia Saudita, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein hanno interrotto i propri legami diplomatici e commerciali con il Qatar, accusando Doha di sostenere il terrorismo, con conseguenze economiche pesanti per il paese. L’emirato ha sempre respinto al mittente le accuse, sostenendo che scopo dei paesi che hanno dato vita alla crisi del Golfo è intervenire negli affari interni del paese.

Questa situazione ha portato alla peggiore crisi mai vista nel Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC), i cui due ultimi vertici, quello del 5 dicembre 2017 in Kuwait e quello del 9 dicembre in Arabia Saudita, sono falliti a causa delle reciproche accuse tra gli stati membri. La crisi riguarda in particolare l’avvicinamento dell’emirato all’Iran, il principale avversario regionale di Riad. L’ultima grande mossa del Qatar in questa disputa è stato l’annuncio del suo ritiro, a partire da gennaio, dall’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec), un organismo da sempre dominato dal regno saudita. Le ragioni ufficiali hanno natura “tecnica e strategica” e non hanno motivazioni politiche. Saad Sherida al-Kaabi, ministro di Stato del Qatar per gli affari energetici, nonché presidente e amministratore delegato della compagnia Qatar Petroleum, ha spiegato che la decisione riflette la volontà di Doha di concentrarsi sulla produzione di gas naturale, che intende incrementare fino a 110 milioni di tonnellate all’anno entro il 2024. A novembre, il Qatar ha esportato 6,27 milioni di tonnellate di gas naturale liquefatto (GNL), classificandosi così come il secondo esportatore mondiale dopo l’Australia.

Mercato petrolifero mondiale 2018 (BP)

Nella foto: una mappa del mercato petrolifero mondiale (elaborata dalla compagnia BP)

Il controllo della maggiore via marittima che collega il Golfo Persico a Europa e Nord America diventa a questo punto un fattore vitale nella disputa tra il paese che possiede le maggiori risorse di gas naturale a livello internazionale, il Qatar, e il maggior esportatore mondiale di petrolio, l’Arabia Saudita che, secondo la compagnia British Petroleum nel 2017 ha esportato oltre 8,238 milioni di barili di petrolio al giorno. Per questo motivo, la faida interna al Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC) sta investendo l’intera Africa centro e nord orientale.

Il maggiore alleato regionale del Qatar è la Turchia, che da quando l’emirato è stato sottoposto al blocco saudita ha provveduto all’approvvigionamento del paese, in termini di trasporti, servizi e cibo. Dal giugno scorso, il volume degli scambi commerciali tra i due paesi è cresciuto di oltre il 30 per cento, mentre i vertici bilaterali tra l’emiro Sheikh Tamim bin Hamad Al-Thani e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sono sempre più frequenti. I due leader si sono incontrati per ben due volte soltanto a novembre. Ankara ha inoltre istituito nel paese arabo un avamposto militare nella base aerea di al-Udeid, nei pressi della capitale dell’emirato, dove sono già di stanza truppe di Stati Uniti, Regno Unito e Francia. Qui, la Turchia prevede di portare gradualmente il numero delle proprio forze fino a 3.000 unità e di mantenere una brigata permanentemente di stanza nel paese del Golfo. In cambio, viste le recenti difficoltà di Ankara e il crollo della lira turca, il Qatar ha promesso ad agosto un investimento da 15 miliardi di dollari in Turchia per sostenerne la valuta e l’economia.

La disputa tra Riad e Doha si gioca sempre più tra i loro alleati. Il paese più vicino alle istanze saudite sono certamente gli Emirati Arabi Uniti, la cui presenza sui tavoli internazionali della regione è cresciuta a dismisura negli ultimi anni. Abu Dhabi appoggia la politica saudita di sostegno al governo egiziano e al suo presidente Abdel Fatah al-Sisi, che ha preso il potere con un colpo di stato nel 2013, è in prima linea nella guerra in Yemen e sostiene Riad nella rivalità contro l’Iran e la sua influenza nella regione.

Secondo un rapporto dell’International Crisis Group (ICG), un’organizzazione non governativa che svolge attività di ricerca sul campo in materia di conflitti, “le rivalità strategiche, comprese quelle all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo che mettono gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita contro il Qatar, spesso motivano la crescente influenza di queste potenze nel Corno d’Africa”, dove hanno “ampliato il proprio ruolo” grazie ai legami storici con questa regione.

L’influenza e la competizione tra gli stati del Golfo potrebbero rimodellare la geopolitica del Corno d’Africa, anche se non necessariamente in senso negativo. Sia gli Emirati Arabi Uniti che l’Arabia Saudita hanno infatti contribuito al recente riavvicinamento tra Etiopia ed Eritrea e tra quest’ultima e Gibuti. La necessità di pace si fa sentire prepotentemente nel Corno d’Africa, un territorio che le Nazioni Unite definiscono “un’area ad alta attività migratoria”, caratterizzata da una migrazione “composita”, cioè con diversi gruppi di popolazione che si spostano per differenti ragioni.

Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), quasi 400mila migranti hanno lasciato Etiopia, Somalia e Gibuti nel 2018, con una media di almeno 2.000 persone al giorno. Il 51 per cento di queste persone emigra da e verso altri paesi della regione, mentre circa il 35 per cento dei migranti è diretto verso il Consiglio di cooperazione del Golfo. Anche in questo senso, l’azione dei paesi arabi per la riconciliazione regionale sembra giustificata.

Il 16 settembre, a Gedda, in Arabia Saudita, il presidente eritreo Isaias Afewerki ha firmato uno storico trattato di pace e amicizia con il primo ministro dell’Etiopia, Abiy Ahmed, che ha messo fine a 20 anni di guerra tra i due paesi. L’intervento saudita presso gli Stati Uniti, insieme agli sforzi del nuovo primo ministro etiope, ha portato poi alla revoca delle sanzioni imposte nove anni fa all’Eritrea dalle Nazioni Unite, nonostante le accuse di violazioni dei diritti umani contro l’amministrazione di Afewerki.

Riad si è poi fatta promotrice del dialogo tra l’Eritrea e Gibuti, due paesi con una disputa quarantennale irrisolta riguardo la regione di Dumeira che, secondo il suo vicino, Asmara occuperebbe illegalmente. Le tensioni si erano di nuovo acuite nella regione proprio quando, lo scorso anno, il Qatar ha ritirato le proprie truppe di interposizione al culmine della crisi del Golfo. Il vertice di settembre a Gedda ha però permesso ai due paesi di riprendere i contatti ad alto livello. Asmara e Gibuti hanno così accettato di risolvere con il dialogo le proprie divergenze, che nel giugno 2008 portarono a una guerra di tre giorni. La disputa ha visto anche la mediazione somala, il cui presidente Mohamed Abdullahi Mohamed Farmajo ha ripreso le relazioni con Asmara e partecipa regolarmente ai numerosi vertici internazionali con il premier etiope e con il capo di stato eritreo.

Tuttavia, secondo l’International Crisis Group (ICG), “le rivalità tra le potenze del Golfo possono anche seminare instabilità”, come mostrano proprio le “ripercussioni sulla Somalia”. Il paese africano “è stato preso nel mezzo di questi sforzi per cercare di espandere l’influenza sia commerciale che militare (dei paesi coinvolti) lungo la costa”, ha detto Rob Malley, presidente dell’ICG.

Mentre il Qatar e la Turchia, i cui investimenti si concentrano quasi tutti a Mogadiscio, sostengono Farmajo e l’autorità centrale, gli Emirati Arabi Uniti, che considerano sempre più le coste somale e del Corno d’Africa il “fianco occidentale del proprio fronte di sicurezza”, hanno stretto più volentieri accordi con i governi regionali, come quello della regione autonoma somala del Puntland, o con entità considerate ribelli dal governo federale, come l’autoproclamata repubblica del Somaliland.

Mappa della Somalia, situazione nel 2017

Fino a pochi anni fa, l’interesse internazionale per la Somalia era limitato al contenimento della pirateria, che rischiava di danneggiare il commercio internazionale nello stretto di Bab el-Mandeb e sulle principali rotte per l’esportazione del petrolio. La situazione era tanto grave che nel dicembre 2008 l’Unione europea lanciò l’operazione Atalanta, nell’ambito della missione diplomatico-militare EU NAVFOR Somalia, che mira a proteggere le navi mercantili che transitano tra il Mar Rosso, il Golfo di Aden e l’Oceano Indiano e a prevenire e reprimere gli atti di pirateria marittima lungo le coste del Corno d’Africa, secondo le risoluzioni ONU n. 1814, 1816, 1838 e 1846 adottate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Lo scenario è cambiato nel 2011 quando i miliziani del gruppo terroristico al-Shabaab, legato ad al-Qaeda, si sono ritirati da Mogadiscio, permettendo così l’insediamento di un governo riconosciuto dalla comunità internazionale, che cerca tuttora a fatica di riconquistare il paese africano, in parte ancora in mano a gruppi armati che non rispondono all’autorità centrale. Allora, Ankara cominciò i propri progetti umanitari in Somalia, che fecero da apripista agli investimenti turchi. Oggi, la Turchia è diventata il maggior investitore straniero nel paese africano, che ha un disperato bisogno di investimenti esteri, soprattutto in infrastrutture.

I fondi provenienti dai contendenti della disputa interna al fronte sunnita in Medio Oriente potrebbero permettere il rilancio dell’economia di Mogadiscio, ma anche destabilizzare ulteriormente il paese intensificando le tensioni tra il governo centrale, alleato con Turchia e Qatar, e Puntland e Somaliland, che ricevono entrambe finanziamenti dagli Emirati Arabi Uniti, scatenando così una crisi costituzionale di cui solo il gruppo terroristico al-Shabaab, che controlla ampie zone nel sud, e il sedicente Stato Islamico, la cui presenza è sporadica ma radicata nel nord, potrebbero approfittare. Queste rivalità potrebbero infatti avere ripercussioni anche sul campo di battaglia.

A metà aprile, la Somalia e gli Emirati Arabi Uniti hanno messo fine a quasi quattro anni di cooperazione militare. Dal 2014, Abu Dhabi addestrava e pagava gli stipendi delle truppe di stanza a Mogadiscio e di circa 1.000 poliziotti nella regione del Puntland. Il punto di rottura tra i due governi ruota intorno a una confisca e al sospetto dell’amministrazione somala che il paese arabo stia giocando su più tavoli.

L’8 aprile le autorità di Mogadiscio hanno sequestrato una grande somma in denaro contante giunta nel paese con un volo partito dagli Emirati Arabi Uniti, di cui resta ancora sconosciuta la destinazione. Tre valigie, contenenti 9,6 milioni di dollari e che dovevano essere ritirate dall’ambasciatore del paese arabo a Mogadiscio, Mohammed Ahmed Othman Al Hammadi, sono state sequestrate dalle autorità e trasferite alla Banca centrale della Somalia. L’entourage di Al Hammadi ha cercato di prelevare il denaro all’aeroporto, ma è stato fermato dalle forze di sicurezza somale che ne hanno ispezionato i bagagli. Abu Dhabi sostiene che 47 militari presenti sull’aereo siano stati aggrediti e detenuti illegalmente e che i fondi confiscati fossero destinati a pagare i salari dei soldati somali, ma Mogadiscio non crede a questa versione, visto che l’intero salario per l’esercito è inferiore a 1 milione di dollari. Non è ancora noto a chi fossero destinati questi fondi, ma per ritorsione gli Emirati Arabi Uniti hanno anche chiuso un ospedale che offriva assistenza gratuita in Somalia.

Inoltre, Abu Dhabi ha dirottato diversi fondi destinati a Mogadiscio verso il governo regionale del Puntland, che nel 1998 si era proclamato indipendente e che poi ha riconosciuto l’autorità centrale in cambio di un’ampia autonomia. Gli Emirati Arabi Uniti hanno poi deciso di addestrare le forze di sicurezza del Somaliland come parte di un accordo per costruire una base militare nell’autoproclamata repubblica, considerata dalla Somalia una provincia ribelle. L’esistenza di un’ulteriore disputa territoriale tra Puntland e Somaliland non è in contraddizione con l’intervento di Abu Dhabi.

A maggio, alcuni combattimenti avvenuti tra le forze militari del Puntland e del Somaliland hanno provocato decine di morti nella città di contesa di Tukaraq, situata a 90 chilometri da Garowe, capitale amministrativa dello stato somalo, nella regione di East Sool. A gennaio, gli eserciti dei due territori si sono scontrati direttamente per la prima volta da anni. Gli scontri sono ripresi il 15 maggio e ancora il 29. Il controllo della regione è qualcosa a cui nessuno dei due governi vuole rinunciare. L’autoproclamata repubblica del Somaliland rivendica l’area di confine con il Puntland come parte del proprio territorio dalla sua dichiarazione unilaterale di indipendenza, avvenuta nel 1991. Tuttavia, questa zona è popolata da alcuni clan vicini a quelli residenti in Puntland e questo è fonte di tensioni nella zona. Il prossimo anno sono previste nuove elezioni nello stato somalo, a cui il presidente Abdiweli Mohamed Ali Gaas non può permettersi di presentarsi mostrando debolezza nei confronti dell’autoproclamata repubblica.

Gli Emirati Arabi Uniti, che investono in maniera importante in entrambi i territori, in particolare nei porti di Bosaso (Puntland) e Berbera (Somaliland), potrebbero anzi costituire un fattore pacificatore nella disputa.

Gibuti, la guerra degli approdi e i casi Doraleh, Berbera e Suakin

Il braccio armato della politica di Abu Dhabi nella regione è la compagnia Dubai Ports (Dp World), che gestisce 78 porti in oltre 40 nazioni. La società è impegnata nello sviluppo del porto di Boosaaso, in Puntland, e in quello di Berbera, in Somalia. Proprio quest’ultimo contratto, firmato con il territorio ribelle e con l’Etiopia, ha scatenato la reazione della Somalia, il cui parlamento ha vietato alla compagnia di operare nel paese africano, un ordine evidentemente ignorato dal Puntland.

Gli Emirati Arabi Uniti non solo non hanno rinunciato al progetto di Berbera, ma hanno aumentato il proprio impegno per la gestione di questo porto, vista la conclusione di una disputa con il vicino Gibuti. Il paese africano, situato in una posizione strategica, ha infatti revocato la concessione a Dp World dell’importante terminal di Doraleh, al centro di un caso legale internazionale.

Il terminal era gestito dalla società araba dal 2006 sulla base di una concessione a lungo termine. Nel 2014 però, il governo di Gibuti ha contestato il contratto accusando la compagnia, controllata dal governo di Dubai, di aver pagato tangenti per ottenere una concessione di 50 anni. Il governo di Gibuti ha così sequestrato il porto, una decisione che ha portato Dubai a presentare due denunce alla Corte d’arbitrato internazionale con sede a Londra, che si è pronunciata a favore della società. Il 22 febbraio 2018, il governo del paese africano ha posto termine al contratto, provocando un nuovo ricorso alla Corte d’arbitrato di Londra da parte di Dp World.  Il 31 luglio, questa Corte ha emesso un lodo arbitrale parziale, secondo cui Gibuti non può risolvere il contratto in base alla legge dell’8 novembre 2017 approvata nel paese africano. Secondo tale sentenza, il contratto risulta ancora in vigore. Il governo di Gibuti non riconosce però il lodo arbitrale e il 31 agosto, l’Alta Corte britannica ha emesso un’ingiunzione che impedisce alla società portuale di Gibuti, Port de Djibouti SA (PDSA), di porre fine al suo accordo con gli azionisti della joint venture formata con la società emiratina. Il 9 settembre, il presidente di Gibuti, Ismail Omar Guelleh, ha emesso un decreto che trasferiva la partecipazione della società di gestione Port de Djibouti SA (PDSA) nel Doraleh Container Terminal SA (DCT) direttamente al governo. La compagnia emiratina DP World possiede una partecipazione del 33,33 per nella joint venture DCT formata con PDSA e con la China Merchants Port Holdings Company Ltd di Hong Kong. Nonostante il decreto di Guelleh violi un’ingiunzione dell’Alta Corte britannica che impedisce a PDSA di utilizzare la propria partecipazione per assumere il controllo della società di gestione, Dp World ha fatto sapere a ottobre che intende rinunciare al porto per concentrarsi sulle proprie attività in Somaliland.

Qui, gli Emirati Arabi intendono costruire anche una base navale militare con un progetto da 90 milioni di dollari affidato alla Divers Marine Contracting. L’iniziativa prevede una banchina lunga 300 metri e profonda 7 che dovrebbe ospitare le imbarcazioni emiratine che sorvegliano il golfo di Aden. Il porto si trova a circa 260 chilometri dallo Yemen, dove gli Emirati Arabi Uniti sono impegnati nella guerra contro i ribelli sciiti filo-iraniani huthi, che controllano al momento il porto occidentale yemenita di Hodeidah, da cui lanciano attacchi verso le navi saudite ed emiratine di passaggio nello stretto di Bab el-Mandeb.

La decisione di Abu Dhabi di schierare truppe in un territorio considerato ribelle non è piaciuta a Mogadiscio, che si è avvicinata ancora di più alla Turchia. Non a caso, il ministro della Difesa turco nonché ex capo di Stato maggiore delle forze armate, Hulusi Akar, ha incluso la Somalia nel suo tour diplomatico tenuto a novembre in Africa.

La presenza militare emiratina nella regione non si limita però alla Somalia. Il paese arabo possiede infatti una base militare nel porto di Assab, in Eritrea, da cui lancia i propri attacchi aerei sullo Yemen. Secondo l’International Crisis Group (ICG), la disputa con Gibuti ha accelerato l’interventismo di Abu Dhabi nella regione, in questo senso si spiegano gli accordi per lo sviluppo di Berbera e Boosaaso, secondo la strategia di “riempire tutto lo spazio disponibile, prima che lo facciano gli altri”. Secondo la stessa politica, Abu Dhabi ha scelto di schierare le proprie forze anche sull’isola di Socotra, in Yemen, situata proprio all’imboccatura dello stretto tra Corno d’Africa e penisola araba. L’isola è stata oggetto di una disputa tra il governo dello Yemen, riconosciuto dalla comunità internazionale e appoggiato dalla coalizione araba a guida saudita, e le milizie finanziate dagli Emirati Arabi Uniti che ne hanno occupato l’aeroporto e il porto, prima di raggiungere un accordo per il loro ritiro da questo territorio, che è tornato sotto il controllo dell’autorità legittima yemenita. Il governo internazionalmente riconosciuto del presidente Abd Rabbuh Mansour Hadi ha preso a fine novembre anche il controllo del porto di Mukalla, nella provincia sud orientale di Hadramaut, dove la coalizione araba a guida saudita ha consegnato ufficialmente alla Guardia costiera yemenita le responsabilità in termini di sicurezza portuale e in mare su una costa che si snoda per 350 chilometri e vede la presenza di 7 grandi porti e decine di piccoli approdi. Aden, capitale provvisoria dello Yemen e il suo porto, il maggiore del paese, restano però sotto il controllo della coalizione a guida saudita.

La guerra in Yemen e l’importanza strategica della via marittima rappresentata dallo stretto di Bab el-Mandeb giustificano la presenza di numerosi contingenti militari nella regione, concentrati soprattutto a Gibuti. Il paese ha un’estensione di 23.200 chilometri quadrati, un po’ più di Israele e un po’ meno del Ruanda, con una popolazione di un milione di abitanti, inferiore a quella di Cipro. Nelle sue acque passano ogni giorno quasi 5 milioni di barili di petrolio, pari al 35% del trasporto globale in mare di oro nero. Gibuti ospita un gran numero di basi militari straniere, tra cui quelle di Stati Uniti, Cina, Francia, Arabia Saudita, Giappone, nonché l’unica base militare all’estero dell’Italia.

Nel 2017, Gibuti ha inaugurato tre nuovi porti e una linea ferroviaria che lo collega all’Etiopia, mentre il paese mira a diventare la piattaforma commerciale privilegiata della regione. A luglio, il governo ha inaugurato quella che diventerà la più grande zona franca del continente africano, che consentirà a Gibuti di sfruttare appieno la sua posizione all’ingresso del mar Rosso. Questo progetto è stato finanziato dalla Cina, che intende inserire il paese nella cosiddetta Via della Seta marittima per collegare le proprie industrie ai mercati europei. Gibuti gestisce poi più del 95% degli scambi con l’estero dell’Etiopia, ma ora teme la concorrenza della vicina Eritrea, dopo la firma del trattato di pace tra Asmara e Addis Abeba. A settembre, il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha visitato i porti eritrei di Assab e Massawa. In particolare, il primo può avere per l’Etiopia un’importanza strategica, visto che il tragitto tra questo impianto e molte aree sviluppate del paese africano è infatti più breve rispetto a quello per Gibuti, raggiungibile per via ferroviaria solo da Makalle’, e ciò potrebbe favorire la nascita di nuovi collegamenti, divenendo di fatto un moltiplicatore della crescita per l’Etiopia, che sta investendo proprio sulle infrastrutture.

Asmara sta diventando sempre più importante in questa disputa per il controllo degli approdi della regione. A settembre, persino la Russia ha annunciato l’intenzione di realizzare un centro logistico in Eritrea. Secondo l’analista Paul Stronski del Carnegie Endowment for International Peace, Mosca “non può offrire prodotti di consumo come la Cina, ma vendere armi e cancellare debiti in cambio di accordi per l’esplorazione di idrocarburi e altre materie prime”. Il paese africano possiede infatti ingenti riserve di rame, zinco, oro, argento e potassio. Al momento in Eritrea sono attive due miniere: quella di Bisha, che produce oro, rame e zinco ed è gestita dalla Nevsun Resources in collaborazione con il governo di Asmara, e la miniera d’oro di Zara, anch’essa sfruttata in società con l’amministrazione eritrea dalla società cinese Shanghai Sfeco. Un’altra miniera, quella di Colluli, uno dei giacimenti di cloruro di potassio più grandi al mondo, dato in gestione all’australiana Danakali, produrrà cloruro di potassio e inizierà le proprie attività entro la fine dell’anno. Per aumentare le proprie capacità di esportazione, Asmara sta valutando la realizzazione di un nuovo porto nella Baia di Anfile, a circa 75 chilometri a est di Colluli. L’Eritrea non è solo terra di estrazione di risorse, ma anche di passaggio. Ad agosto, gli Emirati Arabi Uniti hanno infatti fatto sapere che intendono costruire un oleodotto che colleghi il porto eritreo di Assab con la capitale etiope Addis Abeba.

L’Etiopia non è però solo un potenziale mercato da oltre 100 milioni di consumatori, ma intende sviluppare nei prossimi anni i propri giacimenti di gas, fino a realizzare un gasdotto da 1,2 miliardi di dollari che colleghi le riserve dell’Ogaden al mare, attraverso Gibuti o l’Eritrea. Il paese potrebbe ricavare fino a 7 miliardi di dollari all’anno da questo settore.

All’interventismo emiratino nel Corno, il fronte turco-qatariota ha risposto con ingenti investimenti in Sudan, un paese tradizionalmente ostile ad Asmara. La presenza di risorse tanto importanti nel mar Rosso e i legami storici con Khartoum hanno infatti permesso alla Turchia di ottenere l’affitto del porto di Suakin, un’isola situata nel mar Rosso tra Sudan e Arabia Saudita, facendo emergere nel mondo arabo sospetti che Ankara voglia stabilirvi una base militare. A novembre, durante la visita del ministro della Difesa turco Hulusi Akar a Khartoum, i due paesi hanno firmato un accordo di cooperazione militare, che riguarda in particolare la formazione delle forze armate e dell’anti-terrorismo. A luglio, i due paesi avevano già firmato un accordo di associazione per promuovere gli scambi bilaterali. Poche settimane fa, i due governi hanno raggiunto altri accordi per la cooperazione nei campi dell’energia, dell’agricoltura, dell’allevamento, dei trasporti, dell’aviazione civile, della sanità e dell’istruzione. Ankara ha ottenuto una concessione di oltre 780mila ettari di terreno agricoli per i propri investitori, mentre la Turkish Petroleum Corporation (TPAO) investirà 100 milioni di dollari nel paese alla ricerca di idrocarburi. I due paesi mirano a incrementare gli scambi bilaterali dagli attuali 500 milioni di dollari a 10 miliardi entro i prossimi cinque anni.

In che direzione va la regione?

D’altra parte, la Turchia ha ampliato la propria presenza economica in Africa da quando ha adottato il suo Piano di espansione africano nel 1998, tenendo in questi anni due vertici di cooperazione per promuovere il commercio nel continente. Il volume totale degli scambi commerciali della Turchia con l’Africa è salito a quasi 20 miliardi di dollari alla fine del 2017 dai 5,4 miliardi del 2003 ed è tuttora in crescita. La maggior parte di questi sono stati finora investiti in Sudan e Somalia.

Ma i due paesi ricevono ingenti somme soprattutto da Doha. Gli investimenti del Qatar in Sudan rappresentano infatti buona parte degli investimenti diretti esteri nel paese africano. In particolare, Doha investe in Sudan attraverso la Qatar National Bank (QNB), il fondo Diar Real Estate Investment, le società Widam, Hassad Food Company, Barwa Real Estate Group, Qatar Mining, Silatech, oltre alle fondazioni Education Above All, Qatar Museums, Qatar Charity e la Mezzaluna Rossa dell’emirato. Il paese arabo finanzia anche cinque progetti umanitari in Darfur e il Fondo di Sviluppo delle Nazioni Unite per questa regione, dove il Qatar ha svolto storicamente un ruolo di mediazione tra il governo e i principali gruppi armati ribelli. Doha finanzierà poi lo sviluppo del porto di Suakin, affidato alla Turchia. Nel 2017, gli investimenti del Qatar in Sudan hanno superato i 3 miliardi di dollari, con la sola Qatar Mining Company (QM) che investirà oltre un miliardo nel settore minerario. L’emirato è presente anche in Somalia, dove ha recentemente finanziato il governo centrale con un esborso di 385 milioni di dollari. 

Da parte sua, il 12 dicembre l’Arabia Saudita ha annunciato la creazione di un “raggruppamento” di paesi del mar Rosso e del Corno d’Africa, allo scopo di “migliorare la stabilità, la sicurezza e il commercio nella regione”. Il gruppo comprende Egitto, Gibuti, Somalia, Sudan, Yemen e Giordania. “Attraverso questo raggruppamento, saremo in grado di cooperare su tutte le questioni economiche, ambientali e di sicurezza”, ha detto il ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir. “Questo gruppo contribuirà a creare armonia in questa regione sensibile e impedirà a qualsiasi forza esterna di svolgere un ruolo negativo”.

Le rivalità tra le maggiori potenze sunnite del Medio Oriente nel Corno d’Africa sono ben lungi dall’attenuarsi e se possono rappresentare un fattore di ricomposizione delle piccole ma sanguinose dispute locali, rischiano di portare instabilità nella regione polarizzando i governi locali in questioni che poco hanno a che fare con l’interesse delle popolazioni residenti.

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