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Home » News

Come il PD ha costruito negli anni la sua sconfitta a Roma

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La sconfitta di Giachetti a Roma è figlia di errori che iniziano ben prima della vicenda Mafia Capitale e delle dimissioni di Ignazio Marino

Il 19 giugno i romani hanno eletto al ballottaggio Virginia Raggi del Movimento Cinque Stelle come nuovo sindaco con una percentuale di voti molto elevata, il 67 per cento. Una percentuale che risulta ancora più alta se si pensa che è più del doppio di quella raggiunta dal candidato del Partito Democratico Roberto Giachetti, fermo al 32 per cento.

S&D

Un risultato che da un lato può risultare sorprendente – la capitale d’Italia vinta per la prima volta dal Movimento Cinque Stelle, la prima donna sindaco di Roma -, ma da un altro punto di vista che era in parte prevedibile, per via di quella serie di problemi da Mafia Capitale alla grottesca vicenda delle dimissioni di Ignazio Marino che vedevano coinvolto il Partito Democratico di Roma, con le conseguenze elettorali del caso.

In poche parole, le cause che hanno portato il centrosinistra a diventare da protagonista di una stagione amministrativa che le cronache hanno descritto come “modello Roma” a protagonista di vicende oggi al vaglio dei magistrati nell’ambito di Mafia Capitale nonché della vicenda amministrativa di Ignazio Marino, vanno trovate diversi anni prima.

L’inizio della disfatta del PD romano di domenica 19 giugno inizia con un’altra disfatta, quella del 2008, quando Roma, che era amministrata dal centrosinistra ininterrottamente dal 1993, dopo 15 anni passò nelle mani del centrodestra grazie alla vittoria di Gianni Alemanno. A pesare sulla scelta dei romani fu anche la candidatura di Francesco Rutelli, che già aveva fatto il sindaco tra il 1993 e il 2001, che fu vista come una scelta legata al passato e imposta dai vertici dei partiti, che non puntava a dare una reale svolta alla città.

Una sconfitta pesante per il centrosinistra. Ma come i militanti del Partito Democratico hanno scritto in un cartello lasciato fuori dalla sezione del Trionfale dopo la vittoria di Virginia Raggi, “a volte si vince, altre si impara”. E quella era una di quelle volte in cui il PD di Roma doveva imparare.

Nello stesso giorno della vittoria di Alemanno, i romani oltre che il sindaco eleggevano anche il presidente della provincia. E nel solo comune di Roma, gli stessi cittadini che preferivano Alemanno a Rutelli, preferirono il candidato del centrosinistra Nicola Zingaretti ad Alfredo Antoniozzi.

Circa 60mila romani, nello stesso giorno, scelsero il candidato di centrodestra a sindaco di Roma e quello di centrosinistra alla Provincia, mostrando quindi sia di non votare secondo appartenenza, sia di aver punito il centrosinistra per una candidatura non convincente.

Il centrosinistra, dunque, aveva tutti gli elementi per imparare da quella sconfitta. Ma l’unica alternativa al nuovo sindaco Alemanno che iniziò a costruire, fin da subito, fu più o meno tacitamente dire che, cinque anni dopo, avrebbero candidato Zingaretti sindaco di Roma, dal momento che i romani lo avevano già votato in maggioranza una volta e lo avrebbero potuto preferire senza problemi ad Alemanno.

La serenità di una vittoria del centrosinistra ai termini del primo mandato di Alemanno si rafforzava con il passare del tempo. I sondaggi rilevavano la scarsa popolarità del sindaco, tutti i voti che si sono tenuti a Roma confermavano come la maggioranza dei romani continuasse a votare centrosinistra, anche in elezioni come le Europee del 2009 o le Regionali del 2010, andate male per il Partito Democratico.

Tuttavia, lasciar capire che si candiderà Zingaretti senza costruire un programma non è politica. E quello che tra il 2008 e il 2013 è mancato al Partito Democratico di Roma è stato appunto il costruire un’idea di città, il creare una vera alternativa più credibile possibile. In altri termini, è mancata la politica.

Questa assenza di politica, sostituita principalmente da un continuo “no ad Alemanno”, ribattezzando il sindaco spesso e volentieri “Aledanno”, ha creato un vuoto notevole. Questo vuoto è stato colmato da quella che il commissario del PD di Roma Matteo Orfini ha definito in un post su Facebook successivo alla vittoria della Raggi come “una logica consociativa” che ha reso tutto lecito, dall’imbarcare al proprio interno un ceto politico di destra, a truccare i congressi fino a rendere i circoli del partito feudi dei politici locali di turno.

La presunta organizzazione Mafia Capitale, emersa pubblicamente in una serie di arresti all’interno del mondo politico romano tra il 2014 e il 2015, è attualmente al vaglio dei magistrati all’interno di un processo. Ma ciò che è emerso, in attesa che la giustizia decida se vi sono stati o meno dei reati, fa emergere proprio una mentalità simile a quella descritta da Orfini.

Il risultato è stato dunque dare la priorità a una mentalità autoreferenziale interna al PD di Roma, ai suoi congressi e ai suoi circoli, abbandonando così le reali necessità dei cittadini della capitale, soprattutto nelle zone più periferiche.

Walter Tocci, ex vicesindaco di Roma tra il 1993 e il 2001 e oggi senatore del PD, ha descritto nel suo libro Sulle orme del gambero come a partire dagli anni Ottanta, nella capitale abbia avuto luogo l’inizio di un mutamento sociale che negli anni di opposizione del centrosinistra ad Alemanno ha avuto una notevole accelerazione.

La cosiddetta cintura rossa, quei quartieri nel settore est di Roma, sede di numerose borgate nate abusivamente, tante volte raccontate da Pier Paolo Pasolini, ha visto tra il suo elettorato prima l’avanzamento della Democrazia Cristiana, specialmente la sua ala più di destra rappresentata dal parlamentare romano Vittorio Sbardella, quindi di Alleanza Nazionale.

In questa maniera, in quella periferia la sinistra ha iniziato a vacillare, resistendo però in quella periferia “storica”, con il passare degli anni maggiormente integrata nel tessuto urbano, mentre ha iniziato a consolidarsi sempre più in aree storicamente di destra, divenute negli anni sedi di un “ceto riflessivo” medio-alto borghese più vicino al centrosinistra. Questo ha portato al dato, che sarebbe stato considerato paradossale negli anni Settanta, di un centrosinistra vincente ai Parioli e sconfitto a Tor Bella Monaca.

Un processo, come dicevamo, accelerato negli anni dell’opposizione ad Alemanno, in cui il ceto riflessivo dei quartieri un tempo di destra ha continuato, non toccato da questa logica territoriale, a votare centrosinistra, mentre nei quartieri periferici il distacco tra il partito locale e i cittadini è cresciuto nettamente.

Questo fatto è stato particolarmente netto nei quartieri di nuova costruzione, quasi tutti fuori dal Grande Raccordo Anulare ma sempre più abitati, e in cui si trovano la maggior parte dei circoli del PD che la relazione dell’ex ministro Fabrizio Barca ha identificato come in mano a singoli esponenti politici invece che luoghi dove si fa politica.

In quei cinque anni tutto ciò che abbiamo appena raccontato si è sviluppato in maniera notevole, ma arrivati nel 2012, a meno di un anno dalle elezioni amministrative, alla fine Nicola Zingaretti annunciò in un evento pubblico che si sarebbe candidato sindaco di Roma. L’unico vero punto programmatico del centrosinistra all’opposizione di Alemanno venne dunque messo in atto, almeno provvisoriamente.

Lo stesso anno, infatti, in seguito a un’inchiesta relativa a fondi pubblici elargiti a consiglieri regionali per ragioni non politiche, la presidente del Lazio Renata Polverini rassegnò le proprie dimissioni, portando la regione alle elezioni anticipate.

Per il febbraio 2013, il centrosinistra, privo di un candidato e colto di sorpresa da elezioni che arrivavano con poco più di due anni di anticipo, decise di percorrere la via più semplice, schierando Nicola Zingaretti – unico nome che aveva già avviato una campagna – per elezioni che sembravano veramente una formalità per il centrosinistra, e che infatti Zingaretti vinse in scioltezza.

Tuttavia, così facendo, non c’era più un candidato spendibile per il comune di Roma. L’unica persona che fino a quel momento aveva dato luogo in maniera del tutto isolata a una candidatura alternativa a Zingaretti era Patrizia Prestipino, ex presidente del XII Municipio, che non godeva né degli appoggi né della visibilità del nuovo presidente della regione.

Si andarono quindi a convocare delle primarie cui, oltre alla Prestipino, si candidarono l’ex ministro delle Comunicazioni (e oggi degli Esteri) Paolo Gentiloni, l’europarlamentare David Sassoli, la consigliera comunale di Sel Maria Gemma Azuni e il giovane socialista Mattia Di Tommaso.

In mezzo a tanti candidati che non convincevano a pieno la dirigenza del PD locale, alcuni settori del partito fecero in modo che se ne aggiungesse un altro, di maggiore visibilità, che potesse vincere le primarie e affrontare serenamente le elezioni contro Alemanno: Ignazio Marino.

Senatore del PD, Marino non è romano, seppur nella capitale ha fatto liceo e università. Non aveva sicuramente la conoscenza di una città complessa come Roma, ma a questo potevano ovviare uno staff competente, un partito autorevole e un programma chiaro. Unico problema? Il programma e l’idea di città erano completamente assenti, il partito veniva da cinque anni in cui non aveva fatto politica. E la vittoria di Marino su Alemanno, arrivata in modo netto e accolta da molti come una novità, nasceva con questi peccati originali.

Il disastro successivo, sfociato nelle dimissioni del consiglio comunale che hanno portato alla caduta di Marino, è solo la conseguenza di tutto questo. E la sconfitta di Giachetti, netta, e che rispetta in modo incredibile il flusso elettorale che aveva indicato Walter Tocci, è l’ulteriore conseguenza di questa situazione. Una serie di errori iniziati ben prima di quanto si possa pensare e che sono arrivate, in un giorno di metà giugno, alla più naturale conseguenza.

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