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Belgistan

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Davide Lerner di TPI vi porta nel comune vicino a Bruxelles dove la polizia ha arrestato sette presunti attentatori per gli attacchi di Parigi

Bastano venti minuti di metropolitana per spostarsi da Schuman, la piazza su cui si affacciano i palazzi delle principali istituzioni europee, e Molenbeek, il comune arabo dove la polizia ha arrestato sette persone accusate di aver partecipato all’organizzazione degli attacchi di Parigi.

Due mondi che si toccano soltanto geograficamente, visto che la bolla di funzionari e politici dell’Unione europea nulla ha a che vedere con questo comune disagiato di quasi 100mila abitanti accatastati in qualche chilometro quadrato a poca distanza dal centro di Bruxelles. Tutti di origine mediorientale o nordafricana, molti non sanno neppure parlare in francese.

Fra i giovani il tasso di disoccupazione è superiore al 40 per cento e molti, come spiega una signora di mezza età di nome Fathima, scelgono di partire missionari per la Siria. “Conosco tantissime famiglie che hanno visto i propri figli andarsene in cerca di martirio”, racconta, “è paradossale, mentre i nostri giovani sognano di salpare per il Levante, tanti dei loro scappano per cercare di rifugiarsi qui”.

Lo conferma il deputato belga Ahmed El Khannouss, che fa anche parte della giunta comunale di Molenbeek. “Conosciamo almeno 20 famiglie della zona che hanno perso un figlio in guerra”, dice, “ci sono indubbiamente soggetti radicali che fanno proselitismo qui, ma secondo me il canale principale del lavaggio di cervello sono i social network”.

Proprio mentre TPI cerca di approfondire il “j’accuse” che il deputato rivolge a Facebook, una donna visibilmente scossa lo strattona portandolo in disparte. Circondata da familiari e amici che fanno muro supplica El Khannouss: “sono la moglie di Mohammed, uno degli arrestati. Da quando la polizia l’ha preso non ho più saputo nulla”. “Non ho potuto fare altro che consigliarle di trovare un avvocato”, spiegherà dopo El Khannouss. 

Molenbeek è un comune impaurito. Dagli arresti, certo, ma soprattutto dai riflettori che si sono accesi su questa zona abitualmente dimenticata a partire dal giorno degli attentati. Le strade sono insolitamente vuote e dei bambini spiegano di dover tornare a casa perché “la mamma ha detto che in giro si rischia di mettersi nei guai”.

(Nella foto qui sotto: la polizia belga a Bruxelles) 

I bar, però, sono una tribuna rigorosamente maschile che segue gli sviluppi delle investigazioni senza distrarsi. Nabil, il gestore del salone da tè Al Jazeera, ha una tesi originale da suggerire a TPI. “Proprio qui dietro sono avvenuti due arresti nella giornata di ieri ma posso garantirvelo, è gente che non ha fatto nulla”, dice servendo il classico tè alla menta.

“Sono gli ebrei i responsabili degli attacchi di Parigi, e i francesi, e gli americani. Sono sempre loro che si inventano dello Stato islamico per giustificarsi”. Le sue parole fanno sorridere alcuni avventori del bar di Chaussée De Gand, il luogo esatto dove la polizia ha bloccato due sospetti durante la giornata di ieri.

Uari, un algerino, ghigna ma non si dice sorpreso che circolino di queste teorie: “il cospirazionismo è di casa qui, e alcuni gruppi di estremisti ci additano come miscredenti se non ci uniformiamo alle loro assurdità”.

Nordin, un altro abitante del comune, racconta di conoscere alcuni ragazzi che si sono radicalizzati: “gente ignorante, che passa dallo spaccio di droga e l’alcolismo alla predicazione dell’islamismo integralista. Hanno legami con varie organizzazioni armate, ma io li spedirei a calci in Arabia Saudita se davvero vogliono la Shaaria”. 

Esperto delle dinamiche di radicalizzazione è Fabio Merone, ricercatore italiano che ha sulle spalle decenni di ricerca e approfondimento sul tema dell’estremismo politico nell’Islàm. Alla base di tutto c’è la perdizione esistenziale, conferma lo studioso, ma per analizzare gli attacchi di Parigi serve lasciar perdere la psicologia e concentrarsi sulla geopolitica.

“Nelle ultime due settimane sono stati colpiti dal sedicente Stato islamico i principali attori internazionali che si sono immischiati nella guerra in Siria: la Russia, con l’aereo abbattuto nel Sinai, Hezbollah, fondamentale braccio armato di Assad che è stato colpito con un grosso attentato nella periferia sud di Beirut, e adesso la Francia”.

Merone spiega come l’intervento di Mosca e il crescendo dell’intifada dei coltelli in Palestina abbiano acceso gli animi negli ambienti islamisti legati ad Al Qaeda e all’Isis, che lui monitora attraverso i video di propaganda diffusi dal sedicente Stato islamico e da Al Zawahiri, leader di Al Qaeda.

“Sono circolati tantissimi video di vittime innocenti rimaste coinvolte nei raid russi in Siria, immagini per nulla contraffatte che hanno corroborato l’odio della propaganda islamista tradizionale; poi il crescendo si è sublimato negli attacchi di Parigi”. 

(Nella foto qui sotto: una veglia per commemorare le vittime di Parigi a Kathmandu, in Nepal. Credit: Sunil Sharma)

Secondo l’Institute of Study of War di Washington, lo Stato islamico si sarebbe addirittura espanso nell’ultimo mese di attacchi russi in sostegno di Assad. L’obiettivo è quello di ricreare l’unità politica della Ummah, la comunità musulmana divisa dal colonialismo europeo quasi un secolo fa.

Correva infatti il 1916 quando il ministro degli esteri francese François Georges-Picot incontrava l’omologo inglese Mark Sykes per dividersi le spoglie del morente Impero Ottomano, tracciando confini statali arbitrari la cui logica seguiva solo gli interessi delle due potenze. Al momento della cancellazione del confine fra Siria e Iraq gli uomini di Al Baghdadi avevano festeggiato sbeffeggiando gli accordi Sikes-Picot e promettendo vendetta alle ex potenze colonizzatrici.

“Ora sono in piena fase di state-building dopo aver cancellato i confini stabiliti da quel gentlemen’s agreement, che rimane un elemento fondamentale dell’odio dell’Isis verso la Francia”, dice Merone. A questo si aggiunga l’interventismo francese in politica estera che negli ultimi anni sembra ricalcare l’atteggiamento americano ai tempi di Bush, con le missioni in Libia, Mali e Sahel fino ad arrivare alla Siria. Si spiega in parte perché i jihadisti di Molenbeek abbiano lasciato Bruxelles per colpire Parigi. 

Cala così la sera su Molenbeek-Saint-Jean, il comune dei sospettosi e dei sospettati. Mentre i giornalisti incassano gli ultimi “j’ai rien entendu”, in italiano “non so nulla”, la popolazione timorosa e riservata comincia a chiudere le macellerie halal, i caffè dei ritrovi, le piccole moschee.

L’assessore ai servizi sociali Ann Gilles-Goris supplica di non giudicare il suo comune soltanto sulla base degli arresti, anche se racconta la difficoltà dei suoi figli a far venire gli amici in visita qui. Si schernisce quando le viene ricordato che anche l’organizzazione di Charlie Hebdo era passata dal suo municipio e rivendica i controlli che la giunta effettuerebbe nelle 20 moschee ufficiali della zona.

“Gli estremisti sono come i fantasmi, non si fanno certo vedere lì”, le fa notare un abitante inserendosi nella conversazione. “Adesso abbiamo tutti paura, chiunque può rimanere coinvolto in attacchi che prendono di mira civili sulla base di un’assoluta casualità”.

Le sirene della polizia illuminano di rosso e di blu le strade del comune, transitano rumorose in Rue Dubois-Thorn dove ieri uno degli arrestati ha cercato di darsi alla fuga fra la fermata della metropolitana Beekkant e quella di Osseghem. Le saracinesche dei negozi erano chiuse su ordine della polizia per facilitare l’operazione.

Il loquace deputato Ahmed El Khannouss non si stanca di commentare e cita il politologo statunitense Samuel Huntington, teorico dello scontro fra civiltà. Secondo la sua tesi il conflitto fra occidente ed Islam si sarebbe concretizzato quanto più duramente a livello locale, ma secondo il deputato “bisogna combattere il diffondersi di queste visioni pericolose della realtà”. Prima che si avverino.  

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